Gian Carlo Stella, agosto 1996
Quando l’incontrai la prima volta, la figlia primogenita del generale Orlando Lorenzini, mi apparve proprio come l’avevo immaginata. Una donna dei vecchi tempi, tanto nella slanciata giovanile figura, quanto nel portamento – gentile ed educato – e soprattutto nella parola. Immagine di un tempo trascorso, dove anche la breve gestualità, lo sguardo, o la piccola frase, assumono contorni e significati ben precisi, ormai perduti. Chiunque, al solo vederla, avrebbe provato la stessa sensazione. Nulla comunque di severo ed austero – non ne aveva neanche l’aspetto – ma sempre disponibile e di buon umore.
Si accese di entusiasmo quando le prospettai di far conoscere la figura del padre, attraverso un libro non fatto di luoghi comuni, ma di documenti e ricordi. Era orgogliosa del genitore – lo chiamava sempre rispettosamente “babbo” -, come se fosse rimasta bambina e il padre si trovasse momentaneamente nella stanza accanto.
Per la stesura del volume ci dividemmo i compiti: a lei mettere su carta i ricordi familiari e la ”decifrazione” delle centinaia di lettere che “babbo” scrisse a “mamma”, ed a me la parte archivistica e storica.
A Castiglioncello il padre Orlando amava ritirarsi per ritemprarsi dalle fatiche d’Africa; qui sposò la moglie Diana quel 18 agosto del 1928, qui gli giunse telegraficamente, il 1° novembre 1936, la proposta del generale Pesenti di un comando in Africa Orientale, finendovi la vita nella difesa di Cheren quel 17 marzo del 1941.
E di Castiglioncello e della famiglia egli stesso amò confidare al giornalista Curzio Malaparte, che ebbe poi a scrivere:
“… Una sera, sul costone dello Zendebur, un lembo della sua tenda si sollevò per il gran vento, mentre io passavo, e mi fermai, non so se sorpreso o spaventato, a guardar dentro la tenda: Lorenzini era in ginocchio, e pregava.
Mi parve di avergli rubato un segreto, ebbi vergogna di quel caso, come se ne fossi colpevole. Ero rimasto lì fermo, sperando che il vento si mettesse a soffiare più forte, per potermene scivolar via senza far rumore. Lorenzini era inginocchiato a mani giunte. A un tratto volse il viso, mi vide, si alzò, uscì dalla tenda venendomi incontro. Mi guardò fisso in silenzio. Veniva nel vento l’odore forte dei cadaveri sparsi qua e là nella macchie, sotto la luna. Poi mi strinse il braccio con la mano forte e calda, e mi parlò.
Mi disse che aveva lasciato sua moglie e le sue due bambine a Dessié. Non le vedeva da molti mesi. Disse “chi sa quando le rivedrò”.
… Gridavano intorno roche le jene per la funerea distesa di gialle stoppie, per le selvagge macchie di rovi. Il carnaio degli uccisi appesantiva il vento nel candore lunare. Così mi rivelò quella notte il segreto di Lorenzini; il segreto di quella sua forza serena, di quella sua pace, di quella sua timidezza., di quella sua severità verso se stesso e verso gli altri.
“Ho una casa a Castiglioncello – mi disse. – una casetta da nulla, me la son cresciuta col mio sudore di soldato, pietra per pietra, soldo per soldo. Io son povero, Malaparte”.
Era quello il suo modo di parlar della guerra: come di un duro lavoro. Mi disse che un giorno, quando si fosse sentito stanco e lo avessero mandato a casa, chi sa, si sarebbe preso un po’ di riposo nella sua casetta di Castiglioncello, con sua moglie e le sue bambine. Disse proprio “con le mie bambine” come se dovessero rimaner bambine tutta la vita…
Lo salutai per l’ultima volta a Sala Dinghei… La notte era severa, quasi minacciosa, come le notti dell’Argolide. Lorenzini si trattenne brevemente con me, nella valle che si stende erbosa sotto la rupe.
“Arrivederci, Malaparte” mi disse. Sentivo che gli dispiaceva staccarsi da me, forse per sempre.
Io ero commosso. Gli dissi: “Ti voglio bene, Lorenzini”. Gli dissi quelle parole a voce bassa, come se le pronunciassi, ragazzo, davanti a mio padre. Lorenzini mi guardò fisso, in silenzio.
Lo sentivo respirare in quell’ombra chiara. Poi mi disse: “se passi da Dessiè, fermati a salutare mia moglie e le mie bambine”.
Gli strinsi forte la mano, e fu quella l’ultima volta che gli strinsi la mano.
Ora è morto. In guerra muoiono i migliori. Qualche giorno dopo, quando passai da Dessié, era già notte, ero stanco. Non mi fermai a salutare la moglie e le bambine di Lorenzini. Ne ho rimorso, non mi posso perdonare quella triste pigrizia.
Ora è morto. A Cheren, alla testa dei suoi Battaglioni eritrei, là, in faccia agli inglesi. In guerra muoiono i migliori. E se un giorno incontrerò le sue bambine, dirò loro che ogni sera s’inginocchiava nella sua tenda, e pregava.
Ora è morto. In guerra muoiono i migliori. Poi mi farò coraggio, e dirò loro quel che egli mi disse quella volta, sotto la luna, sul costone dello Zendebur: che tutte le sere s’inginocchiava nella sua tenda, e pregava per le sue bambine”.
Chiesi poi a Paola se ebbe modo di incontrare Malaparte, e fu nell’agosto dello scorso anno, quando, rivedendola nuovamente a Castiglioncello mentre ero diretto a Napoli, mi confidò della malattia che le era appena stata riscontrata.
Pareva però che il fatto non l’avesse turbata più di tanto. Aveva smesso di fumare.
Quest’anno la incontrai a Pontedera, dove risiedeva, per gli ultimi ritocchi al volume. Era sempre lei, la Paola, tanto nel fisico quanto nell’entusiasmo.
Nel maggio, finalmente, il libro uscì, e nel telefonarmi prendemmo accordi per una successiva edizione del volume.
Poi, alle 12,50 di venerdì 27 agosto, una telefonata commossa di un conoscente mi informava dell’improvviso decesso, avvenuto nella tanto amata Castiglioncello. E’ difficile rappresentare sulla carta sensazioni e sentimenti. Preferiamo che tutto rimanga sospeso ed interpretato.
Mercoledì 28 agosto, sempre in Castiglioncello, si è svolta la funzione estrema nella chiesa principale, intitolata a Maria Immacolata Concezione. Nulla del triste evento vi era nei giornali locali, e nemmeno i muri delle vie segnalavano il lutto.
Ma la chiesa era egualmente gremita. La cerimonia, modestissima e severa, ha veduto la partecipazione dei soli congiunti e stretti conoscenti, attorniati al marito, figli e nipoti, affranti e sgomenti innanzi al mistero della morte.
Funzione semplice e breve, e noi, che conoscemmo solo Paola, e che attraverso lei abbiamo avuto fortuna di conoscere nell’intimo anche la figura del padre, non ci è difficile immaginarla col suo consueto sorriso, assieme a “babbo”, “mamma” e le sorelle.