.Nicky Di Paolo, 1-02-05.
Il viottolo, stretto e ciottoluto, si inerpicava fra massi e lastre di granito di notevoli dimensioni, tanto ben squadrati da sembrare di trovarsi nel cortile di una marmifera e non lontani da qualsiasi centro abitato e nel bel mezzo dell’Africa tropicale. Bei cespugli di gardenia e di gelsomino, piante di fichi d’India, olivi selvatici, euforbie a candelabro, agavi gigantesche, grandi ginepri e sicomori, fiori selvatici di ogni tipo con intorno tante farfalle, profumi di erica, di lavanda, di mimosa, fugaci apparizioni di variopinti volatili, silenzio rotto da qualche folata di brezza che saliva dalla costa, dai canti di tanti uccelli, e da qualche urlo di scimmia, assicuravano il viandante di essere nel posto giusto; per essere più precisi il sentiero, non cercatelo sulle carte perché non lo troverete facilmente, partiva da Moncullo, villaggio nei pressi di Massaua, si dirigeva in linea diretta verso l’acrocoro e passando nei pressi dei paesi di Gumhod,
Asus e Sciabba si inerpicava verso l’alto fino a raggiungere Menuetec l’abitato più vicino al monte Merrara che si ergeva come una balda sentinella con i suoi 2390 metri di altezza sul bassopiano orientale segnando il limite superiore delle pendici orientali dell’ Eritrea. Il sentiero continuava poi a snodarsi nell’altipiano, raggiungeva il paese di Cheren per chissà poi dove terminare. Quale fosse la sua destinazione finale non lo sapeva certo Woldemariam che fino a Cheren non si era mai spinto. In quel momento lui stava percorrendo la stradina in salita che da Gumhod era diretta a Munetec, villaggio situato a 1300 metri di altezza e che distava da Massaua due giorni di cammino, percorso di buona lena naturalmente.
Mentre camminava il giovane uomo teneva lo sguardo vigile rivolto verso il basso: erano molte le persone che lo avevano messo in guardia; lungo quel particolare tratto di strada, tanti viandanti erano stati punti da scorpioni, velenosi naturalmente e, in caso di morso, non avrebbe avuto scampo, lui lo sapeva bene. Chi mai avrebbe potuto soccorrerlo? Per quel sentiero non transitavano più di due o tre persone al giorno.
Certo che se avesse avuto un muletto, sarebbe stata tutta un’altra cosa; intanto non avrebbe dovuto camminare per tutto il tragitto, e poi quell’animale benedetto era capace di intuire la presenza di scorpioni e di serpenti; quando avvertiva il pericolo si arrestava e non c’era verso di farlo ripartire fino a quando si sentiva sicuro.
Woldemariam però non possedeva alcun animale; non era certo un’ abissino benestante e all’età di ventitrè anni doveva ancora darsi da fare nel restì di suo padre. Il lavoro nei campi era monotono e non dava alcuna speranza di poter un giorno avere un pezzo di terra tutto suo.
Era di statura alta, i lineamenti del volto delicati, quasi femminei e la corporatura appariva snella, ma denotava una struttura muscolare di tutto rispetto. La carnagione chiara contrastava con una capigliatura riccia e corvina che gli ricadeva sulle spalle. Gli occhi neri erano grandi e le ciglia lunghissime, i denti perfetti e bianchissimi. Teneva appoggiato di traverso sulle spalle un lungo bastone che dava sostegno alle braccia e a due fagotti dove aveva stipato cibo, acqua ed indumenti.
Anche se per lui camminare era un piacere, salire era faticoso, ma in compenso ogni metro che si lasciava alle spalle, lo allontanava dal caldo afoso delle piane e del porto di Massaua. Aveva discusso con suo padre per più di un mese prima di potersi sentire libero di allontanarsi per una decina di giorni dal villaggio. Voleva andare a tutti i costi a vedere la grande città sul mare dove, da alcuni anni, si erano stabiliti i bianchi che venivano da lontano e che reclutavano i giovani come lui per farne dei guerrieri. Voleva andare a sentire e accertarsi di persona chi fossero questi stranieri che erano giunti sulla costa e che avevano deciso di restarci. Anzi, se era vero ciò che diceva suo padre, gli europei avrebbero cercato di continuare ad espandersi e dall’altipiano, dove erano già giunti, prima o poi si sarebbero spinti fin dentro le terre del Tigrai e in tal caso i ras etiopici avrebbero battuto il chitèt chiamato il popolo alla guerra.
