Gian Emilio Belloni, 15 settembre 2004

Viveva una volta nella zona a nord ovest di Asmara un bambino discendente da un’importante famiglia bilena, il cui capostipite, Bilèn Bilèn, era nato in un villaggio ai piedi del monte Cheren.

Bilèn Bilèn era stato un capo di grandi capacità e saggezza. Tutte le genti bilene delle varie tribù lo consideravano la loro guida spirituale. Conosceva la storia del suo popolo, delle origini, e della sua illustre dinastia. Quando descriveva alla sua gente le terre di provenienza, decantava la purezza delle limpide acque dei fiumi che scendono dalle alte montagne e dalle verdi valli del Semièn, gli ascoltatori non si stancavano mai di seguire i suoi racconti; questi erano sempre fatti nella sua lingua originale parlata anche dalle genti del Lasta, e del Quarà. Sapeva leggere i caratteri eruditi del gheez e in questa lingua pregava.

Durante la  grande migrazione agau verso il nord dell’Abissinia si erano stabiliti nella zona del Senhìt, dove avevano fondato il villaggio di Mogarèh, rimasto nel tempo culla e riferimento degli aristocratici bileni.

In quei luoghi, la vita scorreva felice e la famiglia era proprietaria di numerose mandrie che pascolavano nella grande vallata dell’Anseba. Tutta la gente del villaggio, cosi come tutti gli altri Bileni della zona, era di religione cristiana e la loro conversione risaliva  al V secolo. Questa storia inizia intorno all’anno 1839.

Ma ecco la storia di Gherezghièr (servo di Dio) e della sua famiglia.

La famiglia discendente da Bilèn Bilèn era ormai rimasta una delle poche a non aver accettato l’imposizione della nuova religione che giungeva dal mare e dal vicino Sudan e si rifiutava di rinnegare il Dio dei Cristiani.

La divulgazione della nuova religione era iniziata già molto tempo prima, ma ora, sotto  la spinta degli egiziani che occupavano le terre da Cassala a Cheren, e la totale indifferenza e ignoranza degli abuna locali, le popolazioni bilene, cunama e beni amer abbracciavano con sempre maggior frequenza la religione della Mecca.

Così, un giorno, i genitori di Gherezghièr decisero di vendere tutti i loro averi e riprendere la via dell’altopiano in senso contrario a quello che la loro gente agau aveva fatto secoli addietro. Entrarono nell’Hamasièn da Tsaadà Cristiàn provenienti dalla valle dell’Anseba. Si stabilirono in una piccola valletta a nord di Darhò Caulòs.

Il padre del piccolo Gherezghièr era un bravo contadino ed un grande lavoratore e, con i soldi ricavati dalla vendita delle sue terre e dei suoi animali, aveva acquistato dei campi ed aveva iniziato  immediatamente la nuova attività. Prima, però, aveva sistemato la sua famiglia in una decorosa casetta costruita nei pressi del rio Mai Chebdì e aveva portato suo figlio alla scuola della chiesa del villaggio.

Qui il giovane bileno si era distinto immediatamente tra i suoi compagni e l’abuna era rimasto meravigliato quando lo aveva sentito leggere e recitare le preghiere in gheez.

Gli anni passavano e il bimbo bileno si faceva più grande e robusto, il suo sguardo era spesso rivolto verso il Sahèl e rivedeva gli enormi baobab e le flessuose palme dum crescere lungo i fiumi della sua terra natia.

Al collo portava ancora la piccola croce  di legno ricavata da un ramo di acacia spinosa; suo zio l’aveva realizzata lavorando il pezzo di ramo con il coltello che portava sempre appeso al braccio sinistro, alla moda bilena. La croce che gli pendeva dal collo, sostenuta da una sottile striscia di cuoio, era diventata il simbolo della sua vita.

Spesso si ritirava in una grotta di Darhò Caulòs dove si diceva avesse vissuto un eremita santone di origine europea. Dalla grotta poteva osservare la valle coperta di verde vegetazione ed attraversata da un ruscello dall’acqua miracolosa. Infatti, la leggenda raccontava  che quell’acqua era capace di curare le  tante  malattie degli occhi.

Nella serenità del luogo leggeva i sacri testi e di giorno in giorno accresceva il suo sapere e  rafforzava la sua fede in Cristo. Per ore e ore rimaneva inginocchiato su di una stuoia rivolgendo le sue preghiere al cielo.

Le persone del villaggio di Darhò Caulòs avevano un grande rispetto per quel ragazzo che conosceva tutta la liturgia della chiesa, che conosceva a memoria i libri della fede e durante gli uffizi era l’aiutante dell’abuna.

Tra le festività religiose, la sua preferita era quella del Mascàl, l’Esaltazione della Croce.

Nel 1854 era giunto al suo quindicesimo anno di età e si avvicinava la primavera. Presto sarebbe arrivato il giorno più bello dell’anno, il 17 mescherèm, la festa del simbolo di Cristo, che fa tutti fratelli, e che sarebbe stato festeggiato dal popolo cristiano. Per l’occasione sarebbero stati  accesi enormi falò alimentati da rami secchi di euforbia, davanti ai quali la gente avrebbe danzato e lodato il Signore. Infine, per il giorno del gran Mascàl, i capi villaggio, il clero e la folla avrebbero sfilato e si sarebbero diretti verso la collinetta dove era stato preparato il damerà e dove i rami di saraò e di ciaà avrebbero bruciato e dalla direzione presa dal fumo si sarebbero letti gli auspici per il nuovo anno.

In quel periodo Gherezghièr aveva pregato con maggior intensità del solito rivolgendosi al suo Cristo, all’uomo morto sulla Croce per aiutare il mondo. Avrebbe voluto poter fare qualcosa di particolare per il villaggio, per la sua gente. Ora passava sempre più tempo dentro la grotta e, a volte, vi rimaneva per giorni interi. La sera del 16 aveva pregato molto intensamente e poi, sfinito, si era addormentato sulla sua stuoia.

Il mattino seguente, quando di buonora si era avviato verso la chiesa, tutti i prati intorno al percorso della celebrazione del  Mascàl, ove la folla sarebbe passata, erano cosparsi di bellissimi fiori gialli che con i loro otto petali formavano due bellissime croci.

Gherezghièr era stato ascoltato e dal cielo, durante la notte, era caduta una grande quantità di fiori gialli, i fiori del Mascàl.

Da quel giorno, durante il periodo di mescherèm, tutta l’Abissinia è ricoperta di questi bellissimi fiori gialli.

Adei abeba, il fiore del Mascàl
Il damerà