Quando mi è giunto l’ultimo libro del Prof.Erik Domini THE CAESAREAN SECTION, The Health Sciences Publisher London  mi è venuto spontaneo pensare che non avevo sbagliato quando lo avevo posto nel sito www.ilcornodafrica.It fra le figure di spicco relative  agli italiani vissuti in Eritrea. Nelle motivazioni avevo stressato la sua formidabile inclinazione ad aiutare la povera gente lavorando come medico missionario in Africa e guadagnandosi una fama più che meritata di insegnante oltre che di medico specialista in ostetricia e ginecologia. Domini si è distinto sempre sostenendo con giustezza che l’insegnamento deve stare al primo posto fra i programmi di aiuti al terzo mondo e la sua produzione di testi medici è andata di pari passo alla didattica offerta nei luoghi che più avevano un disperato bisogno di assistenza sanitaria come la Somalia, il sud del Sudan, l’Uganda. Forse però, nel parlare di Erik, mi era sfuggita in parte la sua capacità di confrontarsi sul piano scientifico oltre che medico e didattico. L’ultimo libro di Domini ha mostrato che non è certo da meno nel campo scientifico e lo dimostra con una prova eccellente; Il testo infatti, che l’autore cita modestamente come monografia, è in realtà un testo-atlante (280 pagine con circa 500 disegni che tratta a fondo il problema del taglio cesareo). Questa pubblicazione non può considerarsi solo un approfondimento del parto cesareo che l’autore desiderava esprimere quale corollario a quanto pubblicato in precedenza. Infatti l’aspetto preponderante è che il libro è scritto in inglese (è il primo testo italiano di Ostetricia che sia stato tradotto in Inglese da un testo italiano) ed è pubblicato da un editore indiano. Chi non è pratico del settore medico-scientifico non può conoscere le serie difficoltà che si incontrano allorché si desideri pubblicare lavori o volumi in inglese. Gli editori medici internazionali pubblicano soltanto testi in inglese, idioma che viene considerato a ragione l’unica lingua possibile per divulgare universalmente i risultati dei propri studi e della propria esperienza. Gli editori internazionali sono di una severità estrema: una volta che hanno in mano il manoscritto, lo inviano a vari “rerferee” membri esperti dei comitati editoriali, che devono con molta pignoleria dare un giudizio sereno, ma critico, dell’opera in questione. L’editore deve decidere in base ai giudizi espressi dei revisori se respingere o accettare con riserva la pubblicazione del lavoro. La riserva nasce dalla capacità dell’autore di saper a sua volta elaborare tutte le critiche apportate  dai ”referee ” e  adattare il testo alle loro richieste. L’opera di Domini quindi ha dovuto seguire questo iter indispensabile per poter essere accettata per la pubblicazione internazionale. Un lavoro notevole, iniziato dalla ideazione del testo, seguito dalla sua stesura e preparazione dei disegni, a seguire la traduzione del volume in inglese, confronto con le osservazioni dei “referee” e completamento delle richieste di questi ultimi e quelle personali dell‘editore; infine correzione delle bozze. Il volume ha avuto un successo immediato tale che l’Editore indiano ha dato l’incarico a Domini di preparare un trattato in inglese, in due volumi, sulle operazioni ostetriche, il primo “Operazioni Ostetriche vaginali, il secondo “Operazioni Ostetriche laparotomiche.  Tutto il mondo scientifico viene in questo momento avvisato dell‘uscita di questo bel volume che porta Erik Domini (asmarino doc) un gradino ancor più in alto di tutti quelli già raggiunti fino ad ora.
SEMI DI PAPAIA di  Angelo Granara Quando fra la posta consegnata stamattina ho visto un plico  il cui mittente era Angelo Granara, un moto di gioia mi ha spinto a strappare la busta e a tirare fuori l’ultima opera di Angelo. Gioia è il termine giusto per esprimere esattamente ciò che provo quando leggo gli scritti di questo ex asmarino DOC che riesce sempre a suscitare su chi lo legge tante sensazioni; lui è un grande giornalista e lo scrivere è stato ed è ancora oggi per lui un’espressione non solo artistica, ma anche l’occasione per esternare una cultura profonda, unita ad una innata capacità di rappresentare soggetti e avvenimenti con una affettività non comune e non disgiunta da una buona dose di ironia. Una volta avuto in mano il libro dal titolo “Semi di Papaia”, ho potuto apprezzare subito la veste editoriale, delicata e sobria, ma mi sono imposto di leggere solo un paio di pagine al giorno, un modo semplice di prolungare e gustare a lungo il piacere di quella lettura. 15 minuti sono trascorsi per leggere le prime pagine, ho quindi chiuso il libro, proponendomi di riprenderlo in mano il giorno successivo. Sono passati altri 15 minuti e come un fanciullo che non resiste alla tentazione di afferrare una caramella da un vassoio pieno, così io mi sono ritrovato a leggere altre pagine di “Semi di papaia” e poi altre ancora, senza fermarmi per ritrovarmi alla fine, da una parte ebbro di sensazioni piacevoli e commoventi, e dall’altra pentito per aver voluto trangugiare tutto il piatto di dolciumi in una sola volta.  È vero, sono stato goloso, ma ho divorato qualcosa di unico e di speciale, dove prosa, poesia e riferimenti proverbiali africani sono amalgamati ad arte e offerti al lettore con tanta tenerezza generata dai suoi ricordi eritrei, che spaziano dalla descrizione analitica dei luoghi, delle genti, fino a  rammentare gli amori (veramente tanti!), e a descrivere  la incredibile serenità della vita nel Como, alle vere e preziose amicizie e infine al trauma di dover abbandonare un posto come  quello per giungere in una Italia sconosciuta, inospitale, e spesso violenta. I semi di papaya sono per Angelo tanti piccoli spazi di vita eritrea dove dominavano punti di riferimento diversi da quelli che incombono nella vita in Italia. Allora era l’amicizia che nasceva da bambini e proseguiva immutata tutta la vita, erano le cose semplici alle quali ambivano gli tutti asmarini: aria pura, cibi genuini, rapporti umani edificanti, determinato altruismo, continua ricerca di momenti di felicità disgiunti dal potere del denaro o da strati sociali contrapposti. Le poesie e i proverbi sono inseriti ad arte per far risorgere nell’animo del lettore un’atmosfera, la più verosimile possibile a quella vissuta in Eritrea.  Angelo non è solo un eccelso scrittore, è anche un dolce poeta e lo abbiamo riconosciuto tante volte, ma nei “Semi di papaia“ ha raggiunto un traguardo superbo, dove la sua arte, il suo sapere e il suo animo si fondono generando un’opera sublime, e sono senz’altro d’accordo con alcuni amici che hanno definito questo libro il migliore di quelli scritti da Angelo. Tuttavia la mia sete non si è placata, anzi rimango di nuovo in attesa di un altro libro che mi porti una ventata di piacere rischiarando la tristezza della nostra senilità. Confido nel fatto che Angelo tutte le volte che pubblica un libro e assicura che quello è l’ultimo avendo esaurito la sua spinta espressiva; fino ad oggi si è sempre smentito, partorendo nuove  perle  che  si sono aggiunte alle tante precedenti e rendendo le nostre biblioteche ricche dei suoi capolavori.
La Parola agli Animali, ultimo libro di Benito Romagnoli mi è giunto tanto inatteso, quanto gradito. Di ottima impaginazione, la narrativa si alterna alla poesia con l’inserimento di massime, di proverbi e di citazioni che rendono la lettura piacevole e lineare. L’autore è nato da “vecchi coloniali”, così venivano indicati coloro che avevano trascorso più di una generazione in una delle colonie africane italiane. Ha ereditato dai parenti pionieri l’intraprendenza, l’amore per l’avventura, la voglia di vivere e il bisogno di raccontare; inoltre ha senza dubbio acquisito quella sensibilità che rende coloro che hanno vissuto in Africa persone molto particolari e creative, che riescono a catturare sempre l’interesse di chi legge i loro scritti. Benito Romagnoli, già ben noto come valido scultore, si presenta ora con il suo quarto libro guadagnando onestamente il titolo di artista. Si presenta ai suoi lettori come un tenero poeta e come un abile scrittore di storie sospese fra l’Africa e l’Italia lasciandosi abbandonare alla commozione dei ricordi e all’analisi profonda della sua vita vissuta sempre alla ricerca di oneste emozioni e di   leciti miglioramenti, tutto in perfetta armonia con gli animali e le genti africane. È talmente convinto di ciò che scrive che arriva a ipotizzare un mondo dove agli animali sia dato di parlare, di certo non per poterci raccontare le favole di Fedro, dove gli animali parlano con il linguaggio dell’uomo, ma per poter confrontarsi ad armi pari con la razza umana in un mondo dove tutti gli esseri viventi potrebbero attingere sapienza l’uno dall’altro. Benito però non è un sognatore e rimane sempre con i piedi ben piantati in tutte le terre dove ha vissuto. Se le sue poesie sono colme di dolcezza, i racconti sono veramente preziosi in quanto non c’è più nessuno che possa attingere nella propria memoria la storia vera degli italiani in Eritrea. Si percepisce, dagli scritti di Benito, il notevole bagaglio di conoscenze che lui possiede del Corno d’Africa, che lascia il lettore con il fiato sospeso in attesa che un nuovo libro apporti tanti altri racconti della sua esistenza conditi con gocce poetiche colme di tenerezza.