Woldemariam avrebbe potuto combattere con i ras, se proprio lo avesse desiderato, e avrebbe potuto dare sfogo ai suoi istinti battaglieri, per poi ritornare ai campi, come avevano fatto i loro antenati da sempre. Perché quindi, ribatteva sempre il genitore, Woldemariam voleva andare a Massaua a conoscere questi italiani? Cosa sperava di trovare? Il genitore ricorse pure all’aiuto del cantiba e del cascì, il capo del villaggio e il prete della chiesa di Munetec, ma non riuscirono a farlo desistere dalla sua decisione, malgrado tentassero in tutti i modi di fargli capire la fortuna di abitare in un posto bellissimo e molto tranquillo.
A mettergli la frenesia addosso era stato Abdul-Aleem, un mussulmano del bassopiano che veniva dalle loro parti almeno un paio di volte l’anno a vendere cotonate, in cambio di dura. Gli aveva raccontato degli ascarì, giovani eritrei che entravano nell’esercito degli italiani; gli aveva assicurato che guadagnavano tanto denaro e che diventavano degli splendidi guerriglieri.
Da quel momento si era instaurata una continua discussione con il padre che rifiutava il fatto che lui volesse recarsi a Massaua con quelle idee strane in testa. Woldemariam voleva bene a suo padre e lo rispettava, ma quella volta rimase fermo nei suoi propositi e quando decise di partire, restò sorpreso che il genitore gli consegnasse due talleri d’argento, un mucchio di soldi. Li rifiutò, ma il padre insistette, voleva essere certo che il figlio non si ritrovasse con dei problemi: gli chiese semmai di acquistargli, se lo avesse trovato, un aratro in ferro, secondo lui l’unica cosa buona portata dagli stranieri.
Woldmariam invece ritornava a mani vuote perché l’aratro in ferro era sì in vendita a Massaua, ma il costo era molto più elevato del poco denaro che gli era rimasto.
Mentre saliva, era preso dai ricordi ancora vivi del suo viaggio e cercava di imprimerseli bene in mente in quanto desiderava ricordare tutto.
Si rammentò del caldo che dovette affrontare man mano che scendeva dalle montagne. La stagione delle piogge, terminata da qualche mese sui monti, era ora nella sua pienezza nei pressi della costa dove in quel periodo il caldo non era molto elevato; ma quella temperatura lo fiaccava.
La città sulla costa lo aveva sorpreso. Il mare che vedeva ogni giorno da lontano, lo aveva sempre affascinato. Come tutti i giovani, dall’alto dei suoi monti, sognava terre lontane dove il lavoro nei campi lo avrebbero fatto gli schiavi, mentre a lui sarebbe toccato il ruolo di guerriero, così come lo raccontavano i vecchi nelle loro storie. E molte di queste narravano come gli etiopici avessero sconfitto spesso e volentieri i vari nemici che arrivavano con le navi, pronti per salire e conquistare l’altipiano. Il mare rappresentava quindi un’ incognita, ricca di timori, ma anche di curiosità. Ora quella vasta acqua salata, con il suo strano odore, la poteva toccare con le mani e rimase stupito di quanto fosse calda. Anche il treno lo aveva meravigliato. Ne aveva sentito parlare, ma vederlo da vicino ed in movimento gli procurò una sensazione di inferiorità e di larvato timore. Meno traumatica fu la vista delle autovetture, grandi e piccole, forse perché non facevano tanto rumore quanto il treno.
I bianchi invece non lo avevano impressionato: erano persone abbastanza comuni, pieni di problemi, sempre in perenne agitazione, e cosa per lui strana, cercavano continuamente l’aiuto dei suoi compaesani, a qualsiasi occupazione si dedicassero. E poi costruivano abitazioni grandissime, troppo grandi per poterci stare bene, tanto che ogni bianco doveva farsi aiutare da diversi eritrei.
