Giuseppe Pastacaldi, il nonno diplomatico ed esploratore dell’autrice, è lo spunto per un viaggio nell’Africa di fine Ottocento. Verso l’Etiopia, una terra antica, misteriosa e selvaggia, all’epoca del-le colonie meta di viaggiatori, politici, trafficanti ed esploratori. Dopo un duello che si conclude con la morte di un compagno di studi, Giuseppe si imbarca su una nave e fugge da Livorno per raggiungere Aden e poi la città sacra di Harar, nel cuore dell’Etiopia. Un viaggio a rischio della vita lungo le antiche carovaniere e la rotta degli schiavi, alla scoperta delle meraviglie del mondo, verso l’esotismo dell’anima e dei sensi fino all’incontro con la giovane oromo di nome Khadija, essenza della negritudine e della sensualità dell’Africa.
Giornalista e scrittrice, Paola Pastacaldi è nata a Treviso (ma la nonna paterna è di Harar), lavora a Milano. Ha pubblicato con Bruno Rossi, “Hitler è buono, storia dei bambini dal 1930 al 1990” (Longanesi, 1992), il volume di racconti fantastici e surreali “C’era tutt’altra volta” (Guanda, 1995) e “Vorrei essere trasmesso. Cosa pensano i bambini della televisione” (Salani, 1999).
Le storiche immagini del romanzo
La storia di “Khadija” è stata costruita su fonti storiche di fine Ottocento, oltre ai diari e agli articoli, anche le foto degli esploratori. Le foto che seguono rappresentano una sorta di percorso immaginario dentro il romanzo e fanno vedere la città e la popolazione di Harar (Archivio della Società Geografica di Roma e Museo di Harar). Le foto a colori fanno invece vedere Harar in tempi recenti (di Paola Pastacaldi). Le didascalie sono riprese dal romanzo.
Le due foto dell’esploratore di Pavia Luigi Robecchi Brichetti sono tratte dal volume di Giovanni Zaffignani, “Luigi Robecchi Bricchetti viaggiatore pavese in Africa ed agente segreto suo malgrado”, Pavia economica, 1990.La foto del negus è tratta da: Angelo del Boca, Il Negus, vita e morte del Re dei Re, Laterza, 1995
Ero prigioniero di quella gente. Il tempo non aveva più un inizio o una fine. Fui incatenato a quella gente e fui preso da afasia e non volli più ricordare nulla del mio passato. Mi porgevano la loro innocenza facendo rinasce in me il senso della meraviglia
Fu un via vai animato di donne ragazzi e cammelli e asini e pecore che turbinavano affrettati e disordinati. Le donne si distinguevano per i profili ben disegnati, gli occhi grandi, le bocche caucasiche. Brune e leggiadre somale, giovinette formose e procaci avvolte in mantelli, vecchie flaccide e avvizzite curve sotto carichi di legna che le sovrastavano.
Le donne mi guardavano sollevando appena lo sguardo. Avevano visi tondi e occhi nei quali la rassegnazione femminile apriva porte indomite alla bellezza dello scoprirsi. E della loro estrema povertà non vidi nulla perché la bellezza dell’anima loro e di quei corpi non segnati, se non da vicende aspre e naturali, vi splendeva sopra come potrebbe fare un drappo di seta su un oggetto sberciato dal tempo.
Quelle donne furono il sigillo alla mia attesa. Erano lontane da Ottavia e dal suo rapido agire, erano lontane dalla dolcezza trattenuta e sapiente di Vittoria.
Dominava in ras Makonnen una morbidezza arrendevole che conquistava. Una stretta e alta cintura gli segnava la vita in modo cerimonioso e insieme sosteneva una pelle di leopardo, mentre in una mano teneva stretto un fucile.
“E’ il nostro poeta, è abile e coraggioso. Fa il mercante e l’esploratore. Ha appena condotto una carovana di schiavi per Menelik dallo Scioa fino alla costa”. Aveva uno sguardo inquieto dominato da una curiosità sfregiata dalla diffidenza, perchè sapeva che a ogni passo qualcuno avrebbe potuto togliergli la vita.
Con lei, donna della terra nei colori e nell’animo, non avrei potuto mentire. Mi istigava alla parte più alta di me in un periglioso sortire da me stesso.
Bambini si sedettero armati di ossa di bue su cui andavano scrivendo geroglifici.
Il corpo della schiava di un pallore magico che ipnotizzava era inerme, segnato solo dal nero dei capelli foltissimo, trattenuti in alto da una fascia intrecciata e da una collana al collo che la cingeva e altro non era che una corda che la imprigionava al commerciante.
Un tremulo clangore smosse la nostra conversazione. Un mehlat, una tromba lunga come una tuba egizia, spandeva la sua sonorità guerresca trattenuta in alto dalle braccia di uno sciancato.
Con gesti densi di teatralità sapiente, da sotto le pieghe del mantello, estrasse un libro. Carico di fogli. Anch’io allungai la mano timoroso di spezzare quel filo che ci univa. Presi il piccolo libro tra le mani e lo aprii. “Venire sino a qui è stata una follia. Se dovessi rifarlo, porterei con me non meno di duecento fucili. Scrivo queste righe convinto che nessun uomo bianco avrà mai modo di leggerle”.
Fanciulli dagli occhi neri spargevano d’intorno la fragranza del loro entrare nel mondo senza nulla sapere.