Nel 2005, quando uscì la versione inglese del libro di Michela Wrong, fui uno dei tanti che sperarono che questo volume fosse rapidamente tradotto  e pubblicato in italiano; infatti la sostanza dello scritto, l’intensità delle tematiche trattate, la capacità di raccontare con lucidità eventi delicati e soprattutto rimanere sempre imparziale, avevano suggerito, per tutti quelli che non leggono l’inglese, l’importanza di una traduzione in quanto nel testo vengono narrati momenti di una  storia, almeno inizialmente, tutta italiana. Meglio tardi che mai, e oggi la traduzione dall’inglese del libro della Wrong è una realtà piacevole e gradita che colma, a mio parere, un vuoto di decenni di storia difficili fino ad oggi da comprendere. Innanzitutto l’edizione italiana ha permesso di evidenziare un aspetto importante dell’autrice, quello di sapere raccontare. Basta riportare due righe della sua descrizione di Massaua per capire cosa intendo dire: “al tramonto, quando tutti traggono un sospiro di sollievo, (Massaua n.d.r,) si riempie di angoli nascosti di misteriosa bellezza mentre la luce scivola morbida sulle calde facciate di corallo.” Solo una scrittrice può comporre certe melodie. A riprova di ciò che sostengo, l ‘ultimo libro della Wrong, dopo aver scritto tanti saggi e innumerevoli reportage, è un romanzo. Quindi, anche se gli argomenti trattati sono impegnativi, l’autrice, che si definisce giornalista free lance, è stata capace di rendere il testo piacevole a leggersi e riesce agevolmente a trattenere il lettore incollato fino all‘ultima delle quattrocento pagine del volume. Ma veniamo ai contenuti. La maggior parte dei capitoli riguarda l’avventura in Africa orientale vissuta negli ultimi cento anni dalle popolazioni del Corno, prima costrette a difendersi dalla bramosia di vari stati europei, poi a subire l‘influenza malefica degli Stati Uniti e della Russia e infine a dover combattere fra di loro per la definizione dei propri confini. A mio parere l’abilità della Wrong è quella di accennare ai temi principali senza ingolfarcisi e tediare il lettore, elencando una cruda cronologia di avvenimenti. Lei scivola sempre nei particolari ai quali dà spazio rendendo il testo meno drammatico di quello che in realtà è. L’esempio più saliente è quello che descrive il comportamento di un alto ufficiale inglese mentre viaggiava da Cheren, appena conquistata, verso l’Asmara e  per strada incontrò una vecchietta che lo salutò con l’elleltà, il trillo squillante e unico che sanno emettere tutte le donne del Corno per esprimere gioia, partecipazione, benvenuto; l’ufficiale  non comprese il significato di quel  suono, si voltò  adirato verso la donna e  urlò  “non l ‘ho fatto per te”, da cui è uscito il titolo di questo libro.  Sempre sulla battaglia di Cheren, questa volta prima di iniziare gli scontri, la Wrong racconta di un ufficiale italiano  che, a cavallo, seguito da un drappello di ascari, si lanciò  da solo contro l’armata inglese, appena giunta ai piedi delle montagne e, con la spada sguainata caricò, in una corsa sfrenata, il nemico rimasto sorpreso e stupefatto. Il gesto suicida, sbalordì i soldati inglesi che decimarono senza problemi il drappello, ma si resero conto che conquistare Cheren, non sarebbe stata una passeggiata. Il libro è pieno di queste particolarità che lo rendono appetibile. A proposito degli inglesi, anche per la Wrong è difficile capire perché i suoi connazionali, dopo la vittoria di Cheren, iniziarono a distruggere o a portare via dall’Eritrea la maggior parte dei macchinari dell’industria italiana. La Wrong fornisce un elenco dettagliato di quanto asportato o distrutto e definisce i suoi connazionali ladruncoli che hanno derubato il popolo eritreo. La maggior parte dei fatti accaduti negli ultimi decenni sono tratti da interviste della Wrong e si evince dagli scritti che lei è stata in buona parte presente nei momenti principali di cambiamento o di guerra che hanno coinvolto il Corno d’Africa. È coraggiosa, disprezza il pericolo e, pur di intervistare i personaggi di maggior risalto, ha studiato e attuato personali stratagemmi. Non si è limitata a intrufolarsi nei margini dei campi di battaglia né si è accontentata di incontrare individui invisi a chi in quei momenti deteneva il potere, ma non si è mai stancata di inseguire per tutto il mondo coloro che, in fuga dal Corno, erano disposti a parlare e svelare i segreti dell’Africa Orientale. La sua storia inizia dal governatore Martini e dal negus Menelik che naturalmente non ha potuto conoscere di persona, (ma si è ben documentata in proposito), quindi saluta la nascita dell’Eritrea; subito dopo ricorda, durante l’ultima guerra mondiale, l’estrema e mitica difesa italiana rammentando l’eroismo degli ascari e di alcuni soldati italiani tra i quali spicca la bella figura del generale Lorenzini. L’autrice commenta quindi la successiva travagliata ricerca da parte dell’Eritrea di una propria identità e di una gusta collocazione   nello scacchiere dell’Africa Orientale. Si sofferma poi a considerare la forzata annessione   all’Etiopia, regno di Hailè Selassiè prima e poi paese del dittatore Menghistù. Infine dedica un ampio spazio ai Fronti di Liberazione Eritrei e alle gesta di   Isaias Afewerki, al quale riserva buona parte del libro. La Wrong cerca di definire la personalità degli uomini che hanno scritto la storia del   Corno. Nel giudicare e talvolta incriminare chi ha sbagliato, non risparmia nessuno: anche se è disposta a riconoscere i lati positivi delle vite di questi personaggi, è implacabile quando deve stressare l’inutilità della morte di decine di migliaia di abitanti dell’Eritrea, dell’Etiopia e della Somalia, dove negli eserciti erano e sono ancora oggi pochi i soldati di carriera, mentre per la maggior parte si tratta di pacifici studenti e contadini, arruolati con la forza e mai più congedati. Si percepisce l’emozione della scrittrice, quando racconta la vittoria dell’Eritrea sull’Etiopia, evidenziando il coraggio e l’eroismo degli eritrei che si battevano contro uno Stato almeno dieci volte più grande e contro le potenze americane e sovietiche che rifornivano di armi e munizioni, di materiale sanitario e di vettovaglie l’esercito etiopico al comando prima di Hailè Selassiè  e poi di Menghistù. Difficile anche spiegare il comportamento degli americani, che in Eritrea erano stati ospiti per decine di anni necessari a impiantare e rendere operativa la base militare della Kagnew Station, immensa stazione radio di ascolto, capace di captare conversazioni che avvenivano nel lontano oriente e nella grande Russia. È incalcolabile il valore dell’appoggio che gli eritrei hanno dato agli USA per così tanto tempo ed è incredibile che abbiano sempre ricevuto risposte negative alle richieste di aiuto, mentre dovevano assistere impotenti al rifornimento continuo all’Etiopia di armi, munizioni, e quant’altro potesse essere utile per annientare la piccola Eritrea. Dal libro traspare tutta la tenerezza che la Wrong nutre per gli eritrei e per il loro condottiero Isaias ed è percepibile la difficoltà che incontra quando lo deve criticare, ma, secondo lei è decisamene maggiore il riconoscimento per ciò che ha fatto rendendo indipendente l’Eritrea. Un altro passo mi ha colpito: quando lei, durante uno dei suoi recenti viaggi, seduta in un bar del centro di Asmara, di fronte ad un cappuccino e a un cornetto alla crema, cercava di far parlare alcuni avventori che discorrevano sulla qualità di vita possibile in quella città. Era molto difficile farli parlare per la paura di essere perseguiti, ma il più anziano del gruppo disse chiaramente “Si stava meglio quando c’erano gli italiani”. Il libro della Wrong è, senza alcuna incertezza, quello che si può definire un fortunato connubio tra storia e narrativa, il tutto raccontato con passione, da dove emerge un grido che sovrasta tutto il resto ed è un caloroso invito a far lavorare le diplomazie dei paesi del Corno onde stabilire una pace vera e dare a quelle fiere popolazioni la certezza di un futuro senza guerre e poter così finalmente godere le bellezze di quella stupenda parte dell’Africa.
Quando Angelo Granara mi ha fatto recapitare il libro di Romagnoli, ho pensato subito a un tiro birbone del mio amico asmarino perché ebbi la sensazione che mi sottoponesse un testo noioso e impertinente, visto e considerato che l’autore ha desiderato stampigliare il suo nome in ogni foglio del libro che è composto di 170 pagine. All’inizio di ogni pagina c’è il nome e cognome dell’autore, realizzato con un carattere notevolmente più grande di quello usato per la stampa degli scritti. Una delle domande che mi sono subito posto è stata quella di capire chi fosse costui che si era permesso l’ardire di una tale imposizione. La prima risposta certa è stata quella che, dopo un’occhiata superficiale alle prime pagine, mi sono ritrovato a leggere incuriosito; in altre parole è bastata un’oretta di lettura   per capire quale sia il primo pregio di chi ha pubblicato questi Racconti… in Libertà. Romagnoli ha il nerbo dello scrittore, e ciò si desume da più fattori, il primo dei quali è quello, a mio parere fondamentale, che riesce a tener il lettore incollato al libro da intelligenti aspettative; in secondo luogo, essendo la lettura del suo scritto semplice e scorrevole, non si fa alcuna fatica a seguire il filo del discorso. Ciò permette all’autore d’imporsi ulteriormente e di costringere chi legge a prestare quell’’attenzione indispensabile a seguire le complesse vicende di una saga familiare africana. La scrittura di Romagnoli è fluida e piacevole, e il suo stile di saltellare volutamente qua e là riesce a far emergere dall’inconscio di chi ha vissuto in quei luoghi, fatti e vicende sovrapponibili e capitati in molte delle nostre famiglie che hanno vissuto per alcuni decenni in Africa orientale. Un esempio per tutti è il ricordo, in un capitolo, dei grandi viaggi sulle navi bianche intrapresi dalle nostre madri con noi bimbi: ci si imbarcava a Massaua per andare in Italia con la certezza di ovviare alle sofferenze della guerra d’Africa che si presentava dura e lunga. Errore capitato a tante famiglie, compresa la mia. Appena arrivati in Italia, alle madri sole e con diversi bambini al seguito, toccò affrontare le peripezie della seconda guerra mondiale senza riuscire a tornare per anni in Eritrea che, al contrario di quanto supposto, fu solo lambita dai disastri di quel terribile conflitto. La scoperta successiva, leggendo i Racconti…in Libertà, è ancora più rapida. Romagnoli è un poeta, anzi a suo dire è stato prima poeta e poi scrittore; il fatto che alterni a pagine di prosa, altrettanti fogli di poesie tenere e delicate, rende il testo interessante e al contempo commovente: è sufficiente leggere la triste storia della malattia mortale della sua diletta consorte per capire che Romagnoli, oltre a scrittore e poeta, è anche un impareggiabile romantico.  Infine è banale dedurre dai racconti di Romagnoli che la sua è stata una vera famiglia di pionieri, con una esistenza ricca di storie quanto mai avventurose e solcata da vicissitudini spesso molto dolorose.  Ho sempre sostenuto che le comunità di europei che si sono insediate in Africa erano formate da persone speciali, tutte più o meno unite da vite avventurose, trascorse in un ambiente che stimolava la creatività, l’intraprendenza, la voglia di fare, e spesso con la soddisfazione di riuscire a realizzare sogni e speranze.  Benito Romagnoli è senza dubbio uno speciale esemplare di questa genia.  Come è avvenuto a molti di noi, sono stati i nostri nonni, alla fine dell’800, a lasciare l’Italia per avventurarsi in Africa; per gli italiani scegliere il Corno d’Africa, in sintonia alla politica espansionistica del nostro paese, è stato logico e obbligatorio.  Nel suo libro Romagnoli racconta la vita della propria famiglia, vissuta in piccoli paesi nell’interno dell’Eritrea, lontani dalle città e quindi luoghi dove l’esistenza era più vicina a quella degli indigeni. Questo libro si legge velocemente non per rincorrere e conoscere   un finale, ma per godere, pagina dopo pagina, una saga familiare ricca di tanti eventi e di tante emozioni, scritta felicemente da un personaggio forte e tenero, che si è ben guadagnato la stampigliatura del suo nome in evidenza su tutte le pagine del libro.
