Nicky Di Paolo, 1 febbraio 2005
Nel milleottocento i primi italiani che giunsero in Etiopia sentirono i menestrelli cantare questa storia come veramente accaduta.
Sulka era una fanciulla alta e ben fatta, una bella statua dalle forme perfette; il naso diritto di tipo egiziano e il seno ricolmo e sodo, tipico delle donne abissine, le anche leggiadre e cariche di voluttà erano tutti attributi che nella lingua universale dei sensi lasciavano intendere una dolce poesia. Aveva gambe lunghe diritte e ben tornite, che si affacciavano da una camicia lunga che indossava quale unica veste e che la lasciava aperta dalla cintola in giù lungo i lati del corpo, facendo pensare ad una quantità di cose infinitamente dolci e inebrianti sopra un letto molle di erbe fresche tagliate, di rose, di fiori, sotto l’ombra di una musa, di una acacia, di una mimosa, in un bosco dai mille sentori.
Sulka non era superba della sua bellezza, né tanto meno sdegnosa. Aveva un suo modo del tutto naturale di intendere la vita che trascorreva consolando tra le sue braccia grandi e gentili tutti quelli che le chiedevano amore. Lei amava tutti, non negava il bacio delle sue labbra tenere ad alcuno e quando, al calare della notte, la brezza agognata giungeva a rinfrescare la sua capanna solitaria di orfana abbandonata, trovava Sulka disfatta e languente, spossata da mille amori vissuti, ma mai sazia.
Anche quando il buio aveva avvolto nelle sue spire tutta la prateria, se un viandante o un soldato, un mercante mussulmano o un frate abissino, transitavano davanti alla sua capanna, lei li invitava ad entrare, offriva loro idromele in grandi tazze di coccio o si apprestava a preparare il caffè con il consueto e lungo rituale, ricco di aspettativa e di aromi per poi porgerlo agli ospiti in piccole tazzine di vetro che ella addolciva con i suoi baci e con le sue carezze.
Dava se stessa a tutti, senza aver mai amato nessuno. Non era certo infelice, ma quel suo darsi spontaneo rivelava un’ansia profonda, una ricerca continua di un qualcosa che sicuramente esisteva, anche se lei non sapesse bene che cosa fosse.
Una sera, all’imbrunire, dopo aver acceso il fuoco fuori della capanna, Sulka giaceva sull’erba odorosa della prateria con gli occhi socchiusi e le membra stanche, vinta da una sonnolenza di dolce sfinimento. Mentre il sole calava all’orizzonte, in una diffusa luminescenza rossastra che avvolgeva di un mistero dorato tutta la savana, udì il suono argentino di un sistro che annunciava il passaggio di un uomo di chiesa. Sollevò la testa incuriosita in quanto quello strumento era usato solo nelle manifestazioni religiose e appariva molto strano udirlo in quel luogo. Già le euforbie e gli eucalipti lanciavano le loro ombre ad est , sempre più lontane, quasi volessero correre incontro alla prossima aurora, mentre tutte le cose diventavano sempre più indistinte, in maniera rapida come subitaneo è l’arrivo della notte ai tropici. Il fuoco di Sulka che irradiava la sua luce intorno alla capanna, le permise di vedere apparire un giovane vestito di una tunica fiorita, con i piedi nudi e la testa avvolta nell’alto turbante dei preti abissini. Sul petto brillava una grande Croce d’oro. Era talmente bello nei lineamenti e nel portamento che Sulka, levatasi in piedi, non osò proferire parola mentre quella visione celestiale le passò dinnanzi senza degnarla di uno sguardo. Solo quando il giovine raggiunse il gomito del sentiero, lei si riscosse, lo rincorse, gli si parò davanti arrestando il suo cammino, congiunse le mani a mo’ di preghiera e disse:
• Signore, chiunque tu sia, uomo o sogno, realtà o inganno, ti prego, onora della tua presenza la mia capanna così potrai dare ristoro alle tue membra e trovare un riparo per la notte. –
Si rese conto che era la prima volta che chiedeva ad un uomo di fermarsi, tutti gli altri imploravano lei di accoglierli nella sua dimora.