Di indigeni in Massaua ce ne erano di tanti tipi. La grande maggioranza erano mussulmani che portavano in testa vistosi turbanti, ma c’erano anche abissini, sudanesi, dancali, bileni, bahaniani,ciascuno vestito con abiti diversi, ma sempre molto colorati.
Quando, dopo poco che era giunto a Massaua, incontrò i primi ascarì invece rimase stupefatto. Li vide bellissimi, vestiti di abiti sgargianti che risplendevano al sole. Camminavano in mezzo alla gente senza il minimo imbarazzo, anzi fieri delle loro divise e del loro ruolo. Lesse negli occhi delle donne l’amore ed il desiderio, in quelli dei giovani l’ammirazione e l’invidia, in quelli dei bianchi il rispetto ed improvviso sentì dentro di sé echeggiare un richiamo imperioso, una frenesia incontenibile, voleva essere uno di loro, non c’era altra cosa al mondo che potesse desiderare, nulla e nessuno glielo avrebbe impedito.
Quando poi vide un drappello di ascarì a cavallo, fu talmente impressionato che si mise a seguirli di corsa, guardato con stupore dalla gente, ma non voleva perdere quel contatto, quella superba visione. I cavalieri erano vestiti di bianco, indossavano una giacca attillata con il colletto all’insù, i calzoni larghi si ristringevano allo stinco. Ghette scure alle tibie, nudo era il piede con le dita che afferravano la staffa all’uso abissino. Una fascia gialla e rossa circondava loro la vita e dello stesso colore era il tarbusc con una frangia gialla pendente da un lato e dall’altro una penna eretta di avvoltoio. Una mantellina di panno turchino infine pendeva loro dalla spalla sinistra. Woldemariam, sempre in preda all’estasi, continuò a correre e correre, per tutte e due le dighe e poi in mezzo ad un grande villaggio all’estremità del quale un recinto in legno raccoglieva un altro sobborgo, composto da grandi tucul in muratura tutti uguali e posti con perfetta simmetria, distanziati fra loro da ampi spazi dove donne, bambini ed animali erano intenti a varie occupazioni.
All’ingresso di questa particolare borgata c’erano due ascarì di guardia che fecero passare il drappello, ma bloccarono con decisione la corsa del forsennato.
– Dove credi di andare? – Gli chiese uno di loro in tigrigno.
– Dove vanno loro!- Rispose ansando per la lunga corsa.
– Lascialo passare! – La richiesta giungeva da uno degli ascarì che, sceso da cavallo, era tornato lesto verso il cancello. – Ci ha seguito di corsa fin da Massaua. Sono curioso di sapere cosa vuole. Entra, abascià, e dimmi perché ci sei corso dietro. –
– Voglio diventare un guerriero anch’io. –
– Un ascarì vorrai dire! –
– Dimmi cosa devo fare. –
– Di salute ne devi avere se corri così tanto. Vieni domattina al Comando e ti diranno se sei buono per diventare un ascarì. Di dove sei? –
– Sono arrivato da poco da Munetec. –
– Si vede che sei abissino. Hai qualche soldo con te? Si? Allora vai dal mio amico Aasim che si trova laggiù in quella casa gialla: ti troverà un posto per dormire stanotte e fatti dare da mangiare. Poi domattina presto vieni qua che ti accompagno io. –
Woldemariam si svegliò prima dell’alba come sua abitudine dopo una notte quasi insonne. Non era abituato a quel caldo e a tutta quella sensazione di bagnato che non riusciva a togliersi di dosso.
La sera prima erano stati tutti gentili con lui e fra le persone con le quali aveva condiviso l’ingera e lo zighinì c’era chi lo aveva incoraggiato a diventare un ascarì, e chi invece lo aveva consigliato di tornare al suo paese e lasciare che i soldati italiani se la sbrigassero da soli con gli etiopici senza dover trovarsi a combattere tra abissini.
Al villaggio degli ascarì trovò il cavalleggero che lo portò seco al Comando e lo indirizzò al settore reclutamento.
– Da dove vieni?– Gli chiese il bashi-bazuk di servizio, uno dei primi ascarì arruolati.