Quando ho preso in mano i due libri scritti da Maria Cristina Ferraro, mi sono subito detto che non sarei mai stato capace di portare a termine la loro lettura; infatti, chi inizia a scorrere le prime pagine di ambedue i testi, si scontra subito con un’infinità di nomi, con una marea di date impossibili da ricordare, con una storia di una famiglia immensa le cui propaggini si sono diramate in tutto il mondo. Tutta questa umanità che nel passato l’ha preceduta e che oggi la circonda, ha spinto l’autrice a raccontare nei particolari la saga della propria famiglia non tralasciando nulla e mostrando, oltre ad una memoria di ferro, una capacità di raccogliere le informazioni più disparate, incoraggiando chi era intenzionato a soprassedere, a mutare presto parere e a proseguire la lettura. Chi legge, è pian piano invogliato a soddisfare la curiosità di apprendere storie non comuni; effettivamente, dopo aver sfogliato alcune pagine, anche io mi sono reso conto, man mano che procedevo, di aver espresso all’inizio un giudizio troppo precipitoso e grossolano perché non avevo valutato  che la scrittrice  era stata capace di rendere leggero e spigliato un testo di per sé solo apparentemente gravoso: Maria Cristina ha la mia stessa età ma possiede una memoria che bonariamente invidio perché della mia numerosa parentela, ricordo solo una parte modesta. Famiglia di navigatori, i componenti del suo clan non potevano fare a meno di andare incontro all’avventura, alle scoperte, al fato che di solito gioca un ruolo preponderante nella vita di chi non ama stare fermo e a lungo nello stesso posto. In uno dei due libri si dedica un po’ di spazio ad una parentesi eritrea, poco per la nostra fame di storie particolari e di saghe vissute nell’Africa Orientale, ma è evidente l’imbarazzo dell’autrice per non essere riuscita ad avere maggiori informazioni di quei parenti che intrapresero l’avventura coloniale africana. Tutto il resto si legge volentieri per la capacità e la facilità con la quale l’autrice riempie le pagine e riesce a costringere il lettore a proseguire.  Con parole semplici si esprime felicemente rendendo la lettura senza dubbio piacevole malgrado l‘evidente volontà di elencare una selva di parenti: il che richiede molta attenzione onde soffermarsi sui personaggi più significativi. Il testo è corredato da tante  fotografie,  una cinquantina nel primo e bene 80 nel secondo, molte delle quali d’epoca  e piacevoli da osservare. Anche la bibliografia, presente in ambedue i volumi è stata scelta con cura e con sapienza.
Se Emilio Salgari fosse vissuto nell’epoca attuale, non avrebbe avuto bisogno di impegnare la sua fervida fantasia per raccontare le storie dei pirati. Oggi sono tanti i mari del mondo dove i pirati assaltano le navi né più né meno come succedeva nei romanzi salgariani.  Sono sicuramente diversi alcuni degli attori:  anche oggi i pirati sono sempre i soliti straccioni che si avvalgono però di armi leggere moderne e di mezzi di comunicazione  radio efficienti e che maneggiano con disinvoltura i computer in quanto obbligati dal fatto di dover andare all’arrembaggio di grandi navi velocissime e di per sé vere e proprie roccaforti molto difficili da espugnare; per giunta negli ultimi anni se la devono vedere con il meglio delle marine militari di tutti quei paesi che si sono alleati per sradicare il fenomeno della pirateria e hanno messo a disposizione una sofisticata macchina da guerra con  marinai eccellenti e dotati di mezzi  navali e bellici modernissimi che, con l’aiuto di aerei, elicotteri e  satelliti, lasciano poco spazio di manovra alle se pur velocissime barche dei pirati. Tuttavia l’efferatezza e la spavalderia di questi nuovi corsari non è facilmente immaginabile e la loro avidità e crudeltà sembrano essere inesauribili e tengono ancora testa alla forza multinazionale, mantenendo ancora vivo ed attuale questo serio problema. Questi pensieri dovevano avere avuto spazio nella mente di Biloslavo e Quercia allorché hanno iniziato a scrivere il libro “Il Tesoro dei pirati. Sequestri, riscatti, riciclaggio. La dimensione economica della pirateria somala.” Un titolo decisamente lungo, ma efficace nello stimolare la lettura del testo, che tratta delle razzie dei briganti somali che, oltre a lucrare sulla terraferma, non esitano a montare su vetuste barche   di fabbricazione artigianale, ma spinte da potenti motori fuoribordo, e a assalire enormi bastimenti di decine di migliaia di tonnellate di stazza per poi requisire navi ed equipaggi e chiedere ingenti riscatti per il loro rilascio. Gli autori del testo, pubblicato sul mensile della marina “La rivista marittima”, sono qualificati a parlare di questo argomento, essendo Biloslavo un giornalista e corrispondente di guerra, noto per i suoi reportage e per i suoi libri, mentre Quercia è una analista indipendente che ha fondato e dirige il “Center for near abroad strategic studies” e la relativa collana di pubblicazioni “Confinis” . Il libro è decisamente interessante e si legge di un fiato perché svela tutta la rete criminale che pianifica, ordina e controlla questo esecrabile storia di pirateria. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, gli autori non lasciano uno spazio alla fantasia, ma  si avvalgono di una ricchissima  bibliografia, senza tralasciare nulla che possa essere utile a delineare,  quantificare  e analizzare  il problema  nella sua essenza mostrando la stretta dipendenza tra i signori della guerra  e la pirateria espletata nel mare antistante il territorio somalo. La sorpresa è che gli autori forniscono nomi e cognomi di molti pirati, arrivando a pubblicare qualche fotografia dei principali corsari somali; ci sono capi e c’è la manovalanza e sono bene chiare le somme di denaro che ciascun pirata, a seconda del proprio grado, percepisce, una volta che è stato pagato il riscatto. A leggere il libro, viene da pensare che la pirateria di fronte al Corno d’Africa debba sparire da un momento all’altro, perché sono tante le nazioni occidentali che si sono alleate per combattere questo fenomeno e sono impegnate a pattugliare e a intervenire nei tratti di mare che non sono così estesi come si potrebbe pensare. La verità è che gli attacchi dei pirati sono diminuiti ma non sono cessati, mentre sono aumentati i sequestri sulla terra confermando il sospetto che siano le stesse le bande che operano in terra e in mare. Leggendo il libro si evince che è il caos totale che regna in Somalia, dove da decenni non esiste più uno stato, né un referente politico, a creare un ambiente talmente criminalizzato dove la pirateria fa parte dei tanti impossibili aspetti di un mondo malato. In contemporanea, Paolo Quercia ha pubblicato nella collana “Confinis” il libretto “ Mercati Insicuri“, valido corollario al “Il Tesoro dei pirati“.