• Che cosa vuoi? – Le domandò burbero il giovane.
• Vorrei darti tutto ciò che tu sia capace di desiderare. –
• Ci siamo mai incontrati? –
• E’ la prima volta che ti vedo, altrimenti mai mi sarei potuta dimenticare di te. Vieni dentro la mia casa, ho acqua di rosa ed ambra, mirra ed aloe, brucerò l’incenso più prezioso e preparerò dei cibi delicati, ti racconterò storie che non conosci. –
• Tutto questo per me ha poca importanza. Se accetto il tuo invito, saprai amarmi veramente? – Ribadì il giovane prete.
• Questo non lo so perché per amare te bisognerebbe essere davvero all’altezza della tua bellezza e del tuo fascino e non sono certa di racchiudere tanta passione che possa contenere il tuo desiderio. Ma entra ti prego, entra , mi coprirò di rose e di mimosa affinché tu possa amarmi senza dover contaminare la tua pelle con la mia, indegna di tanta grazia e possenza. Vieni! – Proseguì prendendolo per mano ,– vieni e sarò la tua schiava. –
• E va bene accetto, ma sappi che se entro nella tua capanna, sarai perseguitata dalle sventure, contro le quali poco potrai difenderti! –
• Non me ne importa nulla. –
• Anche se non avrai più la tua pace e dovrai soffrire? –
• Ti voglio nella mia casa, a qualunque costo! –
• Non saprai più cosa è un sonno tranquillo. –
• Vuol dire che rimarrò sveglia ad aspettarti. –
• Ma quel poco che dormirai sarà turbato da orrendi incubi. –
• Io ti voglio lo stesso! –
• Dammi retta ragazza, sei ancora in tempo. Desisti da questa idea ed eviterai un’infinità di guai. –
• Ho già preso la mia decisione. Entra dai!– Così dicendo lo spingeva dentro la capanna.
• Tu non credi in quello che dico, pensi che ti stia prendendo in giro? –
• Non penso a nulla, mio signore, solo agli istanti che riuscirò a trascorrere con te. Non potrei più vivere sapendo che sei passato sulla mia strada ed io ti ho lasciato andare. –
• Ma dopo ti pentirai! –
• Dopo avverrà ciò che deve accadere. Ora entra e poni fine ad ogni tuo indugio. Fatti detergere la polvere che hai preso viaggiando e fatti cospargere il corpo dei miei balsami e dei miei profumi e voglia il cielo che tu decida di non proseguire più il tuo viaggio. –
• Va bene. Lo hai voluto tu. – Ed il giovane prete finalmente entrò nella dimora di Sulka.
Per tre notti e tre giorni, la porta della capanna della giovane abissina rimase chiusa e a nulla valsero i richiami esterni dei viandanti e di chi era venuto appositamente per incontrare l’ormai famosa bellezza della prateria.
Sulka stava vivendo quei momenti che aveva sempre creduto potessero esistere, ma che mai fino ad allora nessuno era riuscito a farle provare. In un attimo dimenticò tutti gli amori della sua vita ed il loro ricordo evaporò al sole di quell’ardore nuovo che le infiammava il petto. C’era solamente lui, un angelo che non poteva essere altro che un essere divino sceso dal cielo e che non aveva eguali nella terra. Lui era forte, instancabile, ardente, dolce, tenero, bello come l’alba del mattino, capace di rendere il desiderio di lei nello stesso tempo pago e mai soddisfatto, mentre tutto, all’interno della capanna, sembrava brillare di una luce nuova i cui riflessi fiammeggiavano nei loro corpi avvinti in un’estasi infinita. A metà della terza notte il giovane si addormentò. Sulka provò a chiudere gli occhi, ma la sua mente rifiutava il sonno che l’avrebbe privata della vista del suo amato. Solo all’alba cadde in un deliquio, spossata , distrutta; aveva la coscienza di ciò che le accadeva intorno, ma senza la minima forza che le permettesse di muoversi, di scuotersi, di parlare.
