Questo racconto è liberamente ispirato a un fatto realmente accaduto nel periodo dell’invasione italiana in Etiopia (1936).
Erminia Dell’Oro, 10 giugno 2004
Ancora oggi, in un paesino arroccato fra i monti abissini, raccontano che nell’ora in cui Petros nacque, il sole tardò a tramontare. Gli abitanti guardavano turbati l’astro immobile sulla soglia del buio, i cani ululavano, i greggi si sparpagliavano, spaventati, sui pendii dei monti.
Quando il bambino pianse – un pianto lungo e disperato – il sole scomparve e, dall’altra parte del cielo si fece avanti una falce di luna.
– Sarà un grande uomo – disse la donna che prediceva il futuro – se il sole ha voluto attendere la sua nascita -, e si chinò a baciare la terra.
– Sarà un uomo come tutti gli altri – mormorò la mendicante storpia a cui il padre di Petros aveva dato una moneta – e come tutti dovrà reggere il peso della vita-.
Ne aveva viste tante, nei suoi tanti anni, che quella favola sul sole non la incantava.
La madre di Petros cercava di calmare il bambino e le donne si affaccendavano intorno dicendo che il pianto avrebbe fatto bene ai polmoni del neonato.
Petros sarebbe stato forte.
Fin da bambino Petros fu silenzioso e riflessivo.
Se ne stava per conto suo a osservare le cose del mondo, raramente si univa agli altri bambini per saltare o per correre dietro una palla di pezza.
Il giorno in cui un’aquila reale, la più grande che si fosse mai vista da quelle parti, si abbatté ferita sulla piazza del paese, Petros si arrampicò, graffiandosi le braccia e le gambe, fin sulla cima di un monte.
Il disperato lamento dei tre aquilotti rimasti soli lo portò alla rupe in cui c’era il nido. Il bambino sistemò alla meglio i tre aquilotti in una bisaccia e li portò in paese.
Gli aquilotti crebbero, aiutati da Petros che procurava loro il cibo, e in paese dicevano che il bambino aveva facoltà straordinarie poiché nessuno riusciva a fare sopravvivere i piccoli orfani degli uccelli.
Era rimasta per tutti un mistero, e un triste presagio, la morte dell’aquila reale, colpita da un proiettile d’arma da fuoco.
– Andrai in seminario – disse un giorno a Petros suo padre – studierai, poi potrai trascorrere la tua vita nel silenzio dei monasteri, dedicando il tempo alla lettura dei testi sacri e alla meditazione-.
Petros guardò i monti. Non avrebbe voluto lasciare la sua casa, le valli e il cielo che conosceva, ma era suo padre a decidere.
Osservò la madre, che stava cullando l’ultimo nato; non incontrò il suo sguardo.
Petros aveva occhi grandi nel viso magro, lineamenti sottili, riccioli scuri.
– Sarai un re – le sussurrò Abeba, la donna che gli era stata vicina fin dalla nascita – sarai un re bello e coraggioso-.
Quella notte arrivò nel villaggio una banda di briganti. Giungevano da chissà dove, affamati e decisi a portarsi via pecore e oro. Entrarono in molte case spaventando gli abitanti, mostrando coltelli e vecchi fucili.
Avevano capelli irti sulla testa, sguardi allucinati, ossa sporgenti. Entrarono anche nella casa dove abitava Petros.
I genitori del bambino li implorarono di andarsene. Avrebbero dato loro tutto quello che avevano, ma per carità non spaventassero i piccoli.
Mentre la madre di Petros stava togliendosi la collana d’oro e i bracciali, il bambino si alzò dalla branda e andò incontro ai briganti.
Si avvicinò a quello che sembrava il capo banda.
– Mi chiamo Petros. – gli disse a voce calma – E tu?-.
I briganti, immobili, guardavano il bambino, i suoi occhi fondi come la notte.
– Andiamo – ordinò il capo banda.
Uscirono tutti, senza danaro, né oro.
Il neonato piangeva.
– Non credo che siano cattivi – disse Petros ai suoi genitori sgomenti. – Hanno fame e paura-.
Abeba, inginocchiata, capì che sarebbe stato meglio per Petros entrare in seminario, e trascorrere l’esistenza nei monasteri, al riparo dalle umane miserie.
Petros non doveva assistere alle pene del mondo.
L’Abuna Petros, molti anni dopo, era in un monastero fra le montagne, nei pressi della capitale, quando giunsero gli invasori dalla lontana Europa.
Si dedicava, da tempo, allo studio dei testi sacri e alla meditazione.
Vestiva una lunga tonaca e camminava come una monaca.
Il paese era in subbuglio.
Gli invasori lo avevano occupato e ci si erano insediati.
Stremavano ogni resistenza con le armi, dettavano leggi e proclami, volevano obbedienza dagli abitanti di quella terra africana.
Per le strade della capitale bisognava farsi da parte quando loro passavano.
Ci furono ribellioni e attentati, e costarono molte altre vite al popolo dei vinti.
L’Abuna Petros vide arrivare i militari, un mattino, al monastero; erano capeggiati da un colonnello obeso, con i baffi scuri.
Li ricevette senza timore.
Per un attimo i soldati abbassarono lo sguardo.
L’Abuna, diritto davanti a loro, così calmo e altero, in qualche modo li aveva turbati. Ma quella reazione durò poco.
– Seguici – ordinò il colonnello.
L’Abuna li lasciò attendere qualche attimo, il tempo di chiudere il libro che aveva sul tavolo, di riordinare qualche carta, poi li seguì.
Attraversò il giardino del monastero e guardò le montagne. Ricordò i momenti in cui aveva portato gli aquilotti affamati.
Il giorno dopo, stipati sulla piazza del mercato, i monaci erano più di duecento. Si sentivano sussurri e preghiere ma nessuna voce si alzò a invocare pietà.
– Fuoco – ordinò l’ufficiale, e l’eco ripeté alle valli: fuoco. I monaci cadevano, a uno a uno.
Il cielo era blu e l’ aria profumava di piante appena lavate dalla pioggia.
– Fuoco – ripetè l’ufficiale perché l’Abuna Petros era ancora in piedi e benediceva, con la croce copta, quegli uomini affidati a un precario potere.
– Fuoco – gridò ancora, esasperato, l’ufficiale nel vedere l’Abuna calmo, immobile, come fosse immortale.
Altri proiettili attraversarono l’aria. Anche Petros cadde.
Fu allora, mentre il colonnello si detergeva il viso rosso, sudato, borbottando qualcosa fra i denti, che tre aquile reali, le più grandi che si fossero mai viste da quelle parti, scesero in picchiata sulla piazza.
Si avventarono, sbattendo le ali sfrangiate, sugli uomini e con gli artigli strapparono le divise. I soldati si dibattevano, urlavano, si riparavano con le braccia il viso e la testa.
Poi le aquile scomparvero.
E’ certo che l’Abuna fu fucilato quel giorno, insieme ad altri 230 monaci, ma c’è chi dice che il suo corpo non fu mai ritrovato.
Le aquile reali, si racconta, lo portarono via, su uno dei monti più alti, sovrastante il paese in cui Petros era nato.