Appartengo alla categoria di coloro che sono fermamente convinti che se i nostri governanti smettessero di frenare gli entusiasmi, la creatività, l’ottimismo, la libertà e il buon umore che caratterizzano gli italiani, il nostro paese rapidamente uscirebbe dalla crisi in cui incombe da anni. Infatti la fantasia, l’estro, la caparbietà dei nostri connazionali sono caratteristiche note a tutti gli altri popoli del mondo. Pare impossibile, ma solo chi ha la responsabilità politica della nostra vita ignora le possibilità enormi di un popolo che, se non tartassato e libero da una selva di divieti di ogni genere, riuscirebbe a produrre effetti straordinari. Tutto ciò, di primo acchito, sembra non entrarci nulla con il libro che vado a presentare; quando ho iniziato a leggerlo però mi sono reso conto della sua attualità. Questo testo infatti racconta le storie tipiche di alcuni italiani vissuti molte decine di anni or sono, le cui vite sono trascorse all’insegna dell’avventura, del coraggio, dell’amore verso la propria terra, di dedizione al sacrificio, ma soprattutto di un grande desiderio di legare il proprio nome alla storia, di riuscire dove altri fallirono, di arrivare dove altri erano stati costretti a ripiegare. Si può notare fin dalle prime pagine che le storie di questi connazionali si sono svolte principalmente all’estero, mentre gli stessi soggetti in patria erano in pratica individui immobili se non addirittura perseguitati. Alcune storie, come quella dell’italiana Maria Uva sono commoventi; lei, sulle rive del Canale di Suez, cantava motivi appassionati a beneficio degli italiani che, imbarcati su navi che si dirigevano sul Mar Rosso, erano tutti appoggiati al parapetto di bordo, già presi dal fascino del canale e, più che vedere, ascoltavano il canto melodioso di questa donna che sia di giorno che di notte, commuoveva e incantava chi transitava. La Uva non lo faceva per denaro perché nessuno poteva darle alcunché, rischiava invece l’alterigia degli inglesi che non vedevano di buon occhio l’iniziativa di quell’italiana che spronava gli animi alla conquista e alla vittoria. E poi, chi mai di noi lettori potrebbe pensare di imbattersi nella storia di un tamburino italiano che si distinse fra tanti altri militari nella epica battaglia di Little Bighorn che il generale Custer   combatté contro gli indiani di America? Fra le altre cose, c’erano altri italiani nelle file di Custer, soggetti che si erano arruolati dopo aver emigrato in America e invogliati a far parte dell’esercito americano per la paga superiore a quella offerta da altri lavori meno dignitosi. Dopo aver letto “Strani Italiani” possiamo meglio capire il destino di nostri connazionali emigrati negli Stati Uniti ed in Africa orientale e conoscere le loro fantastiche storie dominate da coraggio ed intraprendenza.   C’è chi pensa, ad esempio, che dopo la sconfitta di Cheren del 1941, gli italiani subissero impassibili e impotenti in Eritrea il governo dell’Inghilterra; non è così: gruppi   di italiani si unirono in clandestinità osteggiando i britannici con la speranza che si riuscisse a ribaltare la situazione. Le loro gesta intraprendenti, spesso eroiche, sono sconosciute dalla maggior parte degli italiani, ma alcune sono raccontate con dovizie di particolari in questo originale volume. Leggendo le gesta raccontate da Isacchini e Meleca, sono rimasto impressionato dal comportamento straordinario e incredibile di tanti personaggi che hanno tenuto alto il nome dell’Italia. Conoscevo solo poche storie di quelle descritte e, a dire il vero, leggendo il libro, mi sono un po’ vergognato di ignorare le peripezie di tanti nostri illustri connazionali le cui vite sono state a dir poco leggendarie. Il testo, estremamente interessante da un punto di vista storico e narrativo, è piacevole a leggersi ed è corredato di immagini preziose, molte delle quali a colori. Ricca e puntigliosa è la bibliografia, dove gli autori mostrano di ben conoscere gli argomenti che espongono.
Quando mi sono trovato fra le mani il nuovo libro di Federica Saini Fasanotti, mi ha colpito il fatto che fosse uscito così presto rispetto al suo ultimo volume sulle operazioni militari in Etiopia del 1936-40, il che dimostra tanta volontà e una capacità di sintesi non indifferente. L’autrice collabora attivamente con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’esercito italiano e ha a disposizione il suo archivio che è zeppo di materiali cartacei, in parte mai consultati. L’autrice è passata dallo studio delle operazioni militari dell’esercito italiano effettuate in Africa Orientale, a quelle sostenute in Libia, senza mostrare tentennamenti, vista la notevole diversità degli argomenti trattati. La quantità ingente di materiali impone lunghi tempi di ricerca e poi notevole senso critico e intelligenza, doti indispensabili per districarsi nella marea di documenti che sono collocati in quell’archivio.      La prima impressione, dopo aver letto una ventina di pagine, è quella che l’autrice abbia fatto un salto di qualità; il testo è spigliato, chiaro e piacevolmente didattico anche per chi nulla o poco conosce della guerra di conquista italiana in Libia. Infatti, fino dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, parlare di Colonie o di Africa in generale era difficile. Se poi l’argomento era quello militare, il terreno diventava estremamente minato.      La causa era dovuta ad una rilettura propagandistica e negativa del colonialismo italiano. Con libri, articoli, seminari, conferenze, interviste, tavole rotonde, ecc., una pletora di “storici” è riuscita a detenere per oltre 40 anni il monopolio accademico e scolastico di questa memoria. Ben pochi però dei protagonisti, partecipanti e spettatori di quelle imprese africane si ritrovavano a condividere queste argomentazioni più politiche che storiche, ed il prolungato silenzio dagli archivi sembrava confermare il carattere prevaricatorio e criminale del colonialismo italiano. Le poche voci contrarie, che pure si erano levate, non hanno mai avuto la disponibilità dei mass media per competere con la potente macchina mediatica messa a punto da quegli “storici” che ancora oggi si ritengono “indipendenti”.      Una importante svolta è avvenuta appunto nel 2010, quando l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito ha commissionato alla ricercatrice Dr.ssa Federica Saini Fasanotti un volume relativo alle operazioni coloniali in Etiopia dal 1936 al 1941. Già abbiamo presentato questo testo nelle pagine de “Il Corno d’Africa”.      Ora lo stesso Ufficio Storico ha pubblicato un altro tomo relativo alla presenza dell’Italia in Africa, sempre della stessa autrice, sulle operazioni militari in Libia dal 1922 al 1931, ovvero quelle che portarono alla conquista integrale della Libia (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan) [chiamata impropriamente “Riconquista della Libia”]. Migliaia i documenti esaminati e comparati, e la loro riproposizione su schemi dettagliati dell’intera campagna militare getta finalmente, come il volume precedente, una nuova e definitiva luce su quel periodo tormentato dell’Italia in Africa.      Leggendo il libro si apprende che i giornali italiani dell’epoca non avevano nascosto nulla su quelle operazioni, nemmeno sull’uso dei famigerati gas. Da quei documenti d’archivio, riesumati senza interpretazioni o difese d’ufficio, sono tante le considerazioni che si possono fare su quella parte della nostra storia costata immani sofferenze da tutte le parti, soprattutto dalla inerme popolazione civile, stretta e costretta con la forza a subire due eserciti in guerra fra loro.      Queste due fondamentali opere sull’attività militare dell’Italia in Africa, ricchissime di documentazioni inedite, smentiscono le interpretazioni ideologiche sul colonialismo italiano, ritenuto ingiustamente uno dei più crudeli. Avremmo preferito che questi testi fossero stati pubblicati qualche decennio fa; ci auguriamo che ora trovino una doverosa collocazione nelle biblioteche, negli istituti, nei centri ricerche e infine nelle librerie, come voce autorevole, severa ma imparziale, di una brutta stagione ormai trascorsa e che non ha più segreti.
Forse non tutti sanno che in Eritrea le piante di fichi d’India non esistevano prima dell’arrivo degli italiani. Infatti sono stati i nostri nonni a provare se il fico d’India, pianta di per se grassa, riuscisse ad attecchire in terreni tendenzialmente aridi. Non l’avessero mai tentato! Oggi si stenta a credere che tutte le montagne eritree al di sopra dei 1500 m siano totalmente ricoperte di piante di fichi d’India nella selva delle quali spuntano qua e là le sagome delle solenni euforbie a candelabro con caratteristici fiori vermigli che vanno giusto a sbocciare là dove dovrebbero ardere i ceri. Fra lo sterminio di piante di fichi d’India, occupano un po’ di spazio a terra anche le grandi foglie delle agavi dagli steli centrali alti, ma di mole modesti, sui cui rami amano sostare coppie di buceri dai giganteschi becchi gialli o rossi che li  fanno erroneamente sembrare dei tucani. Le piante di fichi d’India sono ormai talmente fitte da ostacolare il transito di uomini e animali. Durante l’estate poi le pale delle piante, ricoperte da lunghi spini, si riempiono nella loro periferia di frutti dapprima verdi, ma che in poco tempo virano il loro colore verso il giallo e il rosso, indici di maturità. Inutile dire che il gusto di questi frutti succosi è delizioso, assolutamente più delicato e intenso dei fichi d’India che si possono acquistare nei mercati italiani. Secondo voi Angelo Granara, fra tutti i suoi ricordi eritrei, poteva tralasciare i belès,  questo è il nome eritreo del fico d’India? No, non poteva dimenticarli essendo entrati di forza nell´economia del paese, modificando radicalmente i paesaggi e penetrando indissolubilmente nell’inconscio degli abitanti, bianchi o neri che siano. Ecco quindi che Angra intitola il suo ultimo libro BELES: inutile insistere nel ribadire che, come tutti gli ultimi libri di Angelo, anche questo si legge tutto d’un fiato, ed è piacevole insinuarsi in tutto quel mondo che l’Autore vuole riportare a livello di coscienza. Inutile ripetere che lui questi argomenti li scrive in forma poetica, le sue frasi sono sempre ricolme di dolcezza e il lettore è rapito dalla musicalità generata dalle sue parole; parole di amore per la sua terra che desidererebbe rivedere, ma non  riesce a realizzare questo sogno, ostacolato da molti fattori, non ultimo l’età, perché quell’Africa, che tanto ama, è una terra che, se ci vai, ti vuole vedere ancora in faccia e pretende  una prestanza fisica che non abbiamo più. Ma Angra ha superato questa dimensione ed elabora i suoi tanti ricordi o meglio maree di sensazioni che riesce magistralmente a tradurre in parole. Ricordi e sensazioni di per sé belli, ma che sarebbero stupefacenti se esistesse la speranza di poter rivivere ciò lui sogna ad occhi aperti. Ma non c’è dolore  nelle sue parole, non c’e rammarico se per tante ragioni non riuscirà a tornare in Eritrea; nel suo libro non scrive racconti, descrive con tanta delicatezza momenti intensamente vissuti che   hanno la magia di risvegliare tutti i sensi del lettore,  anche se sono intorpiditi dalla distanza e dagli anni; le sue animate parole penetrano nel fondo degli animi che ritrovano così  la propria dimensione africana. I belès di Angra sono dolcissimi e lui è abile nel farli gustare evitando le spine; in tutto il libro è racchiusa l’esistenza di un uomo che manifesta la gioia di aver amato quella terra molto di più di quanto lui stesso possa credere. Il libro di Angelo trasporta quindi il lettore in una dimensione tanto particolare quanto intensamente nuova e lo costringe a rielaborare ricordi di anni spensierati e felici che si allontanano sempre di più, ma che rimangono saldamente ancorati nel cuore.