Percepì che lui si alzava, si rivestiva della sua tunica fiorita, spengeva il lume e lasciava la capanna . Udì per qualche minuto il suono del sistro che si allontanava e poi più nulla; il silenzio l’avvolse e il sonno la colse esausta ed inerme, si impossessò della sua mente e l’abbandonò solo dopo un giorno intero di quiete.
Quando riaprì gli occhi, la capanna era vuota. Rivisse in un istante la sensualità che l’aveva avvolta così a lungo, si sentì ripiena di amore, ripassò mentalmente le sembianze dell’amato, ma percepiva la sensazione che difficilmente lo avrebbe rivisto ed improvvisamente percepì per la prima volta in vita sua la sensazione di essere sola , in preda ad un angoscia infinita, senza possibilità di consolazione.
E fu allora che si convinse del tutto che non poteva essere stato un uomo comune quello che aveva vissuto tre giorni di paradiso con lei. Aveva conosciuto così tanti uomini da poter con tranquillità affermare che lui era qualcosa di completamente diverso, un essere divino. Si rese conto che in tre giorni non aveva chiesto il suo nome, ma non se ne rammaricò e decise di chiamarlo Gabriel come l’angelo.
Quella mattina venne a passare di fronte alla sua capanna Moes-ben-Moises, il ricco mercante ebreo che tanti regali le portava ad ogni sua visita. Lui arrivò con un grosso seguito e teorie di cammelli e muletti carichi di merci. La chiamò e le disse che aveva per lei cinque talleri di Maria Teresa, una piccola fortuna, e poi scegliesse pure ciò che le piaceva di tutta la merce che stava trasportando.
• Mi dispiace Moes. In questi giorni mi sono unita ad un angelo del cielo; non andrò più con alcun uomo sulla terra. –
• Ma io ho bisogno di te. Ho fatto un lunga deviazione per venirti a trovare. –
• Non ci posso far nulla. Fai finta che mi sia sposata. –
• Va bene, ti darò dieci talleri! – Il mercante ebreo doveva essere davvero alla disperazione.
• Non starò con te neppure per cento talleri, quindi lasciami in pace, ti prego! –
Moes se ne andò mogio mogio raccontando in giro il cambiamento di Sulka.
Alcuni giorni appresso venne un capo dei cavalieri del Negus Teodoro. Era un gran bell’uomo, con una barba folta al mento, una lunga scimitarra al fianco dall’impugnatura d’oro, i capelli raccolti in lunghe treccioline che si raccoglievano dietro la nuca, legate da un nastro rosso. Una superba pelle di leone, la lancia e lo scudo da parata completavano la figura di un valente guerriero.
Lui offrì a Sulka piume di struzzo e pelli di leopardo. Lei non volle neppure farlo scendere da cavallo e respinse tutte le ulteriori offerte che l’incredulo cavaliere abissino rilanciava.
Il guerriero tornò al paese del suo ras e gli raccontò l’accaduto. Il ras era il più potente del regno dopo Teodoro, era bello di aspetto e ricco di denaro, conosceva Sulka molto bene e pensò che il suo guerriero fosse caduto, per qualche strana ragione, in disgrazia della bella abissina.
Incuriosito, ma anche in preda ad una strana eccitazione, si mise subito in cammino con il suo seguito per raggiungere Sulka. Per un giorno intero cercò di convincerla: offrì alla fanciulla prima una capanna e poi un intero villaggio fino ad arrivare a promettere decine di schiavi, tappeti preziosi, muli, gioielli. Ma nulla sembrava interessare Sulka che ormai ripeteva di essersi congiunta ad un angelo e che mai più avrebbe avuto rapporti con gli uomini.
Il ras se ne tornò via pieno di rabbia e di delusione. Alcuni giorni dopo incontrò il negus Teodoro, gli raccontò la storia della fanciulla della prateria e gli insinuò che quella splendida donna sicuramente avrebbe voluto farsi amare da lui, in quanto respingeva tutti, anche i ras. Il re chiese notizie di questa Sulka e tutti gli parlarono della sua straordinaria bellezza e della sua ritrosia ad accettare offerte di uomini comuni.
