Valeria Isacchini, 25 gennaio 2019
CURZIO MALAPARTE, VIAGGIO IN ETIOPIA E ALTRI SCRITTI AFRICANI. A cura di Enzo R. Laforgia, Vallecchi, 2004 ISBN 8884271126 Da ragazzina mi sono innamorata di due uomini: Thomas Edward Lawrence e Curzio Malaparte. Alla mia attuale età, ovviamente, ho corretto il tiro e la loro seduzione non mi travolge più come un tempo, anche a causa, o meglio, per colpa dell’acquisizione di schemi culturali che all’epoca non avevo. Resta il fatto che quando ho scoperto che la storica casa editrice Vallecchi nei primi anni 2000 stava risorgendo dalle ceneri (ai tempi del ginnasio e liceo avevo acquistato per pochissime lire parecchi libri di Malaparte pubblicati dalla fallita Vallecchi in svendita ai Remainder’s) e che aveva pubblicato una raccolta di articoli di Malaparte su un suo viaggio africano, non me lo sono certo fatto sfuggire. E ho fatto bene perché ora, a quanto vedo da una rapida ricerca sul web, è difficilmente rintracciabile. Si tratta di un libriccino di formato piccolo (12×16 cm), copertina cartonata elegantemente dimessa, con una stampa perfetta per leggibilità, arricchito da un saggio critico di Enzo R. Laforgia e da un’interessantissima raccolta di lettere riguardanti l’organizzazione e lo sviluppo del reportage, nonché da una serie di note a fondo pagina. Nel 1938 Malaparte comincia a programmare un viaggio che lo porterà per tre mesi nel neonato impero coloniale italiano. Altri giornalisti celebri (tra i tanti, Indro Montanelli, Vittorio Beonio Brocchieri, Paolo Monelli, Mario Appelius … ) avevano affrontato il tema della guerra d’Etiopia, che fu probabilmente, anche a livello internazionale, il primo conflitto coperto con tanta risonanza e ridondanza dalla stampa. Erano state pubblicate centinaia di articoli, saggi, libri, memoriali. Ma Malaparte ha intenzione di scrivere qualcosa di diverso: impietosamente e polemicamente (e anche presuntuosamente, come era il personaggio), in una lettera a Mondadori scrive: “Non sarà il libro di un giornalista (i giornalisti non sanno scrivere e il pubblico non li legge più volentieri) ma di uno scrittore. Sarà il primo libro sull’Africa di uno scrittore.” Parte prevenuto: ha già in testa addirittura il titolo del libro che intende proporre a Mondadori, L’Africa non è nera, in quanto è convinto di trovare un paese di cui celebrare il passaggio improvviso alla civiltà “bianca”. E’ da ricordare che Curzio, dopo il blando confino di un anno e mezzo circa (di cui otto mesi a Lipari, i restanti a Ischia e a Forte dei Marmi) aveva bisogno di rifarsi una credibilità presso il governo esaltando le magnifiche sorti e progressive dell’Etiopia colonizzata. Pare che tuttavia Mussolini, venuto a conoscenza del suo viaggio, abbia affermato “Quello lì è capace di mettersi a capo di qualche banda ribelle e di voler conquistare l’Italia”. Parte comunque il 19 gennaio 1939, sbarca a Massaua il 28, e inizia la sua risalita di tre mesi verso l’acrocoro etiopico, percorrendo circa 6000 chilometri, in auto o con mezzi di fortuna, muli ovviamente compresi. Tacazzè, Goggiam, Addis Abeba, Galla-Sidama, Harar… un percorso decisamente intenso. Nelle sue intenzioni vorrebbe approfittare del viaggio per incontrarsi col fratello Ezio Suckert , agronomo a Bonga (v. su queste pagine l’articolo di Ernesto Milanese https://www.ilcornodafrica.it/z-suckert.pdf). Si aggrega ai battaglioni che vanno alla caccia di Abebè Aregai. Incontra manovali, camionisti, residenti e funzionari governativi, il generale Lorenzini, preti e briganti. Ne ricava diversi articoli che verranno pubblicati sul Corriere della Sera e numerose fotografie. Finché rimane in Eritrea, il suo spunto iniziale (cioè l’affermazione della civiltà bianca in Africa) viene confermato, dato che la colonia è comunque italiana da diversi decenni. Ma quando attraversa il Mareb ed entra in Etiopia, incontra una realtà che in buona parte non corrisponde alle sue aspettative. E’ soprattutto il paesaggio a coinvolgerlo, un paesaggio descritto con toni “malapartiani”: surrealismo e metafore crude, aggettivi inaspettati, senso di tensione che solo talvolta si allenta con alcuni incontri “paesani” (come con i romagnoli che coltivavano Albana o con il residente Giovanni Ellero). Qualche esempio stilistico, aprendo il libro, giuro a casaccio, qua e là: “Quelli che sparano non sono più di una cinquantina. Coprono col fuoco il movimento di altre bande. Eccole là. Vedi come corrono? Duecento? Trecento? Vogliono girarmi il fianco, poveretti. Facciano pure.” E ride contento. (p. 123) Ma una banda di ragazzi sopravviene camminando in colonna, e un loro caporale li guida gridando “una dui”. Altri ragazzi sbucano da dietro un tucul, sventolando una loro bandiera di carta, e la mischia si accende. (p. 65) E’ ancora notte. Le stelle pendono fra i rami dei sicomori, tra le foglie magre e taglienti degli eucalipti. Il cielo è lucido e verde, chiazzato di macchie rosse come una mela. Dà l’impressione di qualcosa di sensibile, di solido, un enorme frutto dentro il quale ci muoviamo (p. 128) “Non vorrete mica pretendere, per caso-mi dice Diodiace- di andare a intrattenervi col capo dei monaci di Axum come se si trattasse dell’Arcivescovo di Canterbury?” (p. 51) Lorenzini disse “E’ bello”. Gridavano intorno roche le jene per la funerea distesa di gialle stoppie, per le selvagge macchie di rovi. Il carnaio degli uccisi appesantiva il vento nel candore lunare. (p. 186) |