Comincio a provare un po’ di simpatia per Matteo Dominioni, autore del libro “Lo sfascio dell’impero” che attribuiva  ai militari italiani operanti in Etiopia efferati episodi di  violenza  bellica non solo durante la campagna di conquista che fu decisamente rapida, ma anche e soprattutto nei cinque anni successivi che furono caratterizzati da una vera e propria  guerra dell’esercito italiano contro i partigiani etiopici: ci furono violenze da ambedue le parti, ma le rappresaglie italiane in certi momenti furono eccessivamente crudeli. Ciò non giustifica tuttavia il Dominioni che fa della grotta di Zeret  “La fossa etiopica delle ardeatine”. Provo simpatia per Matteo Dominioni perché prima o poi  doveva scontrarsi con scienziati e storici decisi a studiare questo fatto, visto e considerato che, nei villaggi vicini alla grotta di Zeret, la tradizione orale, così importante e così precisa nel mantenere vivi i ricordi storici di quei luoghi, ignora quasi del tutto la “strage  italiana”, mentre indica, ancora oggi, la grotta come quella “del ribelle di Zeret” che,  prima dei partigiani etiopici, abitava la grotta e ne usciva solo per razziare e  terrorizzare le popolazioni vicine che, non riuscendo a difendersi, chiesero aiuto perfino agli italiani. Anni dopo un distaccamento dell’esercito italiano con a capo il tenente colonnello Gennaro Sara, viene inviato a Zeret per stanare un grosso nucleo di partigiani etiopici guidati da Tesciommè Sciancùt  e Abebè Aregai, mitici  capi della resistenza partigiana, asserragliati all’interno di grotte apparentemente inespugnabili. Ma occupiamoci ora dell’Autore di questo libro per capire chi ha di fronte questa volta Dominioni. Gian Paolo Rivolta, ingegnere chimico, è uno speleologo di fama avendo raggiunto la presidenza della commissione Centrale di Speleologia del CAI. Le grotte sono la passione della sua vita dove l’avventura è sempre andata al passo con la scienza. Rivolta ricorda nella prefazione che le grotte rappresentano un luogo assolutamente stabile e che conservano in maniera perfetta tutto ciò che vi è riposto, offrendo allo speleologo esperto la chiave di lettura degli avvenimenti naturali e storici avvenuti nel loro interno. Naturalmente ci vuole fisico e coraggio per penetrare negli spazi  che ogni tanto la terra crea, ma l’autore  possiede tutto in abbondanza. È per puro caso che qualcuno gli parla di  Zeret, è nata  da una coincidenza la possibilità di organizzare una piccola spedizione alla grotta in Etiopia, è stata la fortuna a spianargli la strada ed è stata sempre la  buona sorte a permettergli di visitare la grotta di Zeret due volte. In sintesi riporto gli esiti delle esplorazioni, dei rilievi e degli studi effettuati dal Rivolta: 1 – Esegue un esatto rilievo topografico della grotta di Zeret in tutta la sua estensione e rileva i tipi di roccia che la conformano 2 – Misura  la superficie e la profondità del piccolo lago interno, ne determina l’apporto idrico e il numero di persone che possono sopravvivere usufruendo solo di quell’acqua 3 – Valuta con esattezza le modalità possibili dell’uso di armi da fuoco leggere e pesanti, di gas tossici e dell’aviazione per stanare centinaia di persone asserragliate nella grotta 4 – Studia le testimonianze di pochi anziani abitanti sopravvissuti alla guerra e al tempo 5 – Ricostruisce perfino alcune scene della battaglia 6 – Trae conclusioni  basandosi  su dati certi, facendo “raccontare” alle grotte e ai testimoni la  vera storia di Zeret Come storia di guerra fu una pagina cruda, ma donne e bambini furono salvati e non decedettero affatto per postumi da iprite. Ai combattenti partigiani fu offerta più volte la possibilità di arrendersi, ma nulla riuscì a convincerli e solo l’iprite, parzialmente attiva, date le difficoltà di lanciarla all’interno della grotta, inquinò l’acqua del lago interno, minando la loro resistenza e permise di stanare gli abissini i cui capi riuscirono a fuggire. I partigiani catturati furono fucilati. Non ci furono rappresaglie, ma solo battaglie, pure connesse all’assedio della grotta, dove anche numerosi italiani ed ascari (123) persero la vita e 376 furono feriti. Il lavoro di Gian Paolo Rivolta, varesino, è dettato dall’abitudine a voler scoprire ciò che la grotta nasconde ed a cercare la verità, che ora viene restituita alla storia, mantenendo per l’alpino Gennaro Sora, eroe romantico per i bergamaschi, che a piedi aveva cercato di portare aiuto alla spedizione Nobile al Polo Nord dopo il disastro del dirigibile Italia, il ricordo di onesto e romantico esploratore. Foresto Sparso, il suo paese natale, gli dedicò un monumento nella piazza principale.
Gennaro Sora ai tempi della spedizione Nobile
Con gli alpini del suo plotone, Sora è al centro, col bastone

 “Tanastelli Araghit”, come dire in Eritrea “Buongiorno Vecchio”; così Angelo Granara, giornalista asmarino noto a tutti come Angra,  ha intitolato il suo ultimo libro uscito fresco fresco dalla tipografia della Edibios. Per chi poi non riuscisse a capire dal titolo l’antifona dell’opera,  in copertina, subito sotto la scritta tigrigna,  l’autore aiuta i meno svegli  piazzandoci la bella immagine di un vecchio abissino; così, come  Angra la presenta, questa copertina non preannuncia nulla di bello, prospettando una lettura di pagine tristi e malinconiche. Per cortesia, fate attenzione! Non fatevi ingannare da questo marpione, ma aprite il libro e cominciate a leggere perché, fin dalle prime righe,  capirete che Angelo ha l’animo ben vivo, affollato di ricordi da narrare, di immagini da proporre, di pensieri da elaborare; anche se queste reminiscenze appaiono drammaticamente in fuga, un po’ sbiadite e sempre meno oggetto d’interesse da parte delle giovani generazioni.  In altre parole, dopo aver profetizzato per mesi la sua fine di scrittore per raggiunti limiti di età, Angra si presenta oggi ai suoi lettori con un altro dei suoi deliziosi e periodici libretti, stipato di tante riflessioni e meditazioni fatte sulla sua vera patria, sulla terra che lo ha fatto crescere e reso uomo, su quella parte del mondo che lui considera la più bella e la più affascinante di tutto il  pianeta, vale a dire sul Corno d’Africa e più precisamente sull’Eritrea. I suoi scritti, che possiamo definire attente considerazioni, sono un sottile e ininterrotto confronto tra il suo fisico, a suo dire deboluccio, e la sua mente ancora perfetta e assolutamente giovanile. Angelo ha il dono  della scrittura che probabilmente ha impresso nel suo patrimonio genetico; sfido chiunque a leggere una pagina a caso di “Tanastillì Araghit” e a  indovinare l’età dell’autore. Angelo ha un animo giovane e valente che solo in brevi tratti di questo ultimo libro si fa sorprendere dalla malinconia. L’ho detto tante volte, ad Angra, quando scrive, le parole sgorgano leggere e  pure, e come fiocchi di neve si ammucchiano per formare pensieri profondi, analisi di un vissuto splendido, ineguagliabile, ma ahimè, definitivamente perso o irraggiungibile. Angelo si sente solo, soffre l’assenza degli amici più cari, si sente sperduto in una metropoli aliena dove non esistono per lui punti di riferimento e dove spesso la depressione fa capolino tra un  antico monumento e una fila di persone in attesa di  una prestazione medica. Ecco quindi l’urgente necessità di raccogliere quel fascio di meditazioni in un volumetto dove la cosa che più colpisce, malgrado la copertina senescente, è la sorprendente vitalità dell’autore. Altro che “araghit”! Angelo scrive con uno stile e una lucidità sorprendenti; riesce a prendere per mano il lettore e a condurlo a scoprire la sua  Africa, esattamente com’era 50 anni fa, senza nostalgie, senza rimpianti, conscio della triste realtà attuale, ma fortemente motivato a lasciare un onesto ricordo del nostro vissuto coloniale.