Passarono una ventina di giorni e a Teodoro capitò di transitare nei pressi del luogo dove abitava Sulka e senza pensarci due volte si diresse alla testa di un grande seguito di nobili ed ufficiali verso la capanna della giovane donna. Almeno cento fra negarìt e coborò, i tamburi da parata abissini, precedevano il corteo reale che Sulka udì da lontano ed attese curiosa di vedere di cosa si trattasse.
Un uomo emergeva fra tutti: i lineamenti erano belli, l’acconciatura dei capelli complessa, le armi che portava brillavano per l’oro con cui erano rifinite ed uno sciamma bianco a ricami rossi e gialli si drappeggiava sulle sue spalle robuste.
Quando lei realizzò di trovarsi di fronte al Negus, cadde in ginocchio senza osare guardarlo in faccia ed attese che lui le rivolgesse la parola, incredula ancora che il re dei re si fosse potuto fermare alla sua dimora.
• Avrei potuto farti venire a prendere e condurre alla mia dimora, come faccio con tutti, – le si rivolse Teodoro, –ma ho voluto fare come tutti gli altri che hanno bisogno di te e vengono a bussare alla tua porta. Ora io ho bisogno di te. –
• Di me, povera derelitta? –
• Si, proprio di te! Vuoi che faccia allontanare tutto il mio seguito? –
• Per quale ragione, mio signore? –
• Già, dimenticavo che a te non importa del tuo buon nome! –
Sulka si sentì offesa nel profondo dell’animo. Era la prima volta che si sentiva oltraggiata e che le parole di un uomo la colpivano così dolorosamente.
• Come vedi, – proseguì Teodoro che si era accorto del turbamento della fanciulla ,- nessuno ha mai fatto tanto onore alla tua capanna. E’ il Negus che oggi viene a chiedere la tua ospitalità. –
• Sono commossa di questo o mio sovrano. – Rispose Sulka piangendo. – ma io sono convinta che sopra tutti i grandi della terra , ci siano i principi del Cielo. –
• Questo è vero. Ma cosa ha a che fare con la mia richiesta di ospitalità? –
• Tu sei sicuramente la persona più importante della terra che sta bussando alla mia capanna. E fino a poco tempo fa, sarei stata la persona più felice e più grata per l’immenso onore che mi fai. Ma due mesi or sono ho avuto la visita di un angelo del cielo che mi ha fatta sua e da quel momento ho capito che mai avrei più giaciuto con altro uomo sulla terra. –
• Questa donna è uscita di senno! – Esclamò Teodoro rivolto al suo seguito. – Ma è bella come il sole. Orbene, allontanatevi tutti che cercherò di convincerla a concedermi i suoi favori.-
Mentre tutti si allontanavano, Teodoro balzò a terra, prese Sulka per un braccio e la trascinò all’interno della capanna. Lei si rifugiò in un angolo con le mani raccolte al petto che la camicia disegnava e modellava con grazia, abbassò la fronte e si sedette sulle gambe incrociate in un atteggiamento così dimesso che il Negus cercava invano di riconoscere la fiera cortigiana di cui tutti gli avevano decantato le lodi.
• Ascolta, – le disse il re, – lasciamo stare le storie di angeli caduti dal cielo, io ora sono qua, venuto per la prima volta nella mia vita a cercare una donna come te. Lo so che ultimamene hai respinto tutti i migliori dei miei sudditi che si sono prostrati ai tuoi piedi, ma non puoi ignorare il tuo re! –
• Io non ti disdegno, anzi ti venero e ti rispetto, ma semplicemente non posso più darti quello che vuoi. –
• Ragazza, tu mi stai facendo perdere tempo e la faccia. Quindi bando agli indugi, vieni qui ed abbracciami. Il negus te lo consente. –
Sulka iniziò a piangere e a tremare, ma non si mosse dal suo angolo.
