Valeria isacchini, 9 giugno 2017
Fin dalla sua fondazione, il Regno d’ Italia mostrò di volersi affermare sulla scena europea ed extra-europea, venendo presto infatti a scontrarsi -oppure, a seconda dei casi,ad allearsi-, con le mire di Francia odi Gran Bretagna in altri continenti.
La Regia Marina ebbe in questo un ruolo importante, dato che ovviamente costituiva l’unico mezzo di approccio e protezione in zone geograficamente lontane e talvolta inesplorate.
Pochissimi anni dopo la formazione del Regno, già si lanciava in imprese di notevole complessità. E’ noto che la prima circumnavigazione del globo compiuta da una nostra nave militare fu la crociera (1865-1868) con scopi scientifico-diplomatici della pirocorvetta Magenta1 ,al comando del capitano (nonché plenipotenziario) Vittorio Arminjon, che ebbe risultati molto positivi, dato che tale impresa, oltre a una serie di importanti riscontri scientifici, portò alla stesura di un trattato commerciale italo-giapponese e di uno italo-cinese. Colonie penali d’oltremare e prime attività della Regia Marina in Mar Rosso.
Ma, accanto alle attività commerciali, scientifiche e al “mostrar bandiera”, uno degli scopi principali dell’attività delle nostre navi militari in mari esotici fu inizialmente la ricerca di colonie penali.
Con l’affermarsi dei criteri filantropici caratteristici dell’Ottocento, che vedevano nel lavoro una forma di riscatto sociale e nella forma penale della solitudine in cella una forma di lenta morte (ma anche per motivi economici, dati i costi del sistema “tutto cellulare”), molti fra gli stati più avanzati dell’epoca (tra i quali l’ Italia voleva collocarsi) utilizzarono le rispettive Marine per la deportazione dei condannati in bagni penali all’estero2, sull’esempio di quanto da un secolo faceva la Gran Bretagna in America del Nord ed Australia3. Non avendo l’Italia dell’epoca alcuna colonia, la Regia Marina impegnò numerose navi per la ricerca di zone adatte al trasferimento dei carcerati.
Questo, ovviamente, teneva anche in conto la possibilità di una futura espansione politica e commerciale nelle terre individuate. Le si cercò in località oggi spesso turisticamente appetibili, all’epoca invivibili, tanto che non se ne fece nulla: nel Mar della Sonda, alle Nicobare, a Socotra, in Groenlandia, alle Maldive, alle Falkland… e così via. Luoghi dal clima feroce, o senza acqua sufficiente, o a costante rischio di attacco dagli indigeni, o tutte le cose insieme.

Tra le unità impegnate in queste missioni fu la corvetta Ettore Fieramosca4. Già appartenente alla prestigiosa marina borbonica, fu tra le prime navi a vapore costruite in Italia, nei prestigiosi cantieri di Pietrarsa a Castellammare dove fu varata nel novembre 1850. L’ unità ebbe una storia risorgimentale suggestiva e complessa: aveva intercettato, insieme alla pirofregata Tancredi, il piroscafo Cagliari che portava a Sapri la spedizione di Carlo Pisacane nel 1857; nel 1860 aveva imbarcato per l’esilio prigionieri politici tra i quali Luigi Settembrini, Luigi Spaventa e Carlo Poerio; era nella squadra che aveva intercettato il Piemonte e il Lombardo che trasportavano i “Mille” verso Marsala (lasciandoli proseguire!) ; quando il 6 agosto il comandante Vincenzo Guillamat durante un pattugliamento si accorse che Garibaldi stava allestendo ben duecento imbarcazioni per il passaggio tra Messina e Reggio Calabria, decise di non intervenire, provocando l’ammutinamento dell’equipaggio, leale ai Borboni; il 6 settembre 1860 l’unità non seguì a Gaeta re Ferdinando II° e di conseguenza entrò nella Regia Marina Sarda.
Anzi, al comando del CF Federico Martino partecipò al blocco e presa della piazzaforte di Gaeta, nonché a quella di Messina. Nel 1862 suo comandante fu Emilio Faà di Bruno, poi MOVM. Il 1° agosto trasportò al carcere di Gaeta Giuseppe Mazzini, intercettato e catturato mentre con il nome di Harry Zammith si stava recando da Napoli a Palermo.5
Nel 18686, come conseguenza dell’inizio dei lavori del canale di Suez, venne inviato il comandante del Fieramosca, CF Bertelli, all’esplorazione, con un sambuco locale, delle isole Dahlak, per poterne saggiare le eventuali possibilità di occupazione, mentre il Fieramosca restava ancorato ad Alessandria. Al momento, non se ne fece nulla, data evidentemente la totale mancanza di sorgenti sulle isole, ma questo primo contatto con le coste eritree portò in seguito alla decisione, come si sa, di prendere in considerazione la proposta, avanzata da Giuseppe Sapeto, di acquistare la baia di Assab.7
Con l’appoggio del Primo Ministro Luigi Menabrea e di Augusto Riboty, Ministro della Marina, Sapeto, in compagnia del contrammiraglio Guglielmo Acton che viaggiava in incognito, si recò nel Mar Rosso per scegliere una località adatta all’approdo.

Si trattava di una missione riservata, dato che, pur essendo i fondi concessi dal Governo, la cosa doveva risultare come operata a titolo privato, dato che il Governo italiano non voleva in quel momento crearsi problemi diplomatici con le altre potenze europee interessate al Mar Rosso, né con l’Egitto, che nominalmente avanzava pretese sulle coste occidentali del Mar Rosso.
Fu Acton che, dopo aver scartato varie località, o perché già frettolosamente occupate da inglesi e francesi, o perché con fondali inadatti, scelse la baia di Assab e nel novembre 1869 stipulò con i capi locali un compromesso di acquisto8per un terreno di 6 x 6 km, per la somma di 80.000 lire.
Numerosi autori parlano di affitto, anziché di acquisto. In effetti, la mancanza (finora) negli archivi dei documenti originali dell’epoca può creare confusione e dubbi. Tuttavia, i testi dei contratti, in cui si parla di “acquisto” e “vendita”, sono stati pubblicati nel 1906 dal Ministero Affari Esteri.

Da notare che fu durante il rientro da tale missione che Acton seppe che sarebbe diventato il nuovo Ministro della Marina. Ma, dopo la caduta del governo Menabrea, il nuovo Primo Ministro, Lanza, introdusse nell’affare la prestigiosa e potente Società di Navigazione Rubattino, a cui affidò l’incarico per il completamento dell’acquisto, che venne effettivamente ratificato l’11 marzo 1870, con un ampliamento e conseguente maggiore esborso. L’acquisto di Assab era costato al governo 104.100 lire9 di cui 55.000 a carico del bilancio del Ministero dell’Interno e le rimanenti a carico dei Ministeri della Marina, Agricoltura, Lavori Pubblici ed Esteri.
Pochi giorni dopo, si procedette all’affitto decennale, con riserva di acquisto successivo, di alcune isolette antistanti la baia. Ufficialmente, la Rubattino intendeva farne un deposito di carbone per le proprie navi che, dopo l’apertura del Canale di Suez, dirigevano verso l’Oriente.
Ma per circa un decennio questa piccola base, per varie ragioni, sia politiche che climatiche che commerciali,rimase trascurata e limitata in sostanza a una capanna, chiusa ed affidata in custodia a un paio di indigeni, recante la scritta “Proprietà Rubattino comprata agli 11 marzo 1870”, con accanto l’asta della bandiera, e non fu frequente la presenza in zona di unità militari. Inoltre, è da ricordare che si trattava comunque di una proprietà privata che, nonostante gli sforzi diplomatici e le complicazioni internazionali che l’insediamento aveva comportato, non aveva rilevanza ufficiale.Oltre alla R.N. Vedetta, che era stata incaricata di presenziare alle trattative di acquisto, e che contemporaneamente effettuò alcuni rilevamenti idrografici, nel 1871 la Regia corvetta Vettor Pisani toccò Assab durante la sua circumnavigazione del globo.
Poi, solo nel 1877 venne nuovamente inviata in Mar Rosso una nave militare, la cannoniera Scilla,che portava a Zeila una spedizione guidata da Sebastiano Martini Bernardi e Antonio Cecchi, con lo scopo di soccorrere la missione esplorativa Antinori -Landini -Chiarini, bloccata nello Scioà, all’interno dell’Abissinia, da una serie di difficoltà10. L’arrivo di una nave militare “contribuì, a detta di molti, a dare un carattere ufficiale alla spedizione di soccorso e ad intimorire e rabbonire le autorità egiziane che tanto avevano ostacolato la prima spedizione”11.
Il Vettor Pisaniri comparve poi nel 1879, mentre si dirigeva in missione esplorativa verso le coste settentrionali della Somalia, quasi contemporaneamente all’avviso Rapido, che portava nuovamente a Zeila una spedizione verso lo Scioà di Sebastiano Martini Bernardi con Pietro Antonelli e Giuseppe Maria Giulietti. Il suo comandante Carlo De Amezaga fece una breve sosta ad Assab, lasciandone nella sua relazione considerazioni positive come luogo di possibile sviluppo commerciale12. Anche in seguito, dopo una più lunga sosta sul luogo nel 1880, De Amezaga evidenziava i pregi nautici del golfo di Assab per i numerosi canali navigabili, la facilità di approccio dovuta alla presenza di rilievi ben visibili, la protezione da vento e forti mareggiate. Arrivò a lodarne il clima sano, pur ammettendo che da maggio in poi il lavoro allo scoperto doveva fermarsi dalle 11 alle 3 del pomeriggio13.Eppure, no nera certo piacevole l’ancoraggio presso la base di Assab: clima torrido, scarsità di acqua, malattie tropicali. Tanto che quando la R.N. Vettor Pisani vi sostò qualche giorno nel luglio 1871 (cioè nel pieno dell’estate, quando il clima da quelle parti è particolarmente infame) il comandante C.F. Giuseppe Lovera di Maria espresse dubbi sulla possibile utilizzazione della zona per un qualsiasi scopo, né commerciale-agricolo, né come colonia penale.
Eppure, gli avvertimenti del comandante Lovera vennero in seguito trascurati, dato che, dopo lungo dibattito, ma con successiva frettolosità ed approssimazione organizzativa, nel giugno 1898 il piroscafo Raffaele Rubattino vi sbarcò 196 coatti, 27 guardie carcerarie, 60 carabinieri (con l’uniforme usata in Italia! Nell’estate assabese!), nonché tre civili, cioè un medico, un ragioniere e il direttore carcerario Ferdinando Caputo. I poveretti erano destinati a uno dei più tremendi esperimenti penali che l’Italia abbia vissuto, su cui si rimanda al saggio di Marco Lenci14, che ha per primo recuperato e pubblicato la documentazione in proposito. Inadeguatezza degli edifici, clima torrido, disorganizzazione, razioni alimentari ed idriche insufficienti, condizioni igieniche infernali furono i prodromi di un’emergenza sanitaria che di lì a pochi mesi si manifestò con estrema virulenza.
Un’epidemia,orse di febbre tifoide, aggravata da casi di anemia perniciosa e malattie tropicali varie, con esiti spesso letali, richiese il rimpatrio di prigionieri e di personale a gruppi sempre più numerosi, finché una durissima polemica parlamentare pose fine all’unica esperienza di deportazione oltremare mai realizzata dall’Italia, con il rientro, fra gennaio e febbraio 1899, dei sopravvissuti.

