Beppe Storelli, 24 dicembre 2018
Fin dalla nostra prima infanzia, sia io che mio fratello Gianni abbiamo nutrito una viscerale passione per l’albero di Natale,
influenzati forse dalla cultura nordica o anglosassone in auge all’epoca.
Nel 1941 vivevamo in Eritrea, che era stata occupata dagli inglesi. Il primo impatto lo avemmo quando fummo invitati una vigilia di Natale nel salone del circolo ferrovieri, per ricevere un piccolo dono natalizio. In quel tempo mio papà era un dipendente delle locali ferrovie amministrate dagli inglesi. Entrati che fummo nel grande salone del circolo non potemmo fare a meno di rimanere a bocca aperta nel vedere che, in un angolo del salone, campeggiava un enorme (almeno a noi così sembrò essere) albero di Natale. Era tutto sfavillante di luci e di addobbi con palline multicolori e di varie misure. Un vero splendore.
L’anno successivo, poiché eravamo già più grandicelli, non ricevendo l’invito, decidemmo di arrangiarci per conto nostro. Era il
periodo in cui l’amministrazione della Forestale, in coincidenza con le celebrazioni del Natale, in zona Fil Fil (dove c’era un bosco di abeti messi a dimora appositamente nell’ambito di un piano di riforestazione) faceva potare alcuni abeti e i rami della potatura venivano posti in vendita ai privati per poterne fare gli alberi di Natale. Ma i rami, quei rami, erano talmente tristi, che un solo ramo non bastava per ottenere un decente albero di Natale, per cui si era costretti ad acquistarne almeno un paio, che una volta legati assieme, riuscivano a dare una vaga idea di albero natalizio.
Ovviamente c’era l’obbligo di posizionarlo d’angolo, poiché il retro dell’albero era pressoché inesistente. Insomma faceva schifo, ma dati i tempi e il luogo andava più che bene. Un grosso problema per noi, mio fratello e me, era costituito dal denaro. Erano tempi duri e mia madre, parsimoniosa donna di casa, oltre che severa, era anche molto tirata ed era impossibile scucirle del denaro per acquistare un ramo per l’albero di Natale, figuriamoci poi per due. I rami venivano
posti in vendita al costo di cinque scellini, e con quei soldi ci potevi acquistare un chilo di carne o farti risuolare un paio di scarpe, (suole di cartone pressato) tanto più che sia mio fratello che io ne avevamo di bisogno con una certa frequenza. Fu cosi che un anno decidemmo che avremmo avuto il nostro albero di Natale. Più bello e rigoglioso che mai.
Mio padre aveva l’abitudine, tornando dal lavoro, di preparare la cena e di conseguenza di accendere la stufa per cucinare. Per cui, prima d’ogni cosa, spaccava la legna necessaria per la cottura. L’accetta che lui adoperava esercitava su di noi una sorta di attrazione morbosa. Era infatti lo strumento ideale per poter tagliare alla base un giovane alberello.
Ormai mancavano pochi giorni al Natale quando un pomeriggio. Gianni e il suo amico Bartolo, dopo aver confabulato come due cospiratori, si dileguarono armati di accetta. Sulle prime, non capii cosa stesse accadendo (sono sempre stato un po’ lento ad afferrare certe situazioni). Ma capii perfettamente quando mio fratello rientrò a pomeriggio inoltrato sconvolto e sudaticcio. Era successo che lui e l’amico Bartolo, armati di accetta, erano andati al boschetto di Bet Gherghìs, con l’intenzione di decapitare un abete da adibire ad albero natalizio, quando sul più bello stavano per essere sorpresi da un paio di guardie forestali; per loro s’impose la necessità di darsi a precipitosa fuga abbandonando in terra l’ascia. Questo rendeva particolarmente sconvolto mio fratello, poiché da un momento all’altro sarebbe rientrato nostro padre e non trovando il manarino chissà cosa avrebbe detto o fatto.
Infatti, appena rientrato, si mise all’opera e alla ricerca dell’attrezzo, che ovviamente non trovò, per cui dopo aver urlato un paio di porco qui, e porco là, andò in ferramenta ad acquistare una nuova accetta. Era bella, molto bella, quella accetta, lucida, sfavillante, e tagliente. Per cui il giorno dopo partimmo mio fratello ed io. Giunti che fummo sul luogo dove consumare il nostro delitto, mio fratello mi prese in disparte e mi raccomandò di fare buona guardia nel caso avessi visto giungere i forestali.
Non aveva neppure dato un paio di colpi quando voltandomi mi accorsi che c’era una guardia forestale che lentamente, quatta quatta, si stava avvicinando a noi. Io urlai “Gianni tela” era la parola d’ordine per dire “scappa”. Con un balzo mio fratello salta giù dall’albero, mentre io comincio a correre all’impazzata, zigzagando qua e là per evitare gli alberi alla disperata ricerca di una via di fuga.
Sentivo sul collo il fiato caldo del forestale che mi inseguiva. Improvvisamente mi trovo davanti il filo spinato che delimita l’area del boschetto e in men che non si dica lo salto piè pari. (Qualche anno più tardi, ai campionati studenteschi arrivai terzo saltando un metro e sessantacinque all’italiana) Per me quel metro e venti di filo spinato era robetta.
Il dramma scoppiò alla sera con mio padre il quale, dopo avere scandito la solita serie infinita di giaculatorie, tornò in ferramenta a comperare un’altra accetta nuova. Circa verso le nove, vedo mio fratello entrare in camera. Aveva un mefistofelico sorriso sulle labbra e stava brandendo l’accetta accarezzando con il dito pollice il filo della lama. “Eh no!” dissi, “questa volta si fa a modo mio, niente accetta, ma usiamo il segaccio” “Ma quello non taglia neppure l’acqua” “A maggior ragione, se lo perdiamo non succede niente ma se ci perdiamo l’accetta, c’è caso che ci rimettiamo la testa con nostro padre”.
Partimmo armati di segaccio. Non so se avete presente, ma dopo aver fatto la discesa delle fontane di Ghezzabanda, la strada all’incrocio con viale Ras Alula, offre una piazzetta con al centro una aiuola, dove campeggiano un maestoso abete, ed una pianta di yucca sempre adorna di splendidi fiori bianchi e profumati. Quell’abete era la vittima designata. Con insospettata agilità, mio fratello si arrampica sull’albero e con silenziosa maestria e non poca fatica recide la sommità del maestoso abete. Ce la carichiamo sulle spalle, e ci dirigiamo verso casa, avendo cura di attraversare i vicoli più bui e i meno frequentati. Lui davanti a reggere la punta dell’albero e io dietro a reggere la parte terminale.
A pochi metri da casa nostra, sentiamo il sibilo di un fischio di un vigile notturno che ci impone l’alt. Ma noi non ci diamo per intesi, ci infiliamo in un vicolo buio alle spalle di casa nostra e ci acquattiamo contro la porta di una stanza abitata da una giovane donna che praticava la nobile arte del mestiere più antico del mondo. Impossibile non fare rumore, tanto che l’inquilina incuriosita aprì la porta convinta di avere a che fare con un occasionale cliente. “Gianni, che fai qui a quest’ora?” “Oh ciao Aurora, facci entrare, c’è un costabile che ci insegue, abbiamo fregato un albero di Natale” “Gianni? Aurora? com’è che vi conoscete voi due?” “Lascia perdere è ti spiegherò poi” Rimanemmo al buio muti e silenziosi per una buona mezz’ora poiché il brusio sulla strada non aveva alcuna intenzione di prenderla persa. Poi Aurora aprì la porta, controllò che non vi fosse alcun pericolo e rientrammo in casa con il nostro trofeo.
Era un albero bellissimo, e aveva un profumo che ci accompagnò ben oltre il periodo natalizio e fu festeggiato con mandarini, noci incartate in carta stagnola riciclata dai pacchetti delle sigarette, un paio di banane, che furono mangiate per prime. Alla base dell’albero fu costruito un presepe. Ma questa è un’altra storia, che poi vi racconterò. Nel 1974, sono tornato ad Asmara e avevo appuntamento con il Seppia, che sarebbe passato a prendermi come facevamo quando lavoravamo insieme. Mentre aspettavo di vedere comparire l’amico, mi volto per vedere se e come era cambiata la vecchia piazza. C’era la yucca in fiore e un abete grosso e rigoglioso, e guardandolo bene dissi “Che strano, per essere un abete sei alquanto tozzo, sembra che ti manchi la punta” ed era vero.
Pop

all’italiana. In fondo a sinistra Honich Giampaolo non supera 1.65. In fondo al centro Massimo Fenili 1,85 secondo classificato con
metodo Fosbury In fondo accovacciato sulla destra Patsimas Demetrio Primo classificato con 1,90 metodo Fosbury. In primo
piano sulla Sinistra Fratel Valentino Jannone giudice della gara.
N.B. Il metodo Fosbury, rispetto al metodo all’italiana consentiva di
migliorare le proprie prestazioni di circa15/20 cm. Essendo io impegnato a preparare gli esami di stato per ovvie ragioni avevo
disertato gli ultimi incontri con il prof. di educazione fisica, pertanto per me fu giocoforza saltare con il solo modo che conoscevo quello “All’italiana”.