• Mio sovrano, mio padrone, io sono la tua schiava, ordinami ciò che vuoi. Al limite fammi uccidere, fammi torturare dal più feroce dei tuoi carnefici, io ti benedirò e pregherò per la tua felicità e per la tua gloria , ma non mi chiedere amore perchè non sono più padrona del mio corpo. –
• Ho capito! – Esclamò Teodoro prorompendo nella sua terribile risata di iena. – Sei furba e audace, tu. Stai giocando la tua vita in maniera ardita e spavalda, ma a me piacciono le persone che sanno rischiare. Va bene Sulka, alzati e abbracciami e ti porterò alla mia reggia dove diventerai la prima delle mie concubine, quasi una principessa. –
• No, è impossibile! –
• Ragazza, non insistere nella tua follia. Ti ho detto quale è il mio volere. Esegui i miei ordini e la tua fortuna è certa. Fin da ora di fatto puoi essere la prima delle mie amanti a corte. Nessuna donna in Etiopia potrebbe ambire a tanto. –
• Giammai! Puoi fare di me ciò che vuoi, mio signore. Fammi soffrire tutti i martiri in una sola volta, ma non potrai mai obbligarmi ad essere infedele al mio angelo che è sceso in questa capanna e l’ha santificata. Il mio corpo, che era indegno, oggi è diventato sacro e come tale non potrò farlo più profanare da un contatto umano. –
• Arrestate questa donna che bestemmia gli angeli del cielo! – Urlò uscendo dalla capanna Teodoro che si sentiva offeso, respinto da una donna di facili costumi, umiliato di fronte ai suoi generali, alla sua corte. –
• Micael! Ascolta. – Proseguì il Negus sempre più irato, rivolto verso una degli ufficiali più fedeli. – Tu rimarrai qua, sull’uscio di questa capanna e se la ragazza tenterà di uscire, la ucciderai, senza alcuna pietà. Devo tornare a Magdala a risolvere il problema con gli inglesi. Appena fatto, tornerò e mi divertirò a farla torturare, a veder come invocherà il suo angelo quando sentirà sulla pelle il ferro rovente del carnefice. Non deve fuggire, ricorda che ti riterrò personalmente responsabile se non la ritroverò al mio ritorno. Mi ci vorranno al massimo due giorni, non farla bere né mangiare, almeno opporrà meno resistenza alla tortura. Porta via dalla capanna tutta l’acqua e il cibo che trovi e aspetta me. –
• Stai tranquillo, mio re, non fuggirà e non avrà una goccia d’acqua né un grano di cibo. –
Teodoro si allontanò con il suo seguito e Sulka si sentì lì per lì sollevata, ma presto fu assalita dall’angoscia e le sovvennero le parole del suo giovane amante che le avevano profetizzato dolore e disperazione se lui fosse entrato nella sua capanna. Ma non se ne pentì: era pronta a sopportare la tortura e tutte le sofferenze del mondo, ma niente avrebbe tradito la bellezza del ricordo del suo amore.
Della fame Sulka non aveva timore, ma la sete nella savana africana, specie di giorno si fa sentire e già all’imbrunire lei aveva necessità di bere, ma stette calma e cercò di dormire. Non ci riuscì. Il ricordo del suo Gabriel non riusciva completamente a fugare lo spettro del carnefice né la consapevolezza della mancanza d’acqua.
Anche il guerriero all’esterno sembrava irrequieto. Girava in tondo alla capanna, timoroso che Sulka tentasse la fuga.
Era ben desta quando il sole sorse e cominciò ad infuocare la pianura e la sua capanna. La sete divenne subito un bisogno impellente , anche perché la porta sbarrata contribuiva molto ad aumentare il calore all’interno della sua dimora e a nulla valsero le sue richieste al soldato di Teodoro, il quale evitava di rivolgerle la parola.
Trovò un piccolo sasso e se lo mise in bocca. Il vecchio espediente abissino per un po’ frenò il suo bisogno, ma la fame di acqua riprese presto il sopravvento.
Provò ad implorare, ma non ottenne risposta. Anche il guerriero da parte sua non era tranquillo. Teodoro gli aveva detto che al massimo in un paio di giorni sarebbe stato di ritorno, ma almeno un cambio e uno esperto di tortura, sperava che arrivassero prima. Anche lui aveva scorte di acqua e viveri sufficienti solo per un paio di giorni.
