Nicky Di Paolo, 6 dicembre 2004
In una soleggiata mattina di novembre del 1923, il capitano Eraldo Rossi assieme a due commilitoni, discese la scaletta del piroscafo appena ancorato nella baia, per trasferirsi in una lancia di legno. Due barcaioli di Massaua, vestiti di un solo pareo e di un bianco turbante, dopo avere aiutato i militari a trasbordare e provveduto a recuperare con maestria le valige, si misero tranquillamente a vogare verso la terra che distava almeno mezzo miglio. Il mare era una lastra di un opale luminoso, straordinariamente trasparente e incredibilmente calmo, screziato di riflessi dorati e violetti, pennellato di indaco e di azzurri.
Nei suoi trentadue anni di vita era la prima volta che Eraldo vedeva un’acqua così pura, così colorata, così suadente. La terra sembrava una linea bianca confusa, ma man mano che si avvicinava cominciavano a distinguersi abitazioni e folti ciuffi di palmizi.
L’incandescenza dell’aria era tale che tutto appariva vago e confuso, quasi fosse coperto da una campana di vetro dentro la quale ardeva la luce di mille soli. Quando la riva si fece vicina, dalla trasparenza del mare balzarono su prima ombre e poi visioni di coralli nei cui dintorni palpitava la vita. Non avrebbe mai creduto che un mare potesse essere così trasparente, così ricco di pesci e che miriadi di gabbiani riuscissero a dare vita a un banchetto tanto chiassoso.
Aveva cercato di aggiornarsi prima della partenza per l’Africa, ma nessuno scritto lo aveva preparato a quelle sensazioni. Anche il caldo era decisamente più intenso di quanto avesse mai potuto immaginare.
Si rese conto che da quando era stato a visitare il Cairo e la valle dei re, durante la sosta di tre giorni che la nave aveva fatto a Port Said, era la prima volta che qualcosa di importante stava spostando il ricordo ossessivo del fantastico Egitto.
Ben presto si ritrovò i leggeri abiti che aveva indosso intrisi di sudore mentre gli indigeni continuavano a remare senza mostrare, in tutto il corpo quasi nudo ed esposto al sole, una sola goccia di traspirazione, malgrado l’evidente e prolungato sforzo.
Il porto eritreo colpì Eraldo per la sua bellezza civettuola, per l’aspetto misterioso di città lagunare, per le sue splendide costruzioni moresche, ma fu la popolazione che lo sbalordì; tante genti diverse, tanti idiomi oscuri e le pelli di tutti i colori davano vita ad una umanità molto difforme nelle apparenze, ma apparentemente coesa, come se un artista accorto avesse fissato sulla tela un armonico misto assortimento di colori.
Lui, militare di carriera, aveva accettato volentieri l’offerta di partire volontario per l’ Eritrea. In Italia non aveva legami mentre l’idea di andare a scoprire l’Africa era stata subito seducente ed ora Massaua, dopo l’Egitto, lo ripagava della scelta fatta e si sentiva fiero di essere là.
Il superiore che lo accolse al comando militare non riuscì a smontargli l’euforia quando lo avvisò che avrebbe avuto pochi giorni per acclimatarsi e che subito dopo gli sarebbero state affidate due brevi missioni per prendere contatto con l’ambiente: quindici giorni da trascorrere nell’avamposto di Mersa Taclai a Nord di Massaua e altri quindici a Dule, a Sud, nella penisola di Buri, in Dancalia; poi avrebbe avuto l’incarico definitivo.
Partì per Mersa Taclai dopo quattro giorni trascorsi praticamente immerso nel mare di Massaua. Non si stancava mai di bagnarsi in quell’acqua calda che lo avvolgeva in un abbraccio delicato e sensuale.
Non c’era nulla da fare a Mersa Taclai per l’unico militare europeo, e lui imparò a pescare; i suoi maestri furono gli ascari che prestavano servizio nell’avamposto. Dopo pochi giorni sapeva riconoscere i pesci commestibili, era diventato abile nel catturare i crostacei e a fare incetta di ostriche. Il mare era splendido e alcune delle ore notturne le trascorreva seduto sul bagnasciuga aspettando che qualche tartaruga venisse a depositare le uova sulla spiaggia; nell’attesa non si annoiava: bastava osservare le piccole onde che si infrangevano a riva creando un’esplosione di piccolissime luci che la forte luminescenza dell’acqua non cessava mai di rendere ogni volta diverse. Iene e sciacalli arrivavano curiosi attratti dall’odore dell’uomo e lui si sentiva padrone di un mondo selvatico e magnifico.