Prima con l’ampliarsi dei traffici con l’Asia della Rubattino, poi con il graduale passaggio ufficiale della proprietà dalla Compagnia di Navigazione allo Stato, e la conseguente fondazione ad Assab di una vera e propria base coloniale, nel 1880, e soprattutto dopo la presa di Massaua nel 1885, le crociere di unità militari in Mar Rosso divennero una presenza costante: dalla fine del 1879, gli avvisi Esploratore e Rapido, la già citata corvetta Fieramosca, la goletta Chioggia, la torpediniera Cariddi15 divennero di costante presenza in quelle acque.
Dal 1885 si formò la “Divisione navale del Mar Rosso”, al comando del contrammiraglio Caimi.16 Con la già citata presa di Massaua, la Regia Marina, che tanto aveva concorso a formare l’embrione della nostra “colonia primigenia”, creò subito una base con scopo di controllo ed interdizione nel Mar Rosso, sia contro la tratta degli schiavi e il contrabbando, sia contro le attività di disturbo da parte dalla Marina turca, che controllava la sponda orientale.

Rafforzamento di Assab
Per riprendere quelli che furono gli esordi della partecipazione della Regia Marina alla colonizzazione ed esplorazione, torniamo al dicembre 1879, quando Carlo De Amezaga, stavolta al comando dell’Esploratore, portava ad Assab la spedizione Sapeto-Beccari-Doria, e contemporaneamente scortava il piroscafo Messina della Soc. Rubattino, destinato a trasportare materiali destinati ad impiantare una più solida stazione commerciale.
In realtà, Rubattino agiva sì per curare gli interessi della propria Società, ma anche, riservatamente, per conto del Governo italiano. Anche il nuovo Governo di Benedetto Cairoli, insediatosi nel luglio 1879, perseguiva infatti una politica di estrema cautela per non irritare la Gran Bretagna, tanto che le manovre riguardanti Assab furono condotte all’insaputa dello stesso Parlamento: doveva rimanere segreto l’accordo con la Soc. Rubattino per costituire ad Assab, da tempo abbandonata dopo la spedizione di Sapeto, uno scalo marittimo e cercare di acquistare quei terreni che Sapeto, come ricordiamo, aveva preso in affitto decennale.
Per “proteggere” la spedizione che Rubattino doveva allestire “privatamente” si approntò a Napoli una squadra navale composta da corazzata Varese, goletta Ischia e avviso Garigliano, che dovevano scortare il mercantile Messina.
Ma una fuga di notizie riguardo agli accordi segreti portò la notizia sulla stampa, anche su quella inglese, con conseguente allarme in tutti i presidi britannici sul Mar Rosso. Per tranquillizzare i britannici, si provvide a ridimensionare la squadra navale, richiamando il Garigliano e sostituendo il Varese con l’avviso Esploratore.
Accanto agli operai, anche gli equipaggi dell’Esploratore e della goletta Ischia, giunta nel frattempo17, si dedicarono ad opere di terra, come la costruzione di uno sbarcatoio di 60 metri, uno scalo di alaggio, lo scavo di pozzi, l’installazione di forno e distillatore. Inoltre, si provvide allo sbarco di un picchetto armato di 17 marinai col luogotenente di vascello Martini, per proteggere la stazione che si stava impiantando. Si trattò, in sostanza, della prima operazione di sbarco, benché limitatissima, della Regia Marina a protezione dei suoi sudditi in terre lontane. Inoltre, Sapeto conduceva l’acquisto definitivo dei terreni da lui precedentemente affittati con contratto decennale, e veniva affittata con locazione decennale un’ulteriore isola, quella di Darmakiè.
Intanto, la squadra condusse in quei mesi varie crociere tra le coste arabiche ed africane per “mostrare bandiera” ed effettuare rilievi idrografici.

La cosa non poteva far piacere agli inglesi; come ricorda De Amezaga nel suo “Assab”, “Daquel giorno le navi militari inglesi di stazione in Aden si diedero un gran moto; perlustrarono per ogni verso il litorale dankali ed adale, vi seminarono emissari somali, più inglesi degli inglesi stessi nei loro rapporti con gli indigeni, ed apparvero mensilmente a Buja”18. Il clima si veniva facendo pesante: i sultani locali temevano un’invasione egiziana fomentata dalla Gran Bretagna; gli operai arabi assunti per i lavori di Assab vennero minacciati di morte. Venne raddoppiata la vigilanza a terra.
Dopo alcuni fatti ritenuti provocatori (arrivo di quattro militari egiziani con la “scusa” di arrestare dei disertori; tentativi di razzia da parte di indigeni dancali…) De Amezaga instaura in zona la legge marziale (contrariamente a quanto ordinato dal prudente Capo del Governo Cairoli, che si era raccomandato di non manifestare alcuna apparenza di sovranità nazionale sulla zona). Nei suoi ricordi, il comandante afferma, acrobaticamente, che il territorio, data la pericolosità degli indigeni che lo circondavano, poteva paragonarsi a un tratto di costa inospitale in cui si stesse conducendo un salvataggio marittimo, e che la stazione di Assab potesse essere equivalente a un prolungamento della nave da guerra ancorata. Di conseguenza, nessun indigeno poteva avvicinarsi alla caserma del picchetto a meno di 30 passi, salvo ovviamente espresso ordine dell’autorità militare.

Continuano intanto, quando possibile, le attività di perlustrazione e rilevamento delle coste. In maggio, anche per pressione di De Amezaga, venne acquistata la strategica isola di Sennabor,alla quale pareva fossero interessati gli Inglesi, dato che dominava l’ingresso nord della baia e da lì sarebbe stato facile impedire a cannonate l’accesso al porto.
A questa si aggiunse un tratto di costa a nord, che estendeva sensibilmente l’insediamento: erano ormai 700 km2 su 60 km di costa. È da notare come nelle relazioni dei comandanti delle unità si trovi abbondanza di dettagli su flora, fauna, caratteristiche degli indigeni, nomi delle tribù e dei loro capi, aspetto del paesaggio, percorsi attuabili via terra, cioè di tutti quegli aspetti che avevano non solo rilevanza dal punto di vista militare, ma anche scientifico-antropologico.