Dopo un’altra notte di sofferenze, Sulka provò a corrompere il custode. Aveva tanti talleri nascosti nella sua capanna ed arrivò a prometterglieli tutti affinché la lasciasse uscire ad attingere acqua nel pozzo poco distante. L’uomo però era davvero fedele e non rispose alle lusinghe della donna, anche se al termine della seconda giornata cominciò davvero a preoccuparsi. Teodoro non faceva promesse a vanvera, e non vederlo di ritorno non presagiva nulla di buono. E poi anche lui aveva bisogno di riposare, ma era convinto che se si fosse addormentato, la prigioniera sarebbe fuggita. D’altra parte gli abitanti dei dintorni ed i passanti, abituati a visitare Sulka, si guardavano bene dall’avvicinarsi alla sua capanna dove un guerriero di Teodoro faceva la guardia ed ignoravano tutti i gesti e le urla di richiamo che il soldato si prodigava di indirizzare verso di loro.
Un’altra notte di inferno per Sulka e di sofferenza per il soldato contribuì ad aumentare rispettivamente la disperazione e l’ansia. Lei implorò il guardiano promettendole tutto ciò che aveva e non era poco, ma lui benché ormai preda della fame e della sete rimase fermo in attesa del suo re.
Passò così un altro giorno ed un’altra notte e Sulka era ormai pronta ad offrire se stessa al guerriero, al re o a chiunque per una ciotola d’acqua. Lei che fino a tre giorni prima avrebbe avuto il coraggio di affrontare qualsiasi martirio pur di non cedere il suo corpo, ora cominciava a sentirsi vulnerabile di fronte all’intransigenza della sete, davanti a quella terribile prigionia. Il celestiale ricordo del suo Gabriel non riusciva a farla rassegnare a morire, perché era ormai certa che non avrebbe resistito un altro giorno.
Non riusciva più a gridare, una debolezza terribile l’avvolgeva sempre di più togliendole pian piano la vita.
Fu il guerriero a scuoterla a metà mattina. Una nube di polvere in lontananza annunciava l’arrivo di un drappello di cavalieri. Lui esultò con grida e salti di giubilo. La fame, la sete e la spossatezza lo avevano provato e non vedeva l’ora di dare il cambio.
Dopo un po’ la nuvola si fece più vasta e cominciò a diradarsi lasciando intravedere un gruppo di cavalieri al galoppo. Quando furono a cento passi dalla capanna si vide bene che erano guerrieri armati di scudi, di fucili, di lance che a spron battuto si dirigevano verso di loro, ma con grande stupore del guardiano e con sentimenti contrastanti provati da Sulka il drappello passò oltre senza fermarsi e degnare di una risposta le invocazioni disperate del loro compagno d’armi.
Non passarono trenta minuti che un’altra schiera, questa volta molto più numerosa di soldati apparse in lontananza e transitò veloce senza fermarsi e senza rispondere ai richiami del guardiano.
Poi i gruppi di soldati cominciarono a diventare numerosi senza che nessuno si soffermasse, malgrado il custode della ragazza avesse posto in cima alla lancia un lungo panno bianco e lo agitasse con vigoria per farsi notare. Quando passarono più distanti gruppi di uomini e donne con muletti e cammelli, espressione delle salmerie degli eserciti abissini, fu palese che quello era un esercito in fuga.
• Stanno scappando. – Disse il guardiano, rivolgendosi per la prima volta a Sulka.
• Pare anche a me! – rispose lei che, con uno sforzo disperato, si era messa a sbirciare da una fessura della capanna.
• E perché fuggono? –
• C’è una sola spiegazione, – azzardò la ragazza, – il tuo esercito è stato sconfitto dagli inglesi. –
• E’ impossibile! Stai zitta donna o sarà peggio per te! –
Ma il dubbio cominciò a farsi strada nella mente del soldato perché i drappelli in fuga si moltiplicavano non solo nei pressi della capanna di Sulka, ma si intravedevano all’orizzonte e dovunque si gettasse lo sguardo.