CLAMOROSO! Angelo Del Boca ammette di aver sbagliato. Grande interesse ha suscitato un libro edito dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e  scritto da Federica Saini Fasanotti, studiosa già nota per le sue pubblicazioni sul Fascismo e sulla Seconda Guerra Mondiale; il titolo del volume  ”ETIOPIA 1936-1939, Le operazioni di Polizia Coloniale nelle fonti dell’Esercito Italiano” riflette subito la stretta collaborazione che corre fra l’autrice e lo Stato Maggiore dell’Esercito: questa sintonia le ha permesso di consultare, senza alcun limite, gli archivi della guerra d’Africa e in particolar modo quelli inerenti ai cinque anni successivi alla conquista italiana dell’Etiopia; un’occasione unica che l’autrice non si è lasciata scappare; questi cinque  anni di storia italiana sono stati  fino ad oggi costellati di tanti lati scuri, difficili da chiarire. Questa ultima fatica della Fasanotti è come un fascio di luce che illumina il periodo buio di quegli anni. Il testo, assolutamente privo di qualsiasi ideologia politica, rimane per tutte le 530 pagine in un perfetto e onesto equilibrio di giudiziosa ricerca, documenti alla mano, di colmare quelle grandi lacune che hanno permesso negli ultimi trenta anni a molti storici, italiani e stranieri, di trarne un vantaggio politico, interpretando quel periodo storico in modo assolutamente personale. In particolare fino ad oggi sono stati attribuiti ai militari italiani crimini e nefandezze verso il popolo etiopico, descritto sempre come inerme e indifeso, e queste atrocità sarebbero state compiute durante turpi azioni militari di rappresaglia. L’esercito italiano con a fianco i battaglioni degli ascari eritrei aveva, in quel momento, l’assoluta necessità di spengere il movimento insurrezionale etiopico e in virtù di questo non dava requie alle numerose bande di militari etiopici che cercavano, a loro volta, di indebolire l’invasore con rapide e indolori azioni di guerriglia.  Accanto ai militari italiani anche i civili che hanno operato o vissuto nel Corno sono stati spesso etichettati del tutto arbitrariamente come colonialisti e quindi fascisti, incolpando anche loro di intolleranza e prevaricazione verso  la popolazione indigena.  Le dure e infamanti prese di posizione degli storici di sinistra hanno spesso istigato gli italiani, compreso il sottoscritto, che avevano vissuto nel Corno d’Africa, a difendersi e a prendere delle posizioni, anche energiche, nei confronti di questi scrittori in quanto il vissuto dei nostri padri e dei nostri nonni, che trascorsero buona parte della loro vita nelle ex colonie italiane in Africa Orientale, era del tutto diverso da quello riportato negli articoli o nei libri di questi studiosi. Quindi non solo l’immagine dei militari, ma anche quella dei 200.000 italiani che hanno vissuto in quel periodo nel Corno d’Africa è stata sempre ingiustamente denigrata. Angelo Del Boca è sicuramente lo storico che più di qualsiasi altro ha studiato la lunga avventura italiana in Africa e, malgrado le feroci critiche dei miei  compaesani per le sue discutibili idee, ho sempre riconosciuto a Del Boca  l’autorevolezza dei suoi scritti anche se impregnati di un eccesso di  fervore politico. Sono molto contento che oggi Del Boca, dopo aver letto e riconosciuto la serietà e la correttezza del testo  della Fasanotti, in una intervista, pubblicata sul “Corriere della Sera”  del 6 Gennaio 2011, ha ammesso con molta onestà di non essere stato corretto nei suoi giudizi riguardo gli italiani in Africa Orientale. Riporto le sue esatte parole  pubblicate sul  Corriere: “Lo ammetto, nelle mie ricostruzioni sulla guerra in Africa Orientale, mi sono schierato dalla parte degli etiopici. Sono da sempre un nemico del colonialismo e mi sembrava giusto sottolineare soprattutto le nostre responsabilità di Paese cosiddetto civile… Non è poco, e voglio sperare  che questa dichiarazione  di Del Boca sia la prima di una serie, suggerita dalla necessità di fare completamente chiarezza; l’onestà intellettuale, ora che ha scoperto un suo errore, gli impone di rivedere tutto il suo pensiero riguardo questa delicata parte della nostra storia.  “ETIOPIA 1936-39” non è piaciuto invece a Matteo Dominioni, autore del tanto discusso “Lo Sfascio dell’Impero“e,  in contrasto con Del Boca, malgrado sia un suo maestro, lo giudica ”un lavoro vecchio, di stile  coloniale, che tende a giustificare  gli eccessi italiani sulla base dell’arretratezza e dei costumi guerrieri tipici della società aggredita“ . La lettura del libro della Fasanotti è  piaciuta invece ad Antonio Carioti, l’articolista del Corriere della Sera che lo definisce “una ricostruzione minuziosa dove l’autrice condanna l’aggressione fascista e  riconosce le numerose atrocità delle nostre forze armate, ma si sofferma anche sulla ferocia degli insorti etiopi  sottovalutata dalla storiografia…” In altre parole Dominioni, questa volta isolato, persiste nel suo atteggiamento antitaliano attribuendo colpe delle quali non esiste alcuna prova. Dominioni è rimasto probabilmente toccato dalla precisa ricostruzione che la Fasanotti fa degli eventi accaduti nella grotta Caia Zeret (cavallo di battaglia del Dominioni  nel ricoprire d’infamia gli italiani)  documentandoli in maniera particolareggiata con la conclusione che le operazioni dell’esercito italiano in quel luogo, nel 1939,  furono quelle di normale rastrellamento, alla caccia di bande ben armate, alle quali fu offerto più volte di arrendersi ed in ogni  caso, alla fine, recuperando diverse centinaia di fucili, pistole, mitragliatrici e perfino un cannone e risparmiando tutte le donne e i bambini. Dominioni farebbe bene a leggere attentamente i documenti inerenti alla grotta Caia Zeret pubblicati nel volume della Fasanotti e con un po’ di umiltà considerasse una giusta autocritica, ispirandosi all’onestà di Del Boca. A mio parere l’autrice di “Etiopia  1936-1939” ha   molti pregi: primo fra tutti la determinazione a mettere mano negli archivi dello Stato Maggiore dell’esercito: come dire andare a scavare nella confusione di carteggi mai consultati. In secondo luogo è stata capace di riesumare il materiale che andava cercando, di ordinarlo cronologicamente e infine di commentarlo. A parte le polemiche, la lettura del libro della Fasanotti è piacevolmente interessante in quanto l’autrice è riuscita a rendere amena e leggera la lettura di un testo potenzialmente ostico e noioso. Chi inizia a leggere questo libro è spinto a proseguire fino alla fine senza incertezze e, arrivato in fondo, è certo di  essersi arricchito di un ottimo aggiornamento del proprio bagaglio culturale.
Quando Cesare ci lasciò scrissi quattro righe invitando tutti a fare uno  sforzo per non considerarlo defunto. A noi rimanevano i suoi scritti che,  rileggendoli, davano la convinzione che Alce fosse ancora presente con tutta la verve, la simpatia, il calore umano e la sottile ironia che hanno sempre contraddistinto il suo stile; sono doti che investono ancora oggi il  lettore e lo rendono cosciente delle non comuni capacità di quel  gentile e onesto scrittore che non esitava ad  aprire pubblicamente il suo animo in una sorta di piacevole confessione. Cesare si definiva un umorista e con ragione. In tal veste aborriva l’idea della morte, inneggiando sempre alla vita e cercando al contempo di strappare il sorriso al più mesto dei suoi lettori. È sempre piacevole e consigliabile rileggere gli scritti di Cesare e, se non si possiede altro di quanto pubblicò, è sufficiente prendere dalla biblioteca i vecchi numeri del Mai Taclì, dove i  suoi articoli e le rubriche rendevano il piccolo giornale più completo, essendo arduo sostituire una penna come quella di Alce. Poi, inaspettata, è giunta qualche mese fa dai figli di Cesare, la notizia dell’esistenza di un manoscritto inedito del padre e del loro desiderio di pubblicarlo. In attesa  di visionare il testo, cercavo di immaginare, fra le tante cose, il momento della sua stesura; nella maggior parte delle pubblicazioni postume si tratta di  scritti compilati poco prima del decesso dell’autore e come tali incompiuti. Appena avuto in mano il tutto, speditomi dai figli di Cesare, è stata una sorpresa constatare che si trattava di  una serie di riflessioni del loro babbo, piccoli capitoli che descrivono la vita in Eritrea di un italiano che lavorava per il suo sostentamento, ma che non si lasciava sfuggire le magie  che il tropico sa offrire. Tutti e 20 i capitoli sono datati alla fine dello scritto; non è come avevo supposto, sono stati stilati per la maggior parte negli anni 1982 e 1983 per poi, uno alla volta, quasi a scadenza annuale, giungere ai primi degli anni ’90. Una rapida lettura ha permesso di evidenziare un Alce brillante, arguto, scanzonato e spesso pungente che non esita a bacchettare bianchi e neri, che si pone  domande attuali, che se ne viene fuori con problematiche proprie di questi giorni, ma da lui formulate 20-25 anni or sono. Per ricordarne una, critica Angelo Del Boca per la sua ostinata acredine verso tutti gli italiani che operarono o vissero in Africa Orientale.  È quindi con grande gioia che vi presento il libretto di Cesare. Poche pagine dense di amore per la sua Eritrea che volutamente differenzia da altri paesi dell’Est Africa, in primo luogo il Kenia, a cui riconosce  tanti pregi, ma che nulla ha a vedere con la nazione dove  lui ha vissuto la maggior parte della vita. Il lettore si ritroverà  per le vie di Asmara, di Massaua e per altri luoghi del Corno, in compagnia di Cesare a scoprire  tante piccole cose che  alla maggior parte di noi erano sfuggite.