Nel dicembre 1880 partiva l’Ischia, sostituito dalla goletta Chioggia, e nel luglio 1880 anche l’Esploratore rientrava in patria e veniva sostituito dall’Ettore Fieramosca, che già aveva praticato quelle zone, stavolta al comando del CF Galeazzo Frigerio. Continuarono le opere di sistemazione attuate dagli equipaggi, come la costruzione di un porticciolo con relativa scogliera di protezione e di una casa per il futuro Commissario civile che si progettava ormai di stabilire in zona, oltre ovviamente ai necessari, continui rilievi idrografici (chi conosce quella zone, sa come si tratti di fondali estremamente insidiosi). Inoltre, il Fieramosca stava preparando parte dell’equipaggio a una spedizione verso l’interno organizzata da Giuseppe Maria Giulietti, destinata, come vedremo, a tragica sorte.

L’appoggio della Regia Marina a Giuseppe Maria Giulietti
Giuseppe Maria Giulietti (1847-1881) non era al suo primo incontro con l’Africa. Grande amico dell’esploratore Giacomo Doria, era stato da lui proposto per la partecipazione alla spedizione che nel 1879, come abbiamo visto, venne allestita da Sebastiano Martini Bernardi per soccorrere Antinori nello Scioà. Arrivato ad Assab con il Rapido nel giugno 1979, dimostra subito nei suoi appunti19l’entusiasmo per avere finalmente coronato il suo sogno di incontro con le coste del Mar Rosso, tanto da dichiarare che, se non fosse stato praticamente costretto da “impegni morali” a partecipare al viaggio nello Scioà, avrebbe voluto fermarsi ad Assab per occuparsi della questione della sovranità sulla zona (su cui ancora l’Egitto manifestava pretese). In effetti, questa sua scarsa motivazione alla partecipazione al viaggio di Martini Bernardi, che oltretutto lui accusava di eccessiva cautela, fu forse una delle cause che lo portò prima a staccarsi, insieme ad Antonelli, dal grosso della spedizione (mal gliene incolse: derubati dai Dancali, dovettero rientrare scornati al campo di Martini Bernardi); poi a tornare da solo sulla costa somala.
Da lì, partendo da Zeila, il 23 ottobre 1879 si inoltrò, con un solo uomo di scorta e tre muli, verso Harar, che raggiunse a tempo di record, in soli otto giorni, per poi rientrare a Zeila a fine gennaio 1880. Lì ricevette la lettera che Rubattino gli aveva inviato in novembre 1879 da Genova: gli veniva comunicato che il Governo italiano stava allestendo una piccola spedizione navale (quella dell’Esploratore e dell’Ischia) verso Assab, e Rubattino, saputo dal comandante De Amezaga della passione di Giulietti per la “questione Assab”, gli proponeva di diventare il suo uomo di fiducia, supervisore degli interessi della Società sul posto. Naturalmente, Giulietti accetta con entusiasmo e manifesto spirito combattivo: “[…] Quando penso che la bandiera Italiana è stata vilipesa in terra Italiana da questi cani vilissimi di indigeni (allude alla distruzione della casa di Sapeto ad opera di soldati egiziani, ma probabilmente anche da locali che, vedendone l’abbandono, ne utilizzarono il materiale per costruire le proprie capanne) mi sento rivoltare l’ animo indignato e vorrei che si facesse vedere una volta per sempre a costoro ed ai loro egoistici protettori, chi siamo, cosa possiamo e cosa vogliamo. Dubito fortemente delle perplessità inescusabili dei nostri governanti e non approvo nient’affatto il modo poco dignitoso con cui si intende prendere possesso di Assab che abbiamo pagato a buoni denari contanti. Pongo un dilemma: se i Francesi occupassero Obok20 che direbbero le altre nazioni e gli Inglesi soprattutto? Niente… e lascerebbero fare perché la Francia può mostrar i denti quando vuole. E noi non abbiamo soldati, non abbiamo navi, non abbiamo uomini (non parlo di quelli che alle volte si trovano alla testa) per far valere i nostri diritti? […]”21.


(coll. Domenico Jacono)
Nel suo impeto, Giulietti non sembra avere alcuna perplessità sull’opportunità di un insediamento stabile ad Assab, a differenza di quanto annotato sia dal comandante Lovera del Vettor Pisani nel 1871, sia poco dopo, da Odoardo Beccari, collaboratore di Giuseppe Sapeto e Giacomo Doria nella spedizione 1879-1880, e dal TV Raffaele Volpe comandante dell’Ischia.Si affretta quindi a raggiungere la località, e probabilmente resta soddisfatto dell’atteggiamento assunto dal comandante De Amezaga, che aveva instaurato la legge marziale. Partecipa alle trattative di Sapeto per il perfezionamento dell’acquisto della baia, ed effettua alcune perlustrazioni nei dintorni, con la scorta di quindici marinai, al comando del GM Ambrogio Colombo.

Rientra in Italia nel 1880 per un rapido incontro con la famiglia (vedovo, aveva un figlio piccolo) e per organizzare il suo rientro in Africa con la qualifica di Segretario del Commissariato di Assab. Il mattino del 9 gennaio 1881 sbarca ad Assab dal Fieramosca,insieme al Commissario governativo, Giovanni Branchi. Dopo poche ore, la bandiera italiana venne inalberata ufficialmente, sancendo l’acquisizione di Assab come colonia italiana.
Una colonia senza un minimo di comunicazioni con l’entroterra non ha futuro: compito di Giulietti è anche quello di aprire una via verso l’interno, dove, come abbiamo visto, da tempo l’Italia stava cercando di impiantare zone di studio e contatti con i popoli dello Scioà. In questo ha l’appoggio sia del Governo che della Società Geografica Italiana. Si cercano difficoltosi contatti con il sultano dell’Aussa, tramite i sultani della costa, perché garantisca il felice passaggio degli italiani e per ottenere rifornimenti “in itinere”.
I sultani traccheggiano, cercano scuse, non si presentano agli incontri;hanno evidentemente una serie di buone scuse per non gradire il passaggio di europei attraverso l’interno:dal timore di vendette per la strage della precedente spedizione Munzinger22, al timore che venisse bloccato il fiorente traffico di schiavi. Sono esattamente le stesse ragioni che in seguito per decenni bloccarono o resero difficoltoso il passaggio di altre spedizioni, come quella di Raimondo Franchetti.
L’impaziente ed irruente Giulietti fatica ad accettare queste continue dilazioni, finché decide di cambiare completamente il proprio itinerario, nella speranza di trovare un più facile passaggio attraverso il Birù, anziché attraverso l’Aussa, raggiungendo quindi il Tigrai anziché lo Scioà. Era un azzardo, data l’improvvisazione di questa variante.
Se avesse aspettato… chissà. Se avesse pazientato qualche mese, avrebbe potuto godere delle garanzie che il Negus dello Scioà Menelik, in cambio di 2000 fucili Remington (in parte poi utilizzati contro gli italiani durante la battaglia di Adua) firmava il 27 marzo 1881 con Antonelli e Antinori: nel maggio di quell’anno, Menelik ordinava al sultano dell’Aussa di lasciar passare le carovane dirette da Assab allo Scioà. Ma era troppo tardi: Giulietti era partito da Assab l’11 aprile 1881.Con lui, erano dieci marinai del Fieramosca, comandati dal sottotenente di vascello Giuseppe Biglieri, di Valenza23. Erano:
Sottocapo cannoniere Giardini Nunzio di Cefalù;cannonieri: Riccio Vincenzo di Napoli, Todaro Francesco di Licata, Muro Giacomo di Procida, Buono Nicola di Barano d’Ischia, Foti Francesco di Milazzo, Stagnaro Bartolomeo di Sestri Levante, Catanzaro Ignazio di Sciacca; marinai di 3a Zuccone Giuseppe di Oneglia, Garazzino Giuseppe di Rollo (Albenga).
Partecipavano alla missione i due civili italiani Risso Emanuele di Genova (carpentiere dell’Esploratore) e Pisani Giuseppe (sellaio) di Casteggio (quindi compaesano di Giulietti); e tre civili africani di cui si conoscono solo i nomi di Francesco Maria Said, interprete sudanese e di un certo Almasch24, abissino. Raggiunta Beilul, sulla costa, vennero riforniti di viveri dal Fieramosca. Il 1° maggio Giulietti inviò all’amico Giacomo Doria l’ultima sua lettera: “Il Sottotenente Sig. Biglieri e i dieci marinai dell’Ettore Fieramosca che ho per compagni, si mostrano animati di tutto il buon volere possibile. A loro si è aggiunto un volontario, certo Risso, genovese, già caporale,mastro falegname a bordo dell’Esploratore, che mi è di una utilità indiscutibile; ho pure con me un sellaio mio compaesano, l’interprete Francesco e due abissini da me già conosciuti a Zeila ed all’Harrar, ed arruolati ad Aden; in tutti, 17 persone bene intenzionate, armate di Vetterli e di revolvers eccellenti. Non molto per incutere timore a gente che ha massacrato Munzinger e qualche centinaio di Egiziani, ma basta per farsi rispettare, usando un po’ di prudenza, e non abusando della propria forza” 25.
Una quindicina di Vetterli, nonostante i “revolvers eccellenti” erano un po’ poco per “farsi rispettare”. Tanto più che i dancali, popolazione notoriamente bellicosa ed insofferente dell’arrivo di europei e di cristiani, avrebbero facilmente ritenuto una provocazione il passaggio di un gruppo armato nelle loro terre. E se non avevano esitato ad attaccare e massacrare la spedizione Munzinger, forte di diverse centinaia di uomini ed armata addirittura con cannoni, quei pochi fucili non erano certo una difesa. La frase conclusiva di Giulietti, “non abusando della propria forza”, suona quindi incosciente.