La mia fantesca in un angolo aveva smarrito i suoi occhi nel nero arrossato dai fuochi. Di giorno carica della ghirba ondeggiava coperta dal mantello. Le anche rotonde e piene di voluttuose morbidezze. La pelle di velluto e i suoi sguardi abbatterono in me ogni resistenza. Mi immersero in un pozzo di pia-cere. Fu allora che si alzò e mi passò alle spalle, lentamente. Sentii il profumo dei suoi oli resinosi. Fui assalito da un furioso desiderio cui non ero avvezzo.
Ero imbarcato su quella nave, al seguito di una spedizione, da studente modello ad assassino del mio migliore amico, preda di nuove emozioni. Il ricordo di Pisa e di Livorno e della casa paterna si dissolveva per lasciare posto ad un altro paese. Nel silenzio che solo i luoghi vuoti dall’eccitazione umana sanno sprigionare fantasticavo di foreste e fiumi e di cuori selvaggi. Il protagonista, Giuseppe Pastacaldi (Livorno 1860 – Harar 1920)
La passione irrefrenabile per la carne cruda era causa di vermi per Menelik, per la regina Taitù e tutta la corte. Le cure continue di kusso, la radice medicinale di un albero che faceva le veci di un potente vermifugo, non bastavano a sanarli. Durante i festeggiamenti le tende del ghebì e i muri del palazzo imperiale esalavano un odore disgustante. L’imperatore d’Etiopia Menelik (1844-1913)
Su quegli omeri minuti la natura aveva sbozzato una testa eccessiva, vicina ad essere mostruosa e orecchie troppo grandi che, se non fosse stato per il potere che sprigionava il volto, lo avrebbero pietosamente segnato come uno storpio. Il negus Hailè Selassiè (1892-1975) bambino
Il viaggiatore Luigi Robecchi Brichetti (Pavia 1855 – 1926), autore del volume “Nell’ Harar” (1896), con una schiava neo liberata, che nella mano destra stringe il suo atto di liberazione
Appena alzato mi infilai nei vicoli come se avessi imboccato una strada nel cielo o avessi dato vela ad un sambuco nel golfo. I piedi cavalcavano la terra con leggerezza, marciavano agili sui gradini imbrattati dall’urina, dove la calce bianca dei muri non era che un pallido ricordo.
La vecchia era distesa su una panca di pietra che girava intorno alla tomba; credo fosse stata da poco spazzolata di calce tanto il biancore brillava nella notte fitta di Harar
Nonostante le diversità, una sola cosa univa tutti questi personaggi. Volevano raggiungere il paradiso dell’Africa, la terra di Harar, una provincia circondata da mistero e selvaggità. Esploratori di Harar, 1881
Altri poveri avvolti in sciamma terrosi cercavano di allungare anch’essi le mani verso di me, mani aperte che chiedevano qualche moneta. Ero prigioniero di quella gente. E mi ritrovai immerso nel sentimento ardente che il mio corpo rubava a quella gente e che quelle donne mi regalavano toccandomi. Mi porgevano la loro innocenza, facendo rinascere in me il senso della meraviglia.
Questo paese è ai confini del mondo e vive una sua bellezza evangelica sommersa a momenti da una disperazione apocalittica. Di questo gli europei non capiscono un granché.
Incontrammo due carovane, le cui donne guidavano i cammelli e gli asini carichi di otri. Andavano ai pozzi a fare acqua. Quando le ebbi vicine vidi le loro sopracciglia tinte di antimonio e risentii i profumi resinosi che usavano per la pelle.
Distribuivano ramoscelli di chat e ciascuno ne prendeva un pugno e lo masticava dando segni di beatitudine. Iniziava così una sosta quasi apatica fatta di conversazioni e silenzi
Harar, la città proibita, la città santa, selvaggia e indecifrabile mi stava trascinando oltre il tempo, consegnandomi al prossimo secolo senza che io vi fossi preparato.
Ci trovammo davanti le lunghe mura hararine. Ogni mattina ammucchiavano cadaveri sotto le mura. Corpi nudi e abbandonati senza vita crescevano ai piedi delle pietre. Da quelle tele stracce, avvolte su miseri corpi senza più carne, uscivano lamenti cavati da tale profondità che parea la terra stessa a risuonare cupamente. Iene e avvoltoi strappavano loro l’ultimo filo di vita. Harar. Viaggio di Eduardo Scarfoglio, Corriere della Sera, dicembre 1891, dono agli abbonati
Harar, quarta città sacra dell’Islam, patrimonio dell’umanità (UNESCO), Etiopia, 1995
Abdullai, ultimo shek di Harar, fine Ottocento
Una delle novanta moschee di Harar, 1995
Il viaggiatore Luigi Robecchi Bricchetti (Pavia 1855 – 1926) con un gruppo di schiavi liberati.
Khadija, gioia degli occhi Il volto di terra di Siena e gli occhi neri di carbone si fissarono su di me ad imprigionarmi. In un gesto lento e solenne si sciolse i capelli che teneva stretti ai lati delle orecchie. Da tondi che erano e avvolti stretti si gonfiarono e scivolarono come acqua di sorgente lungo le spalle e il petto adagiandosi nella loro negritudine giù sino ai fianchi flessuosi.
Elaborazione di una cartina di Stephen Raw, (Carol Beckwith e Angela Fisher, African Ark, Collins Harvill, 1990)