– Dalle montagne, vivo a quattro ore di cammino da Munetec, dove in alto c’è il restì di mio padre. –
– Lo sai in che anno siamo? –
– Cosa vuol dire…? –
– Lascia perdere. Dimmi cosa sai degli italiani. – Proseguì il militare che con poche domande si rese conto di quanto scarsa fosse la conoscenza del giovane di ciò che stava accadendo sulla costa.
– Devi sapere che gli italiani sono venuti per liberarci del giogo che gli etiopici ci tengono al collo da sempre. Loro ci trattano bene. Ci fanno lavorare se vogliamo guadagnare dei talleri o ci fanno diventare degli ascarì, soldati come dicono loro, ma in questo ultimo caso dobbiamo prima essere in perfetta salute e poi disposti a giurare fedeltà alla bandiera italiana fino alla morte. Hai capito cosa ho detto? –
– Si. – Rispose Woldemariam, anche se in verità aveva le idee un po’ confuse. Il bashi-bazuk, addetto al reclutamento era però un esperto nella valutazione dei giovani volontari e quindi proseguì sicuro:
– Ti propongo questo programma. Ti farò prima di tutto visitare dai medici italiani. Se ti troveranno sano, trascorrerai tre giorni con gli arruolati più giovani che stanno completando l’addestramento. Quindi tornerai a casa e solo allora deciderai se tornare ad arruolarti o meno. Comunque siamo nel 1894 e sono già nove anni che qui è stato fondato l’esercito coloniale indigeno. Se desidererai arruolarti dovrai imparare tante cose compresa la lingua italiana. –
La visita medica Woldemariam non se la sarebbe mai immaginata. Un infermiere eritreo traduceva le sue risposte ad un hakim italiano che mentre chiedeva le cose più bizzarre, lo palpava dappertutto e usava arnesi strani che introduceva nella bocca, nel naso, nelle orecchie, gli faceva descrivere la posizione di una mano vista da lontano e altre simili astrusità. Quando poi lo fecero urinare in un contenitore di vetro perché volevano sapere come funzionava il suo corpo, pensò che lo stessero prendendo in giro.
Lo fecero aspettare a lungo in un piazzale di terra battuta dove una cinquantina di giovani come lui, con indosso degli strani calzoni molto corti, ascoltavano ed eseguivano gli ordini che un soldato italiano vestito di bianco impartiva ed un bashi-bazuk traduceva. Capiva poco di quei movimenti improvvisi, di quelle rapide corse, di quelli scontri che avvenivano a due a due, ma era chiaro che quella era la scuola per diventare guerrieri.
– Da domattina potrai frequentare il centro addestramento reclute. Cercherai dello sciumbasci Mohamed che comanda un buluk di ragazzi appena arruolati. – Gli si rivolse l’infermiere che era uscito finalmente a cercarlo. – Sei sano ed abile per fare il soldato. –
Non era una sorpresa per Woldemariam. Lui si sentiva forte come un toro e non c’era nulla che non si sentisse in grado di poter fare, ma la cosa lo colpì piacevolmente.
Quella sera andò a curiosare al porto e dentro la città. I bianchi stavano seduti a gruppi davanti al molo principale a bere bevande colorate e a chiacchierare. Erano tutti vestiti di bianco, uomini e donne, queste ultime sembravano soffrire molto il caldo perché si facevano aria continuamente con strane ventole che si aprivano e chiudevano. Molti uomini fumavano sigari e sigarette che lui aveva già visto fra la mercanzia che Abdul-Aleem portava a vendere nei villaggi.
Gli indigeni invece se ne stavano nella parte interna della città : taluni sostavano all’aperto, anche loro a piccoli gruppi, a bere sciai, suà e mies; non pochi avevano evidentemente esagerato con il tegg e facevano i gradassi con alcune ragazze che ballavano in uno spiazzo. Per la maggior parte però sostavano all’interno di ampi locali dove musica, ballo e bevande alcoliche allietavano chiunque decidesse di entrare. Woldemariam, che curiosava sulla soglia di uno di questi, fu spinto dentro da alcuni giovani che volevano entrare e fu subito contento di essere avvicinato da una bella ragazza che voleva farlo ballare; non ci riuscì, ma lei fu abile a farsi offrire più volte da bere e lui provò la brutta esperienza di dover pagare un conto in un dancing notturno.