I giorni trascorsero veloci e, di ritorno a Massaua, ci fece tappa solo per una notte. L’alba del giorno successivo lo trovò che andava verso sud, senza fretta, in mezzo ad un paesaggio selvaggio e piatto ma di una superba bellezza; sobbalzava maledettamente sulla pista ciottoluta ed era costretto a sollevare di continuo il piede dall’acceleratore, facendo lavorare la frizione ed il freno per mantenere la vettura nella giusta direzione. Aveva imparato in fretta e questa volta viaggiava da solo, senza un ascaro per balia. Ma era sereno e le piane e le grandi spiagge che continuavano a proporsi alla sua vista avida di tutto, lo appagavano, almeno temporaneamente, di quella sete di avventura di cui era ormai preda.
Verso le nove il sole, alla sua sinistra, era ormai alto sull’orizzonte e l’aria calda cominciava a creare sulle piane verdi fatue rifrangenze indotte dall’umidità. La stagione delle piogge era nella sua pienezza e la Dancalia eritrea sfoggiava tutta la sua magnificenza.
Rami frondosi non di rado sporgevano sulla pista e le foglie spolveravano senza troppo riguardo gli abiti e la faccia di Eraldo lasciando dentro l’abitacolo coleotteri e insetti vari.
Ogni tanto incontrava un piccolo villaggio che metteva in mostra ai lati della pista modeste capanne, gruppi di capretti e qualche cammello. Bambini nudi e festanti correvano sul ciglio della pista per veder passare la vettura mentre gli uomini gettavano sul mezzo uno sguardo apatico ed indifferente. Le donne ridevano e salutavano sbracciandosi e agitando i seni al vento.
Poi il villaggio spariva e ricominciava la sfilata interminabile delle acacie ad ombrello, sotto le quali spesso si scorgevano coppie di gazzelle. Frequenti branchi di faraone invadevano la pista che solo all’ultimo momento lasciavano frettolosamente, mentre molto di rado incontrava viandanti a dorso di mulo o più sovente di cammello.
Spesso la pista era interrotta da un corso d’acqua sul quale erano state gettate pietre grosse quanto un pugno onde poter far passare le macchine a guado. La camionetta Fiat si faceva onore e attraversava i torrenti senza esitazione.
Quando era ormai nella piana lussureggiante di Vangabò, pronto a deviare verso nord-est per raggiungere Dule, la vettura, quasi a dimostrare la sua vulnerabilità, si impantanò e Eraldo capì subito che da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Non ebbe neppure il tempo di chiedersi cosa avrebbe potuto escogitare che già era circondato da un gruppo di persone pronte a tirarlo fuori dal guaio nel quale si era cacciato. Erano fra uomini e donne almeno una trentina e a forza di spinte e di strattoni, in men che non si dica la camionetta era di nuovo libera.
Lui cercò nelle tasche del denaro e lo porse ai suoi soccorritori con un sorriso. Ma quelli a gesti gli fecero capire che lo avrebbero voluto ospite al loro villaggio che si poteva scorgere non distante dalla pista. Quei visi aperti e cordiali non lo fece dubitare un istante e con la macchina carica di improvvisati passeggeri si avviò verso un gruppo di alti palmeti. I suoi soccorritori erano nomadi ed abitavano in pittoresche zeribe. Le semplici capanne di stuoia erano in tutto una quindicina ed i soliti bambini ed una infinità di capretti riempivano di grida e di belati gli spazi che dividevano le modeste abitazioni. Uomini e donne erano intenti ai lavori più vari: il sole patinava d’oro i corpi nudi, quelli degli uomini asciutti e dai muscoli guizzanti, quelli delle donne snelli, dai seni colmi, dalle curve ardite di una plasticità perfetta.
Nei volti sereni il sorriso metteva in mostra l’avorio smagliante dei loro denti. Fra le donne più giovani qualcuna era di una bellezza superba: la pelle era chiara lustrata dall’olio di palma e dal sudore con i lineamenti del viso scolpiti come cariatidi di un fregio egizio. I corpi acerbi e nello stesso tempo ingentiliti da fianchi straordinariamente arrotondati e da dorsi impeccabili, creavano curve sinuose ed armoniche.
I nomadi si erano accampati nei pressi di una fonte che, come di solito avviene nel tropico, aveva creato un’oasi di magnificenza di un verde rigoglioso, folto, violento, quasi esagerato nelle dimensioni delle foglie, dei fiori e nella brillantezza di ogni tinta. Uccelli di ogni tipo svolazzavano fra le palme e fra i cespugli di calatropis.
Eraldo continuò a gironzolare per il villaggio seguito prima da tanta gente, dopo un po’ soltanto dai bambini per poi, alla fine, ritrovarsi solo mentre il desiderio di scoprire non si era affatto sopito. Lo incuriosiva il modo semplice di vivere di quella gente, la serenità dei loro volti e la disinvoltura con cui stavano vivendo la sua presenza, quasi lo avessero già accettato come uno di loro.
Non seppe mai spiegarsi perché entrò in quella capanna; non era mai entrato fino ad allora in nessun abituro che si apriva sulle terre d’Africa: era stato sempre fermato da un arcano timore che non sapeva razionalizzare.
