Da questo romanzo l’autore, che è regista cinematografico, ha tratto anche un bel film, uscito nelle sale italiane qualche mese fa.

Narra la storia di Menghistu, terzogenito di una famiglia cristiana etiopica decimata dalla fame e dalle guerre, che, alla metà degli anni 80, giunge con la mamma e il fratello maggiore in un campo profughi del Sudan meridionale.

Anche il fratello muore in una rissa fra disperati ed è intuibile che quella sarà la fine della maggioranza dei profughi.

Nello stesso campo si trova Worknesh con il piccolo Shlomo, coetaneo di Menghistu: sono falasha, ebrei etiopici, sfuggiti alla carestia ed alle persecuzioni, rifugiati in Sudan, paese musulmano, sotto mentite spoglie.

Shlomo muore di febbre e di stenti poche ore prima che si concretizzi il piano di Israele per salvare e portare nella Terra promessa gli ebrei etiopici.

Le due madri si intendono con gli sguardi e la cristiana Kidane affida all’ebrea il proprio figlio che solo così potrà avere la possibilità di sopravvivere.

Da quel momento Menghistu diventa Shlomo e la sua vita prosegue su un doppio binario: da una parte il rimpianto misto a senso di colpa verso la mamma lasciata in Sudan, nonché la consapevolezza dell’inganno su cui si basa la sua esistenza e il terrore di essere scoperto; dall’altra parte le difficili vicissitudini di un ragazzino nero, sradicato dalla sua cultura, colpito da un nuovo lutto (la morte della mamma ebrea), adottato da una famiglia amorevole e aperta, soggetto a discriminazioni razziali, impegnato nello studio anche della religione, rifiutato dalla famiglia della ragazza che ama e che comunque sposa.

Soffocato dalla menzogna originaria della sua esistenza, riconosciuto da qualcuno che lo aveva incontrato nella vita precedente, Shlomo alla fine confessa alla propria famiglia e alla moglie la sua difficile condizione di cristiano cammuffato da ebreo e, con il sollievo per la loro reazione comprensiva, trova la forza di andare a esercitare la professione di medico nello stesso campo profughi della sua infanzia.

Lì, in modo possibile forse solo nei romanzi, ma comunque toccante, riconosce in una vecchia distrutta dagli stenti la mamma etiopica. Il romanzo si conclude con il grido straziante della donna che finalmente dà libero sfogo all’angoscia accumulata negli anni.

È un libro intenso e commovente che solleva innumerevoli questioni e sollecita molte riflessioni.

È interessante dal punto di vista storico, avendo l’autore fatto numerose ricerche sulla vita dei falasha e soprattutto sul preciso avvenimento dell’intervento di Israele e delle difficili relazioni fra stati nemici.

È resa bene anche la vita quotidiana, sia quella in Israele, contraddistinta da un forte senso di appartenenza ma anche da posizioni interne assai diverse, sia quella in Etiopia, evocata nei ricordi di Shlomo con i richiami alla mucca, alla luna, alla natura, al bene prezioso dell’acqua che non si può sciupare.

Da un’ottica sociologica, fanno riflettere le discriminazioni razziali e religiose, sia quelle a cui sono sottoposti i falasha in Etiopia e, peggio ancora, in Sudan, sia quelle di cui sono oggetto in Israele, perché neri di pelle e sospettati di non essere puri dal punto di vista religioso.

Anche la psicologia ha il suo terreno di indagine nelle esperienze traumatiche che bloccano per certi aspetti la vita, nella solitudine disperata, nell’abbandono vissuto come propria colpa che sono tratti comuni ai bambini adottati. A questo proposito, una ventata di ottimismo è data dalla disponibilità della famiglia adottiva che accoglie, sostiene e comprende totalmente Shlomo, in ogni fase della sua difficile vita, permettendogli di conquistare la serenità. Infine, il fatto che Shlomo torni nel campo profughi dopo almeno vent’anni e sua madre sia ancora là pone alle nostre tranquille coscienze una domanda inquietante: è un destino ineluttabile che tante persone siano profughe per sempre o queste situazioni possono essere cambiate?