La mattina dopo iniziò l’istruzione militare. Era faticosa, ma entusiasmante. Per tre giorni si inebriò della disciplina militare italiana e per tre notti del piacere delle ragazze bilene.
Il tempo passò in un attimo, ma fu sufficiente a convincerlo in maniera definitiva.
Ed ora si trovava in viaggio per andare a riferire al genitore le sue decisioni.
Woldemariam fece in modo di giungere al restì del padre al tramonto. Preferiva affrontarlo dentro la loro capanna piuttosto che nei campi.
Il genitore non fu sorpreso di vederlo. Era sicuramente a conoscenza del suo arrivo. Là le notizie corrono veloci su fili invisibili. Cenarono assieme, con il resto della famiglia, ma non una parola fu spesa per il viaggio di Woldemariam. La situazione voleva che solo più tardi il padre avrebbe parlato con il figlio, presente il resto della famiglia che sarebbe intervenuta solo raramente.
– Bene ragazzo mio, raccontami della tua gita. – Esordì il padre quando nulla era più rimasto di ciò che avevano preparato le donne per imbandire il desco. Vedo che non hai con te l’aratro di ferro. – Aggiunse l’uomo con un tono di rimprovero.
– Costava molto, padre, e non mi era rimasto denaro sufficiente. –
– Parlami di tutto. –
Woldemariam parlò per più di un’ora senza che il padre o qualcun altro della famiglia lo interrompessero. Cercava di non mettere enfasi nella sua esposizione, ma non nascose mai le sue intenzioni di tornare quanto prima a Massaua per entrare nel corpo degli ascarì.
– Loro non si fermeranno sulla costa. – Prese la parola alla fine il padre. – Hai sentito che caldo c’è ora laggiù e siamo in inverno, figurati d’estate cosa deve essere! Vorranno conquistare tutto l’altipiano. Gli abissini per ora hanno respinto tutti quelli che volevano instaurarsi in alto e ci saranno delle grandi battaglie. Tu ti troverai dalla parte dei nostri nemici. –
– Me lo hanno già detto sia quelli che stanno dalla parte degli italiani che coloro che vogliono gli abissini, molto pochi però. Ti stai scordando quanto dobbiamo pagare al nostro ras ogni anno perché ci lasci la terra. –
– Pensi che gli italiani non ti faranno pagare, una volta preso il posto dei ras? –
– Sicuramente sì, ma ho visto che curano i malati con hakim molto bravi, che insegnano a chi vuole imparare tutto quello che sanno loro, che aiutano chi non è in grado di mantenersi. –
– Non mi incanti! Stai tranquillo che al momento opportuno presenteranno il conto e sarà salato! –
– Ho frequentato tre giorni la loro scuola per diventare guerrieri. Non riuscirò mai a spiegarti ciò che ti insegnano a fare, ma io ho deciso che voglio fare l’ascarì e niente potrà farmi cambiare idea.-
Woldemariam rimase sei giorni con i suoi, poi una mattina si alzò che era ancora notte, raccolse in un paio di fagotti le sue poche cose e si allontanò di casa in silenzio senza svegliare nessuno. Non voleva salutare, suo padre avrebbe capito.
Il viaggio quella volta non gli pesò e arrivò molto prima del previsto. Si presentò subito alla caserma. Il solito bashi-bazuk lo riconobbe e lo accompagnò in una stanza dove un ufficiale italiano era seduto dietro una scrivania. Mentre parlavano il bianco scriveva su dei fogli le risposte che Woldemariam dava alle loro domande. Fu una cosa veloce e alla fine gli macchiarono la parte interna di due dita e gliele posarono con forza su un foglio scritto.
– Ora sei arruolato nell’esercito italiano al quale giurerai fedeltà. Sei entrato a far parte dell’esercito italiano. Imparerai la nostra lingua italiana e a diventare un ascarì, riceverai una casa ed una paga ogni mese e tutti ti rispetteranno. – Queste parole pronunciate dall’ufficiale italiano e tradotte dallo bashi-bazuk lo fecero sentire importante ed ancora di più quando fu accompagnato in fureria a prendere gli abiti che avrebbe indossato da allora in poi.
