DAMBISA MOYO, La carità che uccide: come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli, 2010, ISBN 9788817039970, pp. 260, € 18,50
“Che cosa succederebbe se a uno a uno tutti i paesi africani ricevessero una telefonata (concordata da tutti i maggiori donatori: la Banca Mondiale, i paesi occidentali eccetera) in cui si comunica che entro cinque anni esatti i rubinetti degli aiuti verranno chiusi per sempre?” Dambisa Moyo, nata e cresciuta in Zambia in una famiglia della borghesia colta (sì, esiste anche quella, in Africa), poi formatasi in economia ad Oxford e ad Harvard, ha lavorato per anni alla Banca Mondiale (abbastanza per potersi permettere di lanciare strali sul suo operato) prima di approdare alla prestigiosa banca d’affari Goldman Sachs. La sua domanda non è puramente provocatoria, anzi: la Moyo si augura davvero che questa benedetta telefonata arrivi, e al più presto. Non è la prima volta che una esperta africana rifiuta energicamente e pubblicamente il programma di aiuti occidentali (sto pensando, ad esempio, alla camerunense Axelle Kabou, con il suo E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?, l’Harmattan Italia, 1995, ristampa 2008), ma è la prima volta che le tesi esposte dalla Moyo hanno una risonanza mondiale di tale portata da collocare l’autrice, secondo le classifiche di New York Times e di Time Magazine, tra le cento persone più influenti al mondo. E forse questa classifica ha spinto la Rizzoli ad occuparsi della traduzione, che però, probabilmente per la fretta, non è affatto esente da errori sintattici e sviste. Non ho gli strumenti tecnici e culturali adatti per poter eventualmente controbattere l’autrice (nel caso, ci sarà senz’altro qualcuno che lo farà, se può); ma leggere il suo testo mi ha dato l’impressione che qualcuno, da un grumo di mie confuse intuizioni, mi avesse districato i problemi, esposto dati, chiarito lo sviluppo di un ragionamento. Non a caso, la Moyo si è formata nell’ambiente anglo-americano, la cui saggistica è (o dovrebbe essere) di esempio a tutto il mondo per chiarezza e stile. La tesi principale esposta è che i programmi di aiuti che hanno riversato sull’Africa , in 60 anni, un trilione di dollari di aiuti (non ho idea di quanto sia un trilione di dollari, mi sfugge, un trilione di dollari per me è solo nel deposito di Zio Paperone, eppure è una realtà) sono stati controproducenti, deleteri, disastrosi. Hanno abituato i paesi africani a un comodo far nulla in attesa, anzi in pretesa, di sovvenzioni (ancora pochi giorni fa leggevo su un quotidiano kenyota – mi pare fosse il Daily Nation – una serie di lamentele riguardanti aiuti promessi e non ancora inviati); hanno affidato a pop star ed attori hollywoodiani la ribalta della carità (la Moyo punta i suoi strali contro Bob Geldof et similia, con i loro irritanti programmi di “Live Aid”: il suo testo, in originale, si intitola “Dead Aid”); hanno creato nebulose di ONG (cinquecentomila almeno, secondo i calcoli della Moyo, gli occidentali che vengono lautamente stipendiati per “collaborare”); hanno, soprattutto, favorito e sviluppato in tutto il continente una feroce corruzione, che annulla alla radice qualsiasi possibilità di sviluppo autonomo. Per esempio l’Etiopia, si cita, dipende per il 75% della sua economia dagli aiuti occidentali. Eppure, si ricorda, l’Africa è ricca, ricchissima: agricoltura, miniere, petrolio, materie prime di ogni genere. E, mentre l’Occidente pigramente dona, la Cina più realisticamente sta avanzando prepotentemente, con meno remore morali, ambientali, assicurative, ma creando posti di lavoro ed economia in cambio delle ricchezze africane. “La Cina manda in Africa denaro e pretende di guadagnare”; “Una donna del Dongo rurale (il “Dongo” è l’immaginaria repubblica africana che la Moyo usa per esemplificare le sue tesi) si preoccupa meno della libertà democratica nei prossimi quarant’anni che non di mettere il cibo in tavola oggi”. Eppure, “soltanto trent’anni fa il reddito pro capite del Malawi, del Burundi e del Burkina Faso era superiore a quello della Cina”. Se si è sviluppato l’Oriente (e non c’è solo Cina, pensiamo a Thailandia ed India) , perché mai non dovrebbe farcela l’Africa? Da buona professionista, la Moyo propone infatti una serie di strumenti finanziari ed economici che potrebbero permettere l’autonomia e lo sviluppo dei paesi africani: dal modo di affacciarsi ai mercati finanziari mondiali per proporre obbligazioni, ai sistemi di commercio, ai prestiti privati (non statali!); per creare un circolo virtuoso che obblighi i governanti a fare il loro mestiere, almeno entro limiti accettabili: gli africani devono contare sulle proprie risorse e sulle proprie tasse, che sono un modo per controllare i governanti. L’importante è sbrigarsi, ad inviare questa benedetta telefonata; perché, come dice il proverbio africano citato a conclusione dell’opera “Il momento migliore per piantare un albero era vent’anni fa. Altrimenti, il momento migliore è adesso.” |