Nicky Di Paolo, pubblicato maggio 2010

Ormai sono anni e anni che dall’Africa decine di migliaia di abitanti di quel continente intraprendono viaggi quanto mai pericolosi per trasferirsi in Europa in cerca di quel benessere che la televisione satellitare ha mostrato loro: un qualcosa di meraviglioso, ma spaventosamente lontano dalla loro vita modesta e assolutamente priva di quei conforti che tutti i canali televisivi dei paesi civilizzati mostrano in continuazione.

Come si può resistere a quelle divine tentazioni se a casa loro manca il pane e l’acqua ? Fatto sta che quei pochi televisori presenti nelle città e nei villaggi africani, stimolano con i loro programmi e con la loro pubblicità le menti della popolazione più giovane, più intraprendente e più coraggiosa. Il richiamo è talmente forte che tanti abitanti dell’Africa fuggono dai loro paesi e, dopo estenuanti trasferimenti giungono alle rive europee.

Viaggiano clandestinamente perché non hanno né visti di partenza né tanto meno quelli di arrivo. Investono in quell’avventura, tanto rischiosa per la vita, tutti i risparmi che sono riusciti ad accantonare nella loro esistenza. Nella maggior parte dei casi viaggiano da soli, spesso in coppia ma talvolta è un’intera famiglia che fugge trascinandosi dietro bambini di tutte le età o giovani spose in avanzato stato di gravidanza. Il viaggio è lunghissimo; prima di giungere al Mediterraneo, qualsiasi mezzo di locomozione, animali da trasporto o mezzi meccanici sono tutti bene accetti, altrimenti vanno a piedi per giorni e giorni, camminatori instancabili, specie quelli allenati sulla cima dell’acrocoro etiopico a circa 2500 metri di altitudine.

Noi siamo perfettamente al corrente delle tragiche modalità di arrivo, la televisione ce le mostra ogni giorno, mentre ignoriamo completamente quali siano quelle di partenza e quelle necessarie a traversare mezza Africa prima di giungere alle coste settentrionali di questo continente.

Una prima domanda viene spontanea: quanti sono quelli che partono e quanti sono quelli che riescono a raggiungere le rive del Mar Mediterraneo? Non ne abbiamo la più pallida idea, ma purtroppo conosciamo più o meno quanti sono a tentare l’ultimo balzo per traversare il mare Mediterraneo e raggiungere le coste europee; di certo sappiamo quanti muoiono in quest’ultimo sforzo.Siamo consapevoli che alcuni mezzi nautici che non sono degni di essere chiamati imbarcazioni, affondano appena il mare ingrossa;spesso e volentieri scafisti criminali compiono a bordo di questi natanti vere e proprie decimazioni buttando a mare chi sta male, chi protesta per non poter neppure muoversi essendo stipati in piedi come sardine, chi si lamenta per il freddo o più semplicemente chi si rifiuta di gettarsi in acqua in vista della costa, chiedendo pietà perché non sa nuotare.

C’è da chiedersi perché i media continuino a chiamare scafisti i conducenti di queste carrette del mare; sono in verità dei serial killer che per il numero di vittime e per la ferocia, superano di gran lunga tutti i criminali che portano questo nome. Di questi profughi africani ne sono morti e ne muoiono tanti, ma la notizia della strage di centinaia di clandestini, non ferma minimamente l’esodo dall’Africa, e la mattanza continua suscitando sdegno e clamore in tutto il mondo, senza però che ci sia nessuno che tenti con convinzione di disciplinare i funesti viaggi di questi poveri esseri che suscitano tanta pietà.

Noi italiani, rispetto al resto dell’Europa, abbiamo un punto importante in più da considerare: negli ultimi tempi la maggior parte di profughi che giungono nelle nostre coste provengono dal Corno d’Africa e principalmente dall’Eritrea. Ce ne sono alcuni che parlano italiano perché hanno frequentato la scuola italiana dell’Asmara e raccontano di aver perso nella traversata uno o due parenti; c’è addirittura chi ha visto morire l’intera sua famiglia. A chi li soccorre dicono di essere i nipoti di quegli ascari che erano soldati neri ma italiani e che combatterono a fianco dei nostri nonni tante battaglie spesso offrendo la loro vita per salvare quella dell’ufficiale bianco

Che i soccorritori ignorino la storia italiana in Africa è deprecabile,ma che nessuno dei loro superiori o dei politici non riconoscano a questi eritrei di dover loro un trattamento di riguardo, ci sembra davvero eccessivo. Gli eritrei vengono mischiati a tutti gli altri africani e stipati in campi di concentramento, dove ha inizio una nuova avventura per cercare di fuggire lontano da quelle prigioni e raggiungere qualche compaesano che è riuscito in qualche modo ad inserirsi nella comunità italiana di soppiatto e rispettando le nostre leggi per iniziare una nuova vita nel nostro paese.

Non siamo qui a discutere di politica e a dire la nostra sull’attuale legislazione italiana inerente all’afflusso di stranieri che richiedono asilo politico. Né tantomeno cercheremo di capire cosa porta alla disperazione questa gente che decide di emigrare sapendo bene di avere buone probabilità di morire lungo il difficoltoso viaggio di trasferimento. Cosa possiamo fare? Come possiamo aiutare gli eritrei? Tanto per cominciare ci sembra giusto richiedere alle nostre autorità un occhio di riguardo agli esuli che provengono dal Corno d’Africa. Quelle genti,da noi sottomesse con la forza del denaro o delle armi, ha vissuto per decenni accanto a noi, donandoci ospitalità e una serena convivenza.Decine di anni di storia italiana sono legati a quella del Corno d’Africa.Ora che quella gente ha bisogno di noi, è doveroso tendere una mano e accoglierli nella nostra comunità.

Ricordiamoci che alla fine del 1935, nel Corno tra civili e militari erano presenti circa 500.000 italiani. Gli ultimi 50.000 rimpatriati alla spicciola negli anni 60, hanno vissuto con gli eritrei due decenni di ottima convivenza e di integrazione. Durante la lunga guerra tra Eritrea ed Etiopia, terminata alla fine del secolo scorso, e nel periodo postbellico abbiamo osservato l’incomprensibile appoggio dell’Italia all’Etiopia: a mio parere è stato un vero e proprio tradimento.Cerchiamo, almeno ora, di dare una mano agli eritrei, è un nostro dovere.