Nei giorni successivi cominciò a lavorare. Il plotone di Mohamed era già avanti nell‘addestramento, ma Woldemariam non si sentì in difficoltà, anzi, una volta capiti certi meccanismi, trovò quasi naturale l’apprendimento delle varie tecniche di battaglia, l’uso delle armi, le modalità di esecuzione degli ordini, ed era tanto il suo entusiasmo che cominciò presto a capire cosa dicevano gli ufficiali italiani, tanto che la loro lingua, apparsa all’inizio tanto oscura, in breve gli si rivelò piuttosto comprensibile ed in un paio di mesi già articolava i primi discorsi. Divideva un bel tucul in muratura con altri tre commilitoni, ma questo era talmente grande che lo avrebbero potuto abitare in sei. I militari non sposati potevano mangiare alla mensa degli ascarì dove il cibo era abbondante e buono. Non mancava mai l’ingera e lo zighinì ma c’erano anche le pietanze dei bianchi, alcune delle quali decisamente gustose.
L’addestramento era duro. Lui correva per ore senza stancarsi, ma quando lo misero in sella ad un nervoso cavallo arabo, ebbe qualche problema di equilibrio, che superò senza grosse difficoltà. Woldemariam si dimostrò subito un’ottima recluta, perfino il nuoto, ostico per la maggior parte degli eritrei, a lui parve congeniale. Con il fucile poi divenne un esempio non solo per tutti i nuovi arrivati, ma dopo un paio di mesi erano ben pochi gli ufficiali italiani a centrare, come faceva lui, cinquanta bersagli consecutivi a duecento metri di distanza e a colpire, mentre galoppava in sella al cavallo, difficili bersagli in movimento.
Tutta quell’attività fisica gli potenziò la muscolatura; la divisa e il piacere di realizzare ogni sua aspettativa lo rendevano ancora più bello. Le ragazze di Massaua presto lo notarono e anche fra loro divenne famoso.
Due mesi dopo l’addestramento fu promosso muntaz, caporal maggiore. Nel villaggio degli ascarì era tenuto in grande considerazione; infatti non si boriava di tutte le sue doti, appariva umile, rispettava i superiori e gli anziani e era sempre cortese con tutti.
Quando era di libera uscita, amava andare a passeggio con qualche commilitone per le vie centrali di Massaua e godeva sentirsi chiamare per nome dai diavulet, i ragazzini del porto e vedersi riconosciuto dalle ragazze. Era molti ormai i bianchi a notarlo. Non aveva una ragazza in particolare, ma ogni tanto ricordava che suo padre gli aveva mandato a dire, tramite Abdul-Aleem, di tener presente che era promesso da anni ad una giovane di Asus; il problema era che lei aveva compiuto, solo da poco, i dodici anni, mentre lui si trovava a suo agio con le donne ed il pensiero di dover sposare una bambina era forse l’unico neo che gli sciupava quel momento della sua vita.
Si adattò bene anche al caldo estivo ed in quel momento capì che non c’era soldato od ufficiale italiano che potesse stargli alla pari in fatto di resistenza e di efficienza.
La prima conferma delle sue capacità l’ebbe con il battesimo del fuoco, qualche mese dopo, quando una numerosa banda di dancali si mise ad attaccare le postazioni di Zula e dintorni per razziare gli armenti e fare schiavi gli abitanti.
Si guadagnò sul campo il grado di bulukbasci, comandante di squadra, quando fece scudo con il proprio corpo al maresciallo italiano che guidava il reparto e che, ferito da una fucilata, stava per soccombere all’attacco all’arma bianca di un gruppo di predoni. Guidò poi gli ascarì al contrattacco e mise in fuga i dancali, dopo averne catturati o uccisi un gran numero. Insieme ai gradi ebbe una medaglia e un bel premio in denaro.
La sua fama arrivò al restì del padre che non seppe più contenersi e, accompagnato da un cugino, decise di andare a trovare il figlio.