Una domanda che tutti prima o poi si sono posti è quella se il valore di un libro può essere proporzionale alle sue dimensioni. Più grande è il libro, più elevato dovrebbe essere il suo valore. Il lettore colto e appassionato s’infurierà a sentire queste parole: meglio poche pagine scritte bene e ricche di contenuti che centinaia e centinaia di pagine sgrammaticate e  insulse. Siamo perfettamente d’accordo, ma con qualche eccezione: come esempio estremo chi ha visitato il monastero del Bizen in Eritrea, ha potuto prendere visione degli immensi volumi che vi vengono conservati: le misure del  più grande sono un metro per un metro e per trasportarlo ci vuole un muletto. È un testo miniato, ovvero le pitture sono quadrangolari con un lato di 40 centimetri e non possono più essere chiamate miniature. Anche se non leggo il gneez, la sola visione di quel libro desta  commozione. Cosa c’entra tutto ciò con il libro di Lupi? Mi è venuto in mente il Bizen prendendolo in mano:  pesa circa quattro chili che impongono necessariamente un tavolo se si vuole leggerlo o anche solo sfogliarlo; non ci sono compromessi, non ci sono alternative, se vuoi prenderne visione devi sottostare al volere di Lupi, devi concedere al volume attenzione e  rispetto anche perché  la prima cosa che si nota è che l’opera si compone di due volumi ed il secondo è in arrivo. Otto chili di Dancalia! Chi è questo uomo capace di prenderti per mano e di importi, a tavolino, un fantastico viaggio in una delle terre più affascinanti e misteriose del mondo? Luca Lupi, poco più che quarantenne, ha dedicato buona parte della sua vita allo studio e all’esplorazione dei vulcani. Uomo dal fisico prestante e dallo spirito avventuroso ha avuto sempre bisogno di viaggiare alla scoperta di vulcani, possibilmente in terre inesplorate. In questo suo periglioso girovagare non poteva tralasciare di visitare, nel Corno d’Africa. la Dancalia, senza sapere che quella volta sarebbe stato lui ad essere stregato da un paese, lui sarebbe stato oggetto di innamoramento, lui si sarebbe trovato condizionato a vita da un luogo terribilmente inospitale, ma profondamente intrigante. Man mano che della Dancalia scopre, oltre alla straordinaria struttura geologica, la gente che la abita, i mitici Afar, le loro abitudini e la loro storia, diventa impellente per lui il bisogno di saperne di più, e in particolare di conoscere il ruolo avuto dalle spedizioni scientifiche italiane, molte delle quali trucidate dagli stessi afar, dedicati da sempre a predare le carovane di passaggio. Lupi non si lascia condizionare da idee politiche che serpeggiano ancora oggi in Italia e che tendono sempre a denigrare tutto ciò che è stato fatto dagli italiani in Africa Orientale; mette in risalto lo spirito pionieristico dei nostri esploratori, le loro avventurose spedizioni e viaggia sulle loro orme non solo per ricalcare i loro percorsi, ma per valutare con sistemi moderni le loro scoperte. Ne viene fuori un quadro quanto mai lusinghiero per la storia coloniale italiana, tanto che il Lupi è portato a sottotitolare il suo libro Dancalia con L’esplorazione dell’Afar; un’avventura italiana. Ciò che  risulta è un testo scientifico e storico che spazia senza limiti e senza condizioni dalla formazione geologica del Corno d’Africa, alla scoperta di Lucy nel triangolo dell’Afar, dalle prime esplorazioni italiane, al successivo periodo colonialista italiano, fino alle più recenti esplorazioni e rilevamenti satellitari. Poi, improvvisa, ma logica, è arrivata per  Lupi la necessità di scrivere ed illustrare tutto ciò che aveva  visitato, scoperto, ritrovato ed elaborato, appuntato e trascritto. Migliaia e migliaia di fotografie, annotazioni, fotocopie, articoli, carte, disegni; scegliere secondo una traccia che da qualche anno inseguiva nella sua mente. Ma non bastava; Lupi non ha solo dovuto visitare la Dancalia, ha avuto necessità di instaurare una stretta collaborazione con Istituti Universitari scientifici e storici per convalidare le sue scoperte e le sue intuizioni. Sono tanti gli scienziati e storici che hanno collaborato con Lupi a dimostrazione del suo rigore scientifico  e delle sue capacità critiche. Se i contenuti del libro sono estremamente validi dal punto di vista scientifico e storico, va sottolineato, a favore dell’autore, lo sforzo compiuto per rendere gli scritti e le immagini comprensibili a tutti: è veramente piacevole leggere di argomenti così specialistici come  si trattasse di narrativa. Perfino la geologia, la vulcanologia e l’etimologia diventano argomenti di amena lettura dove Lupi si aiuta con circa settecento fra schemi, cartine, fotografie, disegni ed altre illustrazioni per rendere chiari concetti astrusi e specialistici. Stupende sono le fotografie della Dancalia, dei suoi vulcani, delle solfatare, dei laghi di sale, delle sue coste, dei suoi abitanti. Un opera che voleva essere solo un trattato storico-scientifico è diventata anche uno scritto che può essere letto dal viaggiatore, ma anche proposto come un testo di narrativa per la sua particolare ed originale impostazione.    Otto chili di Dancalia che nulla hanno a che vedere con altre opere monumentali di solito volute e supportate da enti bancari o assicurativi, volumi che si aprono giusto per dargli un’occhiata. Se si inizia a leggere il libro di Lupi, è  imperativo proseguire fino alla fine.
Sabarguma – Arrivederci di Paolo Granara Tipolito Arte Stampa, Caselle di Selvazzano (Padova), pagg.  150 Quando è  giunto  con la posta  un altro libro di Granara, ho imprecato a lungo contro Angra che, mi sono detto, non finisce di scrivere un libro e già ne ha pronto un altro bello e stampato. La curiosità, più forte della stizza, mi ha spinto a leggere le prime pagine e solo allora mi sono reso conto che Angelo questa volta non c‘entrava; il firmatario del  volume, il cui  titolo è ricco di sapore eritreo, è Paolo Granara, fratello di Angelo. Appena chiarito il problema, mi è sorta spontanea nella mente un’altra serie di invettive: possibile che non  bastava uno di quella famiglia a renderci la vita dura? Mi  riferisco naturalmente a colui che, quando prende la penna in mano, ti fa crepare d’invidia per la musicalità che trasuda dai suoi scritti. Adesso c’è  un altro membro della medesima genia che ha  deciso di emulare il fratello ed uscire allo scoperto! Un’altra personalità che dobbiamo subire anche se è doveroso evidenziare che il titolo “Sabarguma –  Arrivederci” stuzzica l’inconscio di noi abissini quel tanto che basta per prendere il libro in mano e mettersi a leggere. Paolo e Angelo sono fratelli, ma nessuno lo indovinerebbe mai dalle righe di “Sabarguma Arrivederci”; questo è un libro a se stante, esclusivo di Paolo che tutto ha fatto fuor che imitare il fratello. Non ci vuole molto a focalizzare una delle differenze caratteriali dei due germani: Paolo ha un senso spiccato dello humor, anche se cerca di mascherarlo dietro il sarcasmo di una velata malinconia. Lui, come tutti noi, tornerebbe in Eritrea a piedi, se ci fossero localmente le condizioni indispensabili per una vita tranquilla. Il libro di Paolo raccoglie una serie di racconti brevi ambientati in Eritrea, concisi ma circostanziati, probabilmente tratti da vicende vere, ma collocati in un mondo fantastico dove l’ironia prevale su tutto il resto. Deliziosa la descrizione della famiglia asmarina che si reca in vacanza a Massaua dove il “Lido” attende tranquillo e paziente di carpire tutti i turisti in un tenero abbraccio, mentre piacevolmente avventurosa  è la descrizione del viaggio da Asmara a Massaua, poco più di cento chilometri che venivano e vengono tuttora percorsi in circa quattro ore, un tempo che può sembrare eccessivo, ma necessario sia per il logorio dell’automezzo costretto a subire sbalzi di temperatura elevati in tempi ristretti, sia per la non facile adattabilità dei passeggeri all’asprezza del percorso. Paolo Granara non perde occasione di sfruttare ogni ricordo per costruirci storie nelle quali lo stesso lettore può riconoscersi, subendo, in quel caso, la sferza dello scrittore che se la gode a prendere in giro gli asmarini, suoi compaesani. Il libro di Paolo Granara deve essere quindi letto perché offre momenti di distensione davvero piacevoli specie quando arriva a celiare il fratello Angelo (almeno così ho interpretato) scrivendo di un poeta che, ancor fanciullo, vinse il “pisello d’oro” per alcuni versi dedicati alla sua mamma… Dai fratelli Granara ci aspettiamo tante altre belle cose; naturalmente scritti e poesie che scaturiscono da due cuori generosi, elargiti agli ultimi ex coloni di una terra dimenticata da tutti, ma non dagli stessi italiani che l’abitarono e l’amarono teneramente senza cupidigia e bramosia.
Molti sostengono che per conoscere a fondo un individuo è indispensabile incontrarlo di persona, parlarci a lungo guardandolo negli occhi per captare quelle piccole modificazioni mimiche che schiudono l’animo e permettono di formulare giudizi corretti. Non so se questa è una verità, ma se esamino il mio rapporto con Giuseppe Tringali, allora di dubbi su questa teoria me ne vengono molti. Non ho mai incontrato Giuseppe. Ho iniziato a sentire parlare di lui in Africa e allora lo avrei conosciuto volentieri per il semplice fatto che lui non solo scriveva di archeologia, ma dedicava una buona parte della sua vita a scavare collezionando molti successi. Era un creativo quindi e andava conosciuto. Non è facile però incontrare in Africa una persona che diserta, per principio, le manifestazioni sociali e la vita pubblica, vivendo  estraniato in una sua personale dimensione, totalmente immerso nella vita africana, rifuggendo i contatti con la comunità bianca. In Italia sono stato contattato da amici comuni che mi hanno chiesto di considerare l’opera del Tringali in Africa Orientale e di portarla a conoscenza non solo di tutti quelli che hanno vissuto in quei luoghi, ma anche degli abitanti del Corno d’Africa e degli archeologi che oggi hanno iniziato ad occuparsi seriamente dell’antica civiltà axumita, dominante, migliaia di anni fa, l’Etiopia. Quando, spinto da questo invito, ho letto le pubblicazioni di Giuseppe e poi ho potuto parlare telefonicamente  con lui, qualcosa deve avermi colpito perché ho provato per questo uomo un’immediata e grande simpatia. Forse è stata l’energica carica vitale di un uomo molto in avanti con l’età, forse ha giocato la sua tenera  affettività  che elargisce a piene mani, o piuttosto mi ha colpito la sua grande modestia, fatto sta che è stato facile per me instaurare con Giuseppe Tringali un rapporto amichevole immediato. La sua valenza scientifica  è indiscutibile, la sua storia è quella di un grande archeologo autodidatta, la sua fama è ben meritata; in questo libretto però, Giuseppe ha voluto esprimere la profonda spiritualità della sua esistenza con alcune poesie e disegni. Poeta e pittore quindi, che molti di noi già conoscevano come tale.  In ogni caso non eravamo  stati capaci di comprendere il messaggio che Giuseppe elargisce con le sue  opere. Non so trovare il perché di questa mancanza, ma assicuro i lettori che questo volumetto sana qualsiasi incomprensione. Sono pensieri e tratti che commuovono per la loro ingenuità e per la loro freschezza. Sono versi e pennellate che giungono dritte al cuore. Giuseppe Tringali ci regala  un piccolo pensiero  che contiene un monte di ricchezze.
