Nicky Di Paolo, 10 giugno 2004
A sessanta anni dalla fine dell’epopea colonialistica dei paesi europei, stiamo oggi assistendo ad un evento diametralmente opposto: la colonizzazione dell’Europa da parte di genti provenienti in buona parte da paesi africani. Il termine colonizzazione, per indicare gli eventi attuali, sembra forse a prima vista eccessivo, ma in realtà non lo è: anche se sono totalmente diversi i sistemi di approccio al problema, la sostanza è la stessa. Oggi l’Europa, con i suoi indici di natività in rosso e con la sua politica liberalitaria, è costretta ad accogliere genti di altri paesi che arrivano in massa dai posti più disparati, attratti dalla propaganda televisiva mondiale che il vecchio continente fa di se stesso.
I nuovi coloni sono spinti dalla fame cronica e dalla totale assenza di futuro nei loro paesi, stanchi di dover supportare o sopportare guerre fratricide ed eterne sorrette da tirannie barbare ed inespugnabili, prostrati nelle proprie terre da terribili malattie che nessuno si briga di curare. Fiumi di genti dell’Africa, dell’Asia e dell’Est europeo emigrano o scappano in massa dalle loro terre, raggiungono fortunosamente le nostre coste e quindi si sparpagliano per tutta l’Europa. Poi, pian piano, con tutto il tempo necessario, che per loro continua a non avere un grande valore, si vanno inserendo fra quegli stessi popoli che, alcuni decenni prima, li avevano asserviti con la forza.
Stranamente i nuovi coloni stanno riuscendo, senza sparare un colpo di fucile, a venire a vivere al nostro fianco, con diritti e doveri perfettamente equiparati ai nostri anche se costretti a doversi adattare a lavori manuali, ma solo per poco: infatti i lori figli frequentano tutte le scuole, siedono negli stessi banchi dei nostri figli con i quali stringono amicizie e fra poco arriveranno a coprire incarichi e posti direttivi. Gli extracomunitari fra l’altro affollano le campagne, riattivano poderi in abbandono, ritrovano nella terra la loro forza originaria. Il razzismo in Europa è in declino obbligato e, anche se qualche politico ancora si agita in maniera anacronistica, cercando di risvegliare sentimenti nostalgici, è destinato inesorabilmente a sparire, anche lui travolto da un’evoluzione popolazionistica inarrestabile. Chi avrebbe mai potuto immaginare un simile sviluppo politico cinquanta anni or sono? I flussi ed i reflussi della storia sono oggi drammaticamente accelerati dalla relativa facilità degli spostamenti e delle comunicazioni.
E l’Africa degli africani? E la nostra Africa? Dieci anni or sono pubblicai un libro dove esprimevo le mie sensazioni di allora; avevo una voglia matta di tornare a vivere in Eritrea. Se infatti dal Corno d’Africa giungevano già migliaia di emigranti in Europa, perché non era possibile stabilire anche un flusso contrario e permettere a tanti europei che volessero vivere laggiù di poterlo fare con tranquillità? Mi sbagliavo alla grande.
Malgrado i continui viaggi nella mia terra natale, non ero riuscito a cogliere o meglio a portare a livello di coscienza quel sottile ed impercettibile senso di confusione, di smarrimento e di insicurezza che continuava e continua a travagliare i popoli di quella parte dell’Africa che ci è sempre tanto cara. Gli Etiopici avevano ritrovato con Menelik ed Haillè Sellassiè, illuminati monarchi, quell’unità che da secoli era ambita, ma sempre violentemente contestata.
Dopo di loro si è assistito al rovesciamento, a mio parere inutile, della monarchia che ha solo permesso l’avvento di una dittatura gretta, insulsa e crudele. Le necessarie guerre di liberazione combattute poi dall’Eritrea e dall’Etiopia e risolte con la creazione di due stati indipendenti non hanno purtroppo portato, specialmente in Eritrea, a quei risultati che era logico aspettarsi. La Somalia, da parte sua, quale terzo componente del Corno d’Africa, è da decenni nel caos più totale ed in una continua guerra intestina.
E poi guerre ed ancora guerre, di cui non si riesce a capire nulla o quasi: quali siano le vere cause, chi le istighi, chi le supporti, chi le vinca e chi le perda, tutto è confuso. O meglio, chi perde le guerre lo si vede bene, sono i popoli del Corno, è la natura del Corno, è la speranza. A tutto questo si deve aggiungere l’avvento della nuova peste che in Africa tropicale sta decimando la popolazione. L’AIDS sta piegando anche il Corno d’Africa, le cifre fornite dall’OMS sono impressionanti; ma non c’è solo quella. Nei bassopiani e negli altipiani eritrei e del Tigrai, stravolti dalle guerre e dalla siccità, la percentuale di verde è passata dal 30% del 1940 all’ 1% attuale, secondo dati recenti della FAO.
La desertificazione ha prodotto non solo fame, ma una recrudescenza di vecchie, ma sempre terribili malattie endemiche, quali la malaria, la tubercolosi, le epatiti e tutte le affezioni tropicali. Con l’aumentare della morbilità non c’è stata un’ evoluzione della sanità pubblica che invece è regredita terribilmente rispetto agli anni in cui erano presenti gli italiani; la mortalità infantile è elevatissima, l’aspettativa di vita molto scarsa.
Nel mio ultimo viaggio in Eritrea, intrapreso con due amici medici ed un’ operatrice televisiva, ci siamo ammalati tutti e quattro di una febbre infettiva che solo in Italia siamo riusciti a diagnosticare e trattare. Quei pochi italiani che sono tornati in Eritrea e vi hanno investito i loro capitali, si sono amaramente pentiti. No, non è il momento adesso di proporre agli europei di far ritorno in Africa. Eppure gli Africani ne avrebbero un disperato bisogno.
La colonizzazione italiana in Eritrea ha insegnato al mondo che era possibile una buona e pacifica convivenza fra bianchi e neri in Africa, permettendo il suo sviluppo in armonia con l’ambiente. Ma è indispensabile che gli abitanti del Corno smettano di vivere per la guerra, trascinati ormai in quella spirale terribile ed infinita di violenza già ben nota in molti paesi dell’Est europeo e del Sud America: è indispensabile che trovino il coraggio di instaurare una vera democrazia e non devono tralasciare mai di rincorrere nei loro magnifici territori quella pace indispensabile a poter impostare qualsiasi programma futuro.
Mi è dispiaciuto constatare che alcuni amici eritrei ed etiopici mi criticano perché uso la parola Abissinia. E’ evidente che questo termine ricorda loro il recente passato coloniale e disturba l’attuale situazione geopolitica dell’acrocoro etiopico. A mio parere sbagliano alla grande: primo perché l’Abissinia è ricordata da sempre nella storia dell’ uomo, secondo perché essa rappresenta un qualcosa a se stante dal resto dell’Africa in quanto raccoglie popolazioni semitiche, uniche nel loro genere, terzo perché in un futuro, che mi auguro non sia troppo lontano,
il Corno d’Africa potrebbe dare origine ad una piccola federazione di stati, totalmente indipendenti fra loro, ma uniti dalle stesse origini, dagli stessi interessi, e dalla medesima storia. Perdonatemi questo sogno, ma potrebbe nascere una federazione di stati indipendenti, guidata da persone intelligenti, la cui cultura, la grande civiltà e la storia sono uniche in tutta l’Africa subsahariana.
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