Più che altro il genitore rimase sconcertato: non si sarebbe mai aspettato di trovare Woldemariam tenuto così in considerazione da tutti e perfino lui, appena si seppe chi era, veniva talmente ossequiato, da sentirsi spesso in imbarazzo e quando si apprestò a fare ritorno alle pendici, il dono che il figlio gli fece, lo commosse a tal punto da non riuscire a salutarlo degnamente: tornava a casa con due muletti carichi di ogni ben di Dio e non se la sentì di raccomandargli ancora una volta la promessa di nozze.
A solo un anno dal giorno del suo arruolamento Woldemariam ebbe i gradi di sciumbasci, maresciallo, non solo per i suoi meriti militari, ma anche per la sua ottima conoscenza dell’italiano.
Imparò, in aggiunta, a cavalcare il cammello e poi fu trasferito all’Asmara nel battaglione degli ascarì comandato dal maggiore Turitto. .
All’Asmara, situata sull’altipiano, la temperatura primaverile rendeva tutto più semplice. Woldemariam si sarebbe sentito capace di fare qualsiasi cosa; non si tirava mai indietro, era sempre pronto a offrirsi come volontario per qualsiasi missione ed anche lassù divenne un mito.
Non si impensierì minimamente quando, sull’ Amba Alagi, l’esercito di Menelik, imperatore d’Etiopia, sconfisse gli italiani, uccise il leggendario maggiore Toselli e si avviò verso Macallè per annientare anche il maggiore Galliano, assediato nel forte di quel paese.
Non si impensierì neppure allorché il generale Baratieri, comandante dell’esercito coloniale italiano e governatore dell’Eritrea, ordinò di muovere verso il nemico.
Woldemariam comandava la sua banda a cavallo ed era felice e fiero di andare contro le armate di Menelik e non lo turbavano le voci che correvano fra la truppa insinuando che il numero degli etiopici fosse almeno venti volte maggiore.
Chi lo sa però se sarebbe stato ugualmente tranquillo sapendo che Baratieri non aveva alcuna voglia di andare contro un esercito così numeroso, armato con fucili più moderni e con una motivazione più forte della loro.
Lui continuò a sentirsi fiero ed invincibile allorché varcò il fiume Mareb e si inoltrò nel cuore dell’Etiopia. Se ebbe un minimo di dubbio quando sera del 28 Febbraio 1896, nella conca di Adua, vide una sterminata distesa di fuochi di bivacco che si perdevano all’orizzonte e coprivano i colli circostanti le loro postazioni, fu confortato dalla tranquillità dei soldati italiani e dalle continue parole di incoraggiamento di tutti gli ufficiali compreso il maggiore Galliano che Menelik aveva lasciato uscire incolume dal forte di Macallè.
La mattina successiva non ebbe modo di pensare ma solo di battersi e per un tempo quanto mai breve. Quando, dopo una breve cavalcata per prendere posizione dietro un altura, furono letteralmente travolti da una marea di guerrieri etiopici, lo scontro corpo a corpo durò non più di un quarto d’ora. Woldemariam riuscì ad abbattere una decina di nemici stando a cavallo e quando il suo splendido animale fu colpito, lui continuò a sparare in piedi, per terra, ma il suo vecchio Vetterly non poteva stare alla pari dei Remington in dotazione agli etiopici: questi quando si accorsero di quanto danno faceva quell’ascarì da solo, concentrarono su di lui un fuoco incrociato che gli procurò solo lievi ferite, ma gli distrusse il fucile e non fece a tempo ad estrarre la pistola perché in diversi si buttarono su di lui e lo atterrarono. Ma non l’uccisero: Menelik aveva dato ordine di fare più prigionieri possibile.
Quando il sole calò sulla conca di Adua, lui si ritrovò malconcio in mezzo a parecchie centinaia di altri ascarì fatti prigionieri e si rese conto di essere fortunato a ritrovarsi vivo perché gli urli disperati delle donne della sussistenza, che provenivano da ogni dove, stavano ad indicare che tantissimi suoi commilitoni dovevano essere morti o gravemente feriti.