Il 2 maggio 1881 la piccola spedizione partì verso l’interno, con l’intento di rientrare dopo un mese circa26, ma non tornò più.Il comandante Frigerio così riferisce al Ministero delle confuse notizie pervenutegli: “ […] sugli avvenimenti posteriori sonvi due versioni principali, che entrambe riferirò a V.E. Le informazioni avute a Beilul dicono che giunti a Gebel Uema, a quattro giorni circa dalla costa, ebbero un diverbio collo sceik del luogo […] per un cammello rubato, che questo sceik sarebbe stato legato, e dicono anche frustato; che dopo questo cammello sia stato reso e lo sceik liberato con qualche dono; ma egli per vendicarsi radunasse le tribù vicine e in luogo chiamato Maskaa, a sei giorni circa dalla costa, sorprendesse prima dell’alba del 25 maggio l’accampamento, trucidando tutti ed impadronendosi di tutte le cose. Soggiungono ancora che la sentinella diede l’allarme ed uccise il primo chele fu a portata, ma che gl’indigeni si precipitarono dapprima sul luogo dove erano le carabine, e che i nostri poterono appena difendersi con qualche revolver […] Si dice pure che uno della spedizione riuscì a fuggire, e parrebbe fosse l’interprete sudanese, ma che fu inseguito e che fu ucciso due giorni dopo mentre stava per morire di sete. […] Gli ankali, i nostri vicini in Assab, raccontano le cose un po’ diversamente: essi sono però nemici acerrimi di quelli di Beilul, per cui possono essere condotti ad aggravar le cose a danno di questi ultimi. Essi dicono che il fatto del cammello non ha relazione alcuna col massacro; che diversi danari27 nomadi seguirono la spedizione sin dalla partenza da Beilul con propositi funesti, che andavano man mano radunando le diverse tribù spargendo la voce che la spedizione avesse un carico di oro e di oggetti preziosi, onde eccitarle alla rapina: che diedero una guida alla spedizione, che servì per agevolare i loro funesti propositi; che il sito dell’eccidi non è Maskaa, ma Daddatu a poca distanza dal precedente, a un giorno di cammino dalla frontiera galla, a dodici giorni dalla costa […] ”
Frigerio si premura di raccogliere informazioni anche sulle tribù che possono aver partecipato all’eccidio, e tra queste specifica: “Gli aisantu sono pure tribù interna: hanno per capo Ibn Han, sceik di Beiru. Questi sembra abbia la maggiore responsabilità dell’atroce fatto, e pare che la guida che tradì la spedizione fosse uno dei suoi figli, il quale rimase poi ferito”. Secondo un’altra versione, invece28, la strage sarebbe stata voluta dallo sceicco Mohammed Akito dell’Aussa, per ritorsione contro un supposto atteggiamento protervo degli italiani a Beilul, e per derubarli… e ce ne furono altre, ognuna delle quali in parte confermava, in parte contraddiceva una delle precedenti. In Italia la reazione fu immediata e spesso rabbiosa: molti, tra cui lo stesso comandante Frigerio e il Commissario Branchi, chiesero un intervento armato. Il principe Tommaso di Savoia, in quel momento nel Mar Rosso sul Vettor Pisani, propose di attuare una rappresaglia. Numerose le interrogazioni parlamentari. Ma essendo Beilul sotto sovranità egiziana, il nuovo governo Depretis, insediatosi proprio alla fine di maggio 1881, chiese che fosse l’Egitto ad effettuare un’inchiesta e ad agire di conseguenza (e la cosa non passò sotto silenzio da parte dell’opposizione).
Ma la commissione che l’Egitto, su pressione dell’Inghilterra, accettò di incaricare, e di cui faceva parte un solo italiano, lo stesso C.te Frigerio, concluse che i fatti erano da attribuire ai dancali dell’interno, non a quelli di Beilul, e che quindi non c’era su quelle zone giurisdizione egiziana. Il comandante Frigerio del Fieramosca protestò energicamente sia contro queste conclusioni, sia contro l’atteggiamento fazioso della commissione stessa.In un suo rapporto al governatore egiziano del Mar Rosso, il governatore di Massaua Raouchdi Pascià, capo della commissione, sosteneva che comunque l’eccidio era dovuto all’atteggiamento provocatorio della spedizione.29
Il ministro degli Esteri Mancini in una “nota confidenziale” parlava di “[…]inchiesta egiziana, iniziata in forma non regolare, affidata a elementi non tutti scevri da ogni dubbio di parzialità, munita di istruzioni deficenti e non adeguate alle circostanze, condotta con procedimento essenzialmente difettoso ed imperfetto[…]”30
Ce n’era più che a sufficienza per pretendere una seconda inchiesta. Nel frattempo, sul Mar Rosso la situazione si stava scaldando fin quasi al limite di rottura.
Dato che l’Egitto proprio in quei giorni rivendicava il possesso di Raheita31, nonostante una precedente convenzione stabilita tra il sultano locale e Sapeto, l’Ettore Fieramosca di Frigerio, con l’appoggio del Rapido, di propria iniziativa raggiunse Beilul e vi impedì lo sbarco di truppe egiziane, minacciando l’uso dei cannoni. Nonostante le proteste turche ed egiziane, il ministro Mancini appoggiò l’operato di Frigerio. La seconda inchiesta si concluse nel maggio 1882, con l’arresto dello sceicco di Beilul, del figlio e due dancali.
Nella primavera 1884 si aprì il processo al Cairo, con un Tribunale Speciale32 ma un imputato, Mohamed Akito, era già morto di colera in prigione. Altri accusati erano Sceik Saad e un certo Kalina. Entrambi furono assolti, avendo riversato ogni responsabilità su chi era morto33. Neanche sulla determinazione del luogo esatto dove si era svolto l’eccidio si riuscì a concludere qualcosa.

(Illustrazione Italiana 13/1/1884)
Solo decenni dopo, nel 1929, la spedizione che il barone Raimondo Franchetti condusse attraverso la Dancalia, da Beilul fino a Macallè, e poi indietro seguendo un diverso itinerario, risolse il mistero. Durante il percorso di rientro Franchetti, uno dei cui scopi era appunto la ricerca del luogo del massacro, riuscì a rintracciare un dancalo, Ibrahim, che conosceva bene il luogo. Costui, dietro forte compenso e con l’impegno di mantenere il segreto sulle sue rivelazioni, diede preziose indicazioni. In località Egreri, il 23 maggio 1929, vennero individuate due cumuli di pietre (come tuttora usano i dancali per le sepolture, che non prevedono scavo, ma piramidi di sassi).
Ricorda Franchetti34: “ Spiegate agli ascari le ragioni del disseppellimento, ho fatto iniziare la demolizione della prima tomba, e quasi subito dopo, con profonda commozione, le ossa di quei quattordici italiani hanno riveduto dopo quarant’anni la luce […] La maggior parte di queste ossa sono state calcinate dal tempo e quasi tutte polverizzate. […] Solo i denti sono conservati molto bene; alcuni di essi, bei denti intatti di giovani sani. Ne troviamo uno impiombato. Abbiamo lavorato tutta la mattinata a cercare nella prima tomba per raccogliere non più di sei o sette manate di ossa. Nessun oggetto è stato trovato, perché le povere vittime furono spogliate di tutto. Né diverso risultato ha dato l’escavazione della seconda tomba, effettuato nel pomeriggio”35.

(da R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit.)
