Ninetto Talluri, 6-6-04

Nicky mi ha coinvolto in questa iniziativa ed io, un poco sottovalutando l’onere ed un po’ solleticato dall’onore,  mi sono accollato il compito di mettere nero su bianco una serie di ricette eritree.

Ho optato per il ruolo di “Artusi eritreo”, in quanto non essendo un buono scrittore (…e neanche cattivo: non lo sono del tutto!) mi era sembrato un “compitino facile facile” e mi sono detto “ma che ci vorrà mai a mettere giù delle ricette?”.

Nulla di meno vero se si desidera fare le cose per bene.

Per cucinare un buon piatto, bisogna per lo meno averlo realizzato in prima persona per scoprire e quindi trasferire tutti i piccoli trucchi. Il know how si acquisisce per esperienza.

Essendo tornato “scapolo” alla tenera età di 55 anni e disponendo allora (ora non più) di tempo libero per cucinare, ho avuto modo di esercitarmi nella preparazione dei piatti del mio Paese e quindi titolarmi involontariamente per questa impresa che tuttavia sin dall’inizio si sta rivelando più impegnativa del previsto, non fosse altro per l’ateriosclerosi (o forse è Alzhaimer?) che pone di tanto in tanto in blocco irreversibile “sulla punta della lingua” tanti termini habeshà.

Di conseguenza ho coinvolto il mio amico e coetaneo Sandro Mazzola ed è probabile che in due riusciremo, stimolando i neuroni residui dei sessantenni, a rimettere assieme tutto il glossario originale.

La cucina habeshà ruota intorno alla ‘ngerà, una sorta di piadina morbida, spugnosa e di grandi dimensioni, cosi come quella italiana ruota intorno al pane, di conseguenza inizierò il mio mestiere di “eritrean food writer” con la ‘ngerà.

Dico inizierò perché ancor prima di  descrivere come ottenere una degna ‘ngerà non disponendo dell’ingrediente di base che è il teff un seme scuro di pianta sorgacea impossibile da trovare in Europa che mi dicono di difficile reperibilità attualmente anche in Eritrea, ritengo doveroso descrivere come realizzare il forno per cuocerla. Per la ‘ngerà mi e vi  rimando quindi alla prossima puntata.

Il forno per cuocere la ‘ngerà (in eritreo mogogò) è un’attrezzo indispensabile per ottenerne una ‘ngerà con il sapore dei miei tempi, un sapore inconfondibile con quel sottilissimo, lieve, impalpabile odore (non retrogusto, badate bene) che mi ricorda gli anni ‘50 e le tanto agognate vacanze estive a Cheren. Mesi di gioia passati in un primo periodo nella casa della mia bisnonna addei Mahalet, e successivamente con nonna Diamandula.

Le nonne attendevano tutto l’anno e con trepidazione l’arrivo di una numerosissima frotta di nipoti e pronipoti generati dalla mezza dozzina di figli di addei Mahalèt che a loro volta cresciuti si sono moltiplicati fino ad arrivare a formare un vero e proprio piccolo esercito di giovani Frangoulis e Stefanidis composti  da un bel mix di sangue eritreo, greco e italiano con i Bianchi ed i Talluri, attualmente sparsi e spersi per tutto il globo.

Io e mia cugina Mirella eravamo i soli figli unici e con genitore Italiano.

Ma bando ai ricordi! Devo dire subito che una ‘ngerà impastata con il teff e cotta nel mogogò, piuttosto che su una moderna padella di alluminio teflonato, ha la stessa differenza che troviamo fra un panino industriale fatto con un mix di farina e fecola di patate, cotto in forno elettrico, e la pagnotta fatta con la vecchia farina di grano, non completamente sbiancata, macinata al mulino e cotta nel forno a legna.. .

Disporre di un mogogò significa avere un forno estremamente efficiente, composto da un emiciclo costituente la camera di combustione e che nel contempo sorregge una piastra di terracotta di quasi un metro di diametro, spessa un paio di centimetri. La piastra veniva trattata pazientemente con yoghurt (rugò), burro (tesmì) e nerofumo in modo da ottenere una superficie liscia, nera e lucida. La superficie veniva mantenuta oleosa strofinandola spesso con uno straccetto intriso di olio di semi (zeiti) Il tutto coperto e protetto da un coperchio (mogdì) che a mio avviso è il cuore del sistema, indispensabile insieme al comburente, per ottenere il “meraviglioso profumino”.

In genere il mogogò si trovava messo a terra (battuta) all’interno dei tucùl o nei villaggi intorno all’Asmara, sempre a terra, all’esterno delle abitazioni. Per ottenere la camera di cottura si ricorreva a delle pietre (dongolà) o a dei mattoni di terracotta fatti a mano e tenuti assieme dalla cicca,  un impasto di fango e sterco di vacca essiccato e polverizzato, facente funzione della malta e dell’intonaco. Lo stesso impasto, con un contenuto più elevato di sterco (harà) era il materiale utilizzato per realizzare il coperchio (mogdì). Il coperchio era una cupola molto leggera e fragile, con un rudimentale manico apicale per poterlo sollevare facilmente e controllare di tanto in tanto lo stato di avanzamento della cottura.

Una volta cotta, la ‘ngerà veniva staccata dalla piastra rovente del mogogò e posta a raffreddare su una stuoia circolare (setetà) realizzata con della rafia ricavata dalle foglie di palma dum (lahà) e tessuta in una lamina sottile e flessibile del diametro di circa un metro.

Il fuoco era ottenuto bruciando preferibilmente sterco di vacca secco. Per attizzarlo e mantenerlo allegro si usava un ventaglio (mesherefèt), anch’esso realizzato come il setetà  ma con diametro molto più piccolo.

Una volta persa per evaporazione sul setetà quell’umidità che provocherebbe l’incollamento dei fogli di ‘ngerà, le ‘ngere pronte per essere consumate venivano poste in strati anche di 20 pezzi dentro un bellissimo cestino (gbabò)  realizzato in rafia laham colorata con almeno tre colori che quasi sempre comprendevano il giallo il verde e il rosso, l’allora bandiera etiopica. Era un contenitore altamente decorativo, l’ equivalente habeshà della vecchia madia.

Era possibile mangiare direttamente sul gbabò, posto nel centro dei commensali a guisa  di tavolino,  oppure le ‘ngere venivano messe sempre in strati multipli  sul sefì, un vassoio fatto con la solita  rafia colorata (lahà) tondo di circa un metro che posto al centro della tavola serviva da piatto per tutti i commensali.

Vi è venuta una certa voglia?

Bene! Dovrete tenervela sino alla prossima puntata che sarà dedicata all’impasto e cottura della ‘ngerà.