Dice sempre che la smette  e poi puntuale rieccolo di nuovo, ogni anno,  che ti esce fuori con una chicca delle sue per far schiattare d’invidia tutti quelli come me che mancano dell’arte poetica che invece madre natura  ha elargito ad Angelo a piene mani. Perchè come suo solito, Annone Casimiri e Zaituni è un concentrato di lirica  appassionata verso la sua  terra, di cui riesce ancora a goderne i profumi, i colori, i sapori, gli amori, gli spazi infiniti, i rapporti con i bianchi e con i neri, con una visione così limpida e reale che sembra rimpatriato ieri. L’Eritrea  ancora gli riempie il cuore anche se tenta in tutti i modi di nasconderlo, non per paura di apparire un nostalgico, lui di queste cose se ne disinteressa, ma, secondo me, per non  scivolare nella  depressione. A differenza dei libri precedenti,  questo libro è  infatti velato da un  senso di tristezza che non lo abbandona fino all’ultima pagina. Lui ne è cosciente e attribuisce la sua melanconia a una carenza di fisicità che l’età  ineluttabilmente causa alla maggior parte di noi. Penso invece che molto abbiano influito le perdite  di amici che hanno creato vuoti non più colmabili. Ma, come ho detto,  è solo un velo  di mestizia che non riesce ad appannare lo splendore dei casimiri, degli zaituni e degli annoni, frutti squisiti, ma in Italia introvabili come le straordinarie sensazioni vissute nel Corno, uniche nel loro genere, irripetibili in altri siti di questo pianeta. Angelo è consapevole  di essere uno dei pochi fortunati depositari di questo vissuto e di avere l’obbligo morale di lasciare ai posteri tutto questo grande patrimonio non solo culturale, ma soprattutto spirituale, basato su esperienze assolutamente eccezionali: per lui, raffinato scrittore, è facile liberarsi di ciò che gli riempie l’animo e lo riversa sul lettore con una tenera e intensa affettività. Come tutti i libri di Angra, anche questo si legge tutto di  un fiato, non perché  c’è una  storia di cui si brama conoscere il finale, il libro è, infatti, composto di tanti piccoli saggi, ma perché  questo grande narratore ti ghermisce l’animo, te lo riempie di sentimento e tu, fortunato lettore, hai solo un cruccio, quello di veder rapidamente avvicinarsi l’ultima pagina e sapere che dovrai aspettare un altro anno per poter rileggere un libro di Granara.
Quando ho avuto in mano il libro, è stata più la curiosità che altro ad indurmi a dargli un’occhiata, pensando di trovarmi a sfogliare qualcosa di simile a tanti altri volumi che trattano la vita degli esploratori. Immediata e stimolante invece è stata la sorpresa di constatare che l’autore è una donna che si è presa la briga di trattare  un argomento quasi esclusivamente riservato a maschi amanti dell’avventura e  preda della nostalgia di ciò che riuscivano a fare gli esploratori di altri tempi, nostalgia che scaturisce da quel poco che oggi il mondo può ancora offrire agli amanti dell’esplorazione. In rapida successione le sorprese aumentano quando ci  si rende conto che l’autrice è giovanissima ed alla sua prima vera esperienza editoriale. Continuare a leggere diviene allora eccitante e fin dalle prime pagine è agevole penetrare nel fantastico mondo del  giovane piemontese Guido Boggiani, personaggio irrequieto che alla fine dell’ottocento si dedicò alla ricerca di luoghi  inesplorati dell’America del sud. Fin dalle prime pagine si percepisce che la sua vita, ricca di genialità e di ardore si intreccia alla perfezione con l’animo delicato e gentile dell’autrice nel creare un testo che è  da annoverare non certo fra quelli di  storia e neppure, a mio avviso fra quelli di narrativa. Isabella, questo è il nome della scrittrice, ha il dono innato di poetare ed il suo scrivere è dolce e armonioso, spontaneo e  seducente, romantico e  a tratti inebriante. Poesia pura quindi per far rivivere le vicende di un uomo altrettanto interessante e sentimentale. Un personaggio la cui bellezza fisica e interiore farebbe impazzire qualsiasi donna anche nel mondo attuale. Un uomo pieno di coraggio, di creatività, di signorilità, di  capacità non comuni. Pittore, scrittore, musicista,  geografo, etnografo, ama la bellezza del creato, ama il prossimo con una bontà che è ben difficile ritrovare negli esploratori. Inutile dire che dopo poche pagine la lettura del libro diventa necessariamente febbrile. Si capisce perché Isabella ha scelto di raccontare la vita di Boggiani: lei ha penetrato l’animo di lui, se ne è invaghita e  utilizza il suo peculiare dono del bel narrare per dare vita ad una sorta di lirica dove si realizza il ritratto del Boggiani  ma al contempo   si legge fra le righe  la realizzazione interiore dell’autrice, la sua nascita, la scoperta delle sue possibilità creative. Non è un  caso che il Boggiani fosse amico di D’Annunzio: quest’ultimo gli dedicò un canto dove ricorda la sua precoce fine, ucciso da un indio geloso della fanciulla che il nostro eroe aveva osato immortalare in un suo disegno.  E  non a caso Isabella riporta a fine libro la lode  del Vate, versi dolci e mesti al contempo, che fungono da lungo tramite tra Boggiani e l’autrice, un ponte di oltre cento anni, ma   ancora capace di suscitare tormentati sentimenti nell’ animo di una giovane donna. Alla fine si è contenti per aver letto un ottimo libro, carico di pathos e di affettività. Quando si giunge all’ultima pagina che mostra la foto di Isabella, ci si rende conto che l’autrice, oltre che brava,  è anche una donna bellissima, e allora si torna con frenesia indietro a rileggere alcuni brani, perché il suo scrivere diventa obbligatoriamente intrigante.   
Qualche mese fa ho scoperto per puro caso che gli Istituti Universitari inglesi di Storia si interessano molto al Mai Tacli e ai suoi contenuti e ho constatato  che li esaminano sempre con attenzione perché aiuterebbero a decifrare la storia della colonizzazione italiana in Africa. Da allora un timore riverenziale mi frena dall’inviare i miei scritti a Melani. In questo caso però sono certo  di fare una cortesia allo storico Charles Bartell, studioso del Mai Tacli, segnalando un libro italiano che mi ha favorevolmente colpito. L’autore, Manlio Bonati, è un  ricercatore di grande valore, noto per i suoi studi e i suoi scritti inerenti la storia delle esplorazioni italiane. Non dovrebbe quindi sorprendere più di tanto una sua nuova pubblicazione, pur se edita in una forma quanto mai ricercata ed elegante, anche perché il soggetto del volume è Vittorio Bottego, esploratore le cui gesta il Bonati, fra i tanti esploratori che ha considerato, ha studiato forse più a fondo. Dalla lettura delle prime pagine si può apprezzare però il vero pregio del libro che, a mio parere, sta nel fatto che l’autore abbandona, almeno in parte, la veste di storico e narra le gesta del Bottego come se stesse scrivendo un romanzo. In altre parole, quando ho preso il libro in mano con la certezza di affrontare un testo di saggistica, mi sono dovuto subito ricredere e mi sono ritrovato a “divorare” un libro di avventure. Il Bottego di Bonati mi ha ricordato i libri storici di Sciascia e di Camilleri che coinvolgono il lettore dalla prima  all’ultima pagina. Noi poi, che siamo vissuti nelle terre esplorate dal Bottego, ritroviamo tutti quei riferimenti che rendono il testo non solo stimolante, ma fecondo di rimembranze. Luoghi, abitanti, animali selvatici, uccelli, insetti, clima, sono descritti in maniera realistica e piacevole, le gesta del Bottego vengono raccontate con obiettività e sapienza. E’ un libro di gran pregio che non può mancare in una biblioteca africana.
 
Il libro è il primo della Collana “Gli Esploratori”, curata da Manlio Bonati, della quale a seguire usciranno i volumi relativi a: Guido Boggiani, Umberto Cagni, Gerolamo Segato, Giovanni Miani, Giacomo Costantino Beltrami, Orazio Antinori, Eugenio Ruspoli, Augusto Franzoj, Giacomo Bove, Giovanni Battista Cerruti, Giuseppe Maria Giulietti, Enrico Baudi di Vesme, Antonio Cecchi, Giuseppe Haimann, Pietro Savorgnan di Brazzà, Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi, Umberto Nobile. Il volume è stato stampato in tiratura limitata in 1000 copie numerate.

IL CODICE DI BAROA
di Angelo Granara
Tipolito Arte Stampa Ed., Caselle di Selvazzano (PD)
 
Rieccolo! Sempre preciso, sicuro di se, allettante e intrigante. Parlo di Angelo Granara naturalmente. Lui che dovrebbe trovarsi ancora in un periodo sabbatico, sforna un altro libro! Esattamente un libro l’anno, come tutti i grandi scrittori che si rispettino. E che libro! Dio, quanto invidio questo uomo! Scrive con la stessa facilità con la quale riesco appena a copiare un testo. Lui si invola a livelli per me stratosferici, riuscendo a mettere per iscritto i suoi più reconditi pensieri e tutto quello che gli scaturisce dall’animo. Se prendete in mano il suo ultimo libro “Il codice di  Baroa“, edito in sintonia con altri recenti codici, vi rendete subito conto che l’animo di Angelo è grande come una casa. Ma intanto scherza con gli enigmi, provoca con l’arguzia, rimprovera con gentilezza, critica con sapienza. Parla di Asmara, la città che ama perdutamente, ma a modo suo. Lui vive i suoi ricordi con la stessa intensità di come vive la sua vita attuale e non perdona tutti quelli che  cercano di dare visioni che contrastano con la sua affettività. Bastona tutti, me compreso, senza pietà. Come faccio a contestare qualcosa se lui riesce a scriverla in una maniera talmente bella e poetica che mi fa sentire un indegno scribacchino? Non pensiate che stia esagerando. Provate a leggere, poi mi saprete dire! Il suo Codice è un insieme di riflessioni, quarantatre per l’esattezza, che deliziano chi legge, ma al contempo lo costringono a pensare. E’ proprio ciò che ci si aspetta da un buon libro.  Non ci resta altro che leggere con molto rispetto quanto Angelo scrive e dirgli un grazie di cuore se ogni anno continuerà ad elargirci questi piccoli capolavori letterari zeppi di ricordi e di pensieri della nostra Eritrea.