Allo scavo assistono, con evidenti segni di ostilità, alcuni dancali. Il giorno dopo, la guida Ibrahim, colpevole di aver aiutato a rivelare il segreto del luogo, viene trovata uccisa. Il 24 maggio, in una data che per molti italiani è ricca di ricordi e di simboli, sul luogo del ritrovamento viene inciso rozzamente un masso:
Qui
Perì la spedizione Giulietti e Biglieri
14 italiani furono barbaramente trucidati
Cristiani scopritevi
Mussulmani fermatevi e salutate
Spedizione Franchetti 24.5.1929


Vengono presentate le armi e le poche ossa raccolte vengono con cautela protette con un drappo di cotone e poi inserite in una cassetta avvolta nel tricolore, che verrà riportata in Italia, dove verrà tumulata a Casteggio, luogo di origine di Giulietti, il 24 novembre 1929.
NOTE
1 Di questo viaggio resta la monumentale opera di Enrico Hyller Giglioli Viaggio intorno al globo della regia pirocorvetta italiana Magenta negli anni 1865-66-67-68 : Relazione descrittiva e scientifica, Milano, Maisner, 1875, e quella di Vittorio Arminjon, Il Giappone e il viaggio della corvetta Magenta nel 1866 , Genova : co’ tipi del R. I. dei sordo-muti, 1869. Per più recente bibliografia specifica, v. Enrico Hillyer, Giappone perduto: viaggio di un italiano nell’ultimo Giappone feudale, Milano, Luni editrice, 2009 e Francesco Ammannati, Silvio Calzolari, Un viaggio ai confini del mondo, 1865-1868 : la crociera della pirocorvetta Magenta dai documenti dell’Istituto geografico militare di Firenze, Sansoni, 1985
2 Sull’argomento, v. Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento : Atti del convegno internazionale organizzato dal Dipartimento dell’Università di Sassari e dal Parco nazionale dell’Asinara (Porto Torres, 25 maggio 2001), a cura di Mario Da Passano; introduzione di Guido Neppi Modona, Roma, Carocci, 2004. Com’è noto, la realtà delle colonie penali fu lontanissima dalle intenzioni dei “filantropi”.
3 Eppure, dal 1867 proprio la Gran Bretagna abbandonò la pratica della deportazione, proprio nel periodo in cui gli altri Stati europei cominciavano ad applicarla.
4 Dimensioni: lunghezza p.p. 58 m., larghezza 11,4 m., immersione 4,1 m.; dislocamento pieno carico 1452 tonn. L’ apparato propulsivo era costituito da due alberi a vele quadre e da bompresso, più due caldaie per una motrice alternativa della potenza di 300 CV, che azionavano due ruote a pale. Originariamente, la pirofregata era armata con un cannone da 117 libbre, uno da 60 libbre, 4 obici da 30 libbre e 4 cannoni da sbarco in bronzo da 12 libbre, tutti a canna liscia. Nel 1861 sostituì l’armamento con 4 cannoni da 160 libbre, 2 cannoni da 160 libbre a canna rigata, 2 cannoni da 8 libbre in bronzo su affusto, e venne classificata come corvetta a ruote di 2° rango. Posta in disarmo nel 1883, anche dopo la radiazione continuò ad essere utilizzata come scuola mozzi e specialisti presso l’Arsenale di Napoli. (v. Antonio Cimmino, La pirofregata di II° rango a ruote Ettore Fieramosca dall’ Armata di Mare alla Regia Marina, in http://www.marinai.it/navi/navstab/fmosca.pdf)
5 V. A. Cimmino, cit. La grafia Harry Zammith è una delle più divulgate; altre fonti riportano Zannith, o Zenit, o, secondo recenti studi, Enrico Zammit.
6 Spesso le fonti, particolarmente quelle sul web, ascrivono questa missione al 1867, ma si preferisce accreditare la data indicata da L. Ferrando -O. Po, L’ opera della Regia Marina in Eritrea e Somalia (dall’occupazione al 1928), Roma, Ufficio Storico Regia Marina, 1929 ( a cui si farà d’ora in poi spesso riferimento per ricostruire la storia del Fieramosca), che con precisione indica l’arrivo di Bertelli a Massaua il 15 marzo 1868 e, dopo l’esplorazione delle isole Dahlak, la sua partenza dalla città il 2 aprile, con arrivo a Suez il 14 dello stesso mese. Tali fonti, peraltro, attribuiscono l’esplorazione delle Dahlak come compiuto dal Fieramosca, cosa evidentemente impossibile: a parte la mancanza, all’epoca, di convenienti rilievi idrografici
che permettessero all’unità di zigzagare tra l’ insidiosissimo arcipelago, è ovvio che, dato che il Canale di Suez venne aperto solo nel 1870, la nave avrebbe dovuto compiere un lunghissimo e poco conveniente periplo dell’Africa per giungere in zona, mentre un’ imbarcazione locale agile e di pochissimo pescaggio poteva molto meglio assolvere al compito, con ovvio risparmio di tempo e di costi.
7 Giuseppe Sapeto (1811-1895), lazzarista di San Vincenzo de’ Paoli, dopo una missione in Libano, compì un lungo viaggio da Massaua ad Adua e Gondar nel 1838. Appassionatosi di queste regioni, compì esplorazioni in zone ancora inesplorate, e guidò un’ambasceria di Napoleone III presso il negus. Abbandonato l’abito talare, divenne professore di arabo. Fu uno dei maggiori sostenitori della necessità di penetrazione italiana nel Mar Rosso. Per una prima introduzione alla figura di Giuseppe Sapeto e alle complesse trattative per la fondazione di una base ad Assab, v. il saggio, con numerosi riferimenti bibliografici, di Massimo Romandini su https://www.ilcornodafrica.it/st-assab.htm
8 V. MINISTERO AFFARI ESTERI, Trattati, convenzioni, accordi, protocolli ed altri documenti relativi all’Africa, vol. I, Roma 1906; Massimo Romandini, L’acquisto di Assab, l’esordio del colonialismo italiano, 2005, L’acquisto di Assab, l’esordio del colonialismo italiano
9 Equivalenti, secondo le tabelle annuali di riconversione monetaria, in poco più di 450.000 euro attuali. La strana cifra “spezzata” q probabilmente dovuta al fatto che non venne accettato il pagamento in sterline proposto, ma solo in talleri argentei di Maria Teresa d’Austria, fino a tempi recenti moneta di transazione nel Corno d’ Africa (v. Nicki di Paolo in https://www.ilcornodafrica.it/sc-tall.htm), tanto che si dovette procedere a un ulteriore cambio di valuta.