Poi verso l’imbrunire avanzò un drappello che non fuggiva, ma che procedeva lentamente, quasi fosse rassegnato ad essere raggiunto, come se nulla avesse più da perdere. Quando furono nei pressi della capanna si vide che erano soldati e preti, per la maggior parte a piedi accompagnati da alcuni musici ed un gruppo di donne che emettevano note, canti e gemiti strazianti. Nel mezzo del gruppo, trasportata da otto ras c’era una bara ricoperta da uno sciamma bianco a ricami rossi e gialli e con la lancia incrociata con la scimitarra sotto lo scudo tondo ornato con la criniera di leone. Subito dietro il feretro un ufficiale teneva in mano un fucile dal calcio intarsiato d’oro e di madreperla e una pistola anch’essa rabescata d’oro.
• Le armi di Teodoro! – Esclamò esterrefatto Micael, il carceriere e, visto l’andamento lento del corteo, lo raggiunse e chiese ad un prete lumi.
Seppe così che Teodoro era stato sconfitto dagli inglesi inviati dalla regina Vittoria per liberare scienziati ed operai che il negus aveva fatto imprigionare a Magdala. Teodoro, per non cadere prigioniero nelle mani del nemico aveva preferito togliersi la vita con un colpo di pistola. Il corteo funebre stava accompagnando il sovrano alla sua ultima dimora.
Micael, in preda alla costernazione e al timore di essere preda di eventuali inseguitori, tornò lesto alla capanna, prese le sue cose e fece per darsi alla fuga anche lui, quando un gemito proveniente dall’interno della dimora gli fece ricordare la presenza di Sulka. Non ci pensò due volte, le spalancò l’uscio e le urlò che era libera, che poteva stare tranquilla ora che il negus era morto.
Lei ebbe un anelito di vitalità e lo sfruttò per mettersi in piedi, raggiungere l’esterno e gridare aiuto. La soccorsero un paio di preti che seguivano a distanza il corteo funebre. Sulka bevve con avidità l’acqua che le porsero e placò la sua fame con alcune banane, ma non si concesse quel riposo che qualsiasi essere umano si sarebbe preso dopo quella terribile esperienza. Non si soffermò a cantare per gli inglesi l’inno della vittoria, per loro che senza saperlo le avevano salvato la vita; corse e raggiunse invece il corteo funebre di Teodoro e pianse, dietro al feretro del suo persecutore, la sconfitta dell’Abissinia.
Sulka continuò a disperarsi per tre giorni e per tre notti, danzò da sola tutte le cantiche funebri abissine e tutte le nenie che è doveroso cantare sulla tomba del forte . Non ebbe timore di Ligg Cassa, il ras del Tigrai, il quale aveva avvisato tutti di non lasciarsi sorprendere in atteggiamenti sospetti di fedeltà al defunto sovrano, pena la morte. Lei continuò a cantare e danzare sulla tomba dell’uomo che se fosse sopravvissuto l’avrebbe fatta torturare senza pietà. Re Johannes o non seppe nulla o preferì ignorarla, ma il comportamento della giovane impressionò talmente il popolo abissino che presto diventò famosa come la più illustre delle donne di carità dell’Etiopia.
Furono il suo amore per gli angeli del cielo, il suo contegno verso il negus morto e la sua castità costante e tanto più considerata per quanto fosse bella, che le crearono quella fama di santità che corse per tutto l’altipiano per poi discendere verso i deserti e verso il mare a raccontare a tutti i popoli d’ Etiopia le gesta di Sulka.
Anche tanti anni dopo quando era ormai vecchia, con i capelli imbiancati e le membra scarne, la bellezza non l’aveva abbandonata e alcuni viaggiatori che l’incontrarono, furono sorpresi dal suo sguardo ardente, dai lineamenti del viso ancora perfetti, dal suo corpo ancora armonioso che in una donna di quell’età erano ancora in grado di suscitare il desiderio. E solo allora riuscivano a comprendere tutta la rabbia che per lei ebbe a soffrire re Teodoro.