Quando due anni più tardi raccontò tutto a suo padre, molte cose stranamente non riusciva a rammentarle, o per lo meno non era in grado di rievocare quelle forti emozioni che gli avvenimenti susseguenti alla disfatta lo costrinsero a vivere. Fu proprio una disfatta; Menelik con il suo esercito annientò gli italiani e gli ascarì che combattevano al loro fianco. Enorme fu il numero dei morti, a migliaia quello dei prigionieri, esigua la cifra di coloro che riuscirono a mettersi in salvo.
Woldemariam non era ferito gravemente e ben presto fu costretto con colonne di militari italiani ed ascarì ad incamminarsi verso l’interno dell’Etiopia. Era trattato come un abissino può considerare un traditore. Appena l’indispensabile per nutrirsi, dormire all’agghiaccio e costretto ad aiutare nelle sfibranti marce i feriti, molti dei quali andavano trasportati su improvvisate lettighe.
Quando passavano vicino notabili o ufficiali dell’esercito imperiale, loro erano fatti segno di insulti e di sputi. Le speranze di Woldemariam che l’esercito italiano arrivasse da Massaua in loro aiuto e punisse Menelik svanirono dopo pochi giorni ed il dolore della delusione fu più grande di quello delle continue umiliazioni e degli stenti.
I prigionieri italiani non si interessavano degli ascarì, pensavano ad aiutarsi fra loro e semmai chiedevano aiuto.
Correva voce che li avrebbero uccisi . E allora perché se li portavano dietro? Qualcuno paventava che volevano impiccarli tutti, una volta giunti a destinazione per la gioia del popolo etiopico. Ci volle quasi un mese per arrivare alla reggia di Menelik.
Gli etiopici contarono gli ascarì sopravvissuti agli stenti del viaggio. Erano circa ottocento. Contarono anche gli italiani, erano almeno duemila.
Li separarono quasi subito. Gli ascari li racchiusero in un grande recinto. Ogni giorno ne prelevavano una ventina, ma non ne ritornava mai nessuno. Ormai erano tutti convinti che quelli scelti venissero uccisi.
Quando fu la sua volta Woldemariam ebbe solo pochi istanti per rendersi conto di ciò che lo aspettava. Lo trascinarono in una piazza dove alcuni curiosi assistevano alla scena. Un ufficiale etiopico gli comunicò con enfasi che sarebbe stato punito per aver tradito il popolo abissino: avrebbero meritato la morte, ma Menelik desiderava che tornassero in Eritrea per mostrare a tutti come finivano i traditori. Non fece in tempo a rallegrarsi per avere avuto salva la vita perché si sentì afferrare da diverse paia di braccia robuste che lo sbatterono su un tavolaccio immobilizzandolo.
Vide una grossa scimitarra calare su di lui con violenza una, due volte. Un’altra scimitarra incandescente appoggiarsi alla sua carne bruciandola. Poi più nulla.
Si risvegliò sul pavimento di una capanna assieme ad altri ascari, tormentato da un dolore terribile che dilaniava le sue carni. Nei brevi istanti in cui riprendeva conoscenza capì quanto orribile fosse stata la loro sorte. Ognuno di loro era stato mutilato di una mano e di un piede. Vide che due degli undici ascari erano morti. Poi per il dolore cadeva di nuovo in stato di incoscienza.
Altre pene giunsero quando i monconi si arrossarono e gonfiarono, la febbre lo assalì fino a farlo delirare. Aveva sete, una sete terribile, ma nessuno dava loro da bere. Solo dopo tre giorni alcune donne portarono acqua ed ingera e trasportarono via i cadaveri che erano diventati quattro. Dopo altri sette giorni di sofferenze atroci erano rimasti in sei e loro sopravvissero. Vennero trattenuti fino al momento in cui furono in grado di reggersi su un paio di stampelle. Allora furono cacciati con ignominia con l’ordine di trascinarsi fino all’Asmara a raccontare come Menelik puniva i traditori.
In sei si incamminarono, ma in quelle condizioni non valevano una persona sana.
Vissero di elemosine e di quel poco che la natura poteva offrire. Arrivarono in cinque, dopo dieci lunghi mesi di miseria e di sofferenza. Poi l’affetto degli ascari, il riconoscimento del valore militare e l’indennizzo economico degli italiani non riuscirono a placare la disperazione di Woldemariam. Non aveva più una vita di fronte a sé e, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare suo padre.