10 “Il 19 giugno, dopo una permanenza sia ad Aden sia a Zeila e dopo aver subito intoppi, ruberie e problemi con il personale indigeno, la carovana si mette in cammino con meta lo Scioa, con l’intenzione di impiantarvi una stazione geografica e progettare da lì altre spedizioni con scopi scientifici e commerciali. Abu Beker, emiro di Zeila e trafficante di schiavi, ostacola e taglieggia in tutti i modi gli esploratori che rischiano anche di essere uccisi dai servi dancali, Antinori è costretto a rinviare a Roma il Martini Bernardi per avere dell’altro materiale e denaro, mentre il resto della carovana continua faticosamente ad avanzare fino a raggiungere il 28 agosto Liccè, sede di Menelik re dello Scioa” v. Manlio Bonati, Antinori Orazio (1811-1882) in http://www.avibushistoriae.com/Antinori%20O.razio.htm
11 V. Luca Lupi, Dancalia: l’esplorazione dell’Afar, un’avventura italiana, Firenze, Istituto Geografico Militare, 2008, vol.I°, p. 391
12 V. O- Po – L. Ferrando, cit. p. 11- 39.
13 Carlo De Amezaga, Assab, Bollettino della Società Geografica Italiana, ottobre 1880.
14 V. Marco Lenci, All’inferno e ritorno: storie di deportati fra Italia ed Eritrea in epoca coloniale, Pisa, BFS, 2004.
15 Gabriele Mariano, La Marina militare, le penetrazioni geografiche e l’esplorazione coloniale, in “Fonti e problemi della politica coloniale italiana”, Atti del convegno Taormina-Messina 23-29 ottobre 1989, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1996.
16 Secondo il già citato G. Mariano, la divisione comprendeva: la corazzata Castelfidardo, l’incrociatore Vespucci, la corvetta Garibaldi, gli avvisi Esploratore, Barbarigo, Messaggero e Vedetta, la fregata Ancona, la corvetta Vettor Pisani, il piroscafo Conte di Cavour e sei torpediniere. Come si dirà, fu il Castelfidardo a sbarcare a Beilul i marinai, che si impadronirono dell’abitato come rappresaglia per l’eccidio d.ei marinai del Fieramosca.
17 il 10 gennaio 1880, al comando del TV Raffaele Volpe; era partita contemporaneamente, ma, più piccola e in maggiori difficoltà per le condizioni del mare, aveva avuto problemi e rallentamenti.
18 Bollettino della Società geografica italiana, ottobre 1880
19 V. L. Lupi, cit. p. 402
20 Cosa che poi effettivamente fecero nel 1884
21 Lettera riportata in L. Lupi, cit., p. 408
22 Lo svizzero Werner Munzinger (1832-1875) aveva compiuto numerosi viaggi nell’interno dell’Eritrea, spingendosi fino al Kordofan nel Sudan. Venne trucidato dai Dancali (ovvero Afar) con tutti i suoi uomini durante una di queste spedizioni. E’ da ricordare che la vendetta faceva parte del “codice comportamentale” degli Afar, che quindi, applicando anche agli europei i loro valori, ritenevano perfettamente logico e legittimo che dei bianchi volessero vendicare altri bianchi.
23 A Biglieri venne in seguito intestata una vedetta dragamine, ex peschereccio d’alto mare Merluzzo, poi acquisito dalla Regia Marina nei primissimi anni Trenta e ribattezzato Giuseppe Biglieri; partecipò come unità di supporto per la crociera aerea del decennale. Autoaffondata nel porto di Massaua nel 1941, venne recuperata nel ’42 e ribattezzata HMS Biglieri dalla Royal Navy.
24 Quest’ultimo nome è qui riportato per la prima volta nella pubblicistica relativa alla spedizione Giulietti. Lo si trova nell’elenco stilato dal R. Commissario di Assab nella comunicazione inviata al Ministro degli Affari Esteri il 14 giugno 1881, e riportata in O. Po-L.Ferrando, cit., in Appendice A, p. 930.
25 V. Aldo Marchese, G.M. Giulietti, Italica, Milano, 1938, pp. 196-197.
26 Come da relazione del comandante Frigerio, riportata in Ferrando – Po, cit. pagg. 60 e segg.
27 Si allude evidentemente, come per gli ankali e gli aisantu, a genti locali.
28 V. L. Lupi, cit. p. 475-476 e A. Marchese, cit., pp. 199-202
29 V. A. Marchese, cit., p. 208
30 V. L. Lupi, cit. p. 479
31 Al confine tra Eritrea e Gibuti, è una posizione chiave per il controllo dei movimenti nel Mar Rosso
32 V. F. Bonola, in L’ Illustrazione italiana, 13/1/1884
33 V. A. Marchese, cit., p. 208. Secondo L. Lupi, cit. p. 481, erano due gli indiziati già morti, e degli altri due uno fu assolto, l’altro sparì subito dopo la condanna.
34 Raimondo Franchetti, Nella Dancàlia etiopica, Mondadori, 1935 (I^ ed. 1930) p. 408; v. anche Valeria Isacchini, Il 10° parallelo: vita di Raimondo Franchetti da Salgari alla guerra d’ Africa, Reggio Emilia, Aliberti, 2005
35 R. Franchetti, cit., pp. 408-409.
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