Quella piccola dimora, distaccata dal villaggio, isolata e come nascosta dentro un ciuffo di palme, le cui foglie formavano una specie di grande ombrello sfilacciato dal vento lo incuriosì e lo attirò nello stesso tempo, forse perché la stuoia che copriva l’ingresso era sollevata ed intorno non si vedeva anima viva. Dall’interno non proveniva alcun rumore e lui si abbassò per sbirciarci dentro. Si ritrasse quasi timoroso quando vide una figura venirgli incontro; dall’apertura comparve una figlia della savana, strana creatura come può essere una donna del tropico ma completamente diversa da tutte le altre donne eritree che aveva visto fino ad allora e che gli erano parse anche belle e molto graziose. La fanciulla aveva occhi nerissimi, ma accesi di una luce intensa. Una lunga tunica gialla a fiorami blu le avviluppava i fianchi che si indovinavano armoniosi mentre il torace era completamente scoperto ed il bronzo della sua pelle chiara aveva la calda lucentezza dell’oro fuso.
Aveva un corto velo trasparente che nulla nascondeva, legato dietro la nuca.
L’attenzione del soldato fu sopratutto attratta dal viso della ragazza che non poteva avere più di sedici anni, un viso che forse esiste solo nei sogni di quanti amano l’Africa. Era una figurina suggestiva ed enigmatica che lo guardava con gli occhi umidi e dolci di una gazzella, ma al contempo caldi e suadenti come il sole del tropico.
Due cerchi dorati le pendevano dalle orecchie minute mentre nel capo si erigeva una bizzarra pettinatura che formava strani riccioli sulle tempie mentre verso la nuca i capelli si raccoglievano in ordinate treccine.
Lei pronunciò alcune parole in tigrè, ma Eraldo non ne capì una. I gesti che accompagnavano le parole erano però chiari: lei lo invitava ad entrare e lui, come ipnotizzato la seguì all’interno. Dentro la capanna quasi toccava con la testa la cupola dell’abituro; c’erano poche e semplici cose che possono bastare ad una donna africana: un giaciglio composto con foglie di palma ricoperto con un lenzuolo di cotonina, un fornello di terracotta con due recipienti anche essi di coccio, alcune banane appese ad un bastone ed e in un angolo un piccolo baule di latta dorata.
La ragazza lo invitò a sedersi su una stuoia, e attizzò il fornello dove mise a scaldare il bricco del “ciai”.
Sempre a gesti lei gli disse il suo nome e storpiò il suo quando Eraldo cercò di farglielo ripetere, ma lo fece seguire da un “italiano” pronunciato quasi correttamente. Si chiamava Jamila e quando lui le chiese da dove veniva, la fanciulla indicò il nord più volte come a additare un posto lontano.
Quando gli porse il “ciai” in un bicchierino di vetro lo fece con una grazia sacerdotale ed antica, ricca di spiritualità e di mistero. Abbassò gli occhi mentre con le braccia tese attendeva che l’ospite ricevesse la bevanda che diventò improvvisamente preziosa, mentre lui visse un istante di solennità che non era affatto diverso da quello percepito nelle tante pitture che aveva avuto modo di ammirare nelle tombe della valle dei re. Anche Jamila, come le antiche donne egizie, aveva palpebre grandi, la piccola bocca enigmatica, il profilo dolce, ma pensoso e severo, la capigliatura triangolare e la pelle del colore di un dattero maturo.
Eraldo bevve sei bicchierini della bevanda densa, dolce e speziata senza dire più nulla mentre Jamila ogni tanto alzava gli occhi per guardarlo atteggiando le labbra ad un enigmatico sorriso.
Quando più tardi raggiunse Dule e la piccola caserma, fu accolto festosamente da due dei dieci ascari che formavano il piccolo plotone. L’ufficiale a cui doveva dare il cambio lo aveva atteso a lungo, ma poi era partito per non farsi cogliere dalla notte per strada. Gli ci volle un minuto per capire che anche solo quindici giorni potevano essere molto lunghi in quel posto che gli italiani avevano lasciato intatto. Ma non si scoraggiò. C’era un mare d’incanto e avrebbe trascorso molto del suo tempo pescando.
Il giorno dopo tornò al villaggio dei nomadi ormai amici portando loro quattro grossi sauri presi la mattina presto con diverse scatolette di carne e alcune confezioni di gallette. Lasciò l’ascaro che lo aveva accompagnato a parlare con due uomini intenti a tosare alcune capre e lesto si recò alla zeriba della donna che gli ricordava le favorite dei faraoni.
Jamila uscì prima che lui arrivasse, sensibile a tutto ciò che poteva accadere nella piccola comunità, gli andò incontro, lo prese per mano e lo condusse dentro la sua dimora. Poi tutto si svolse come la sera precedente: lei preparò il “ciai”, glielo offrì più volte e lui non staccava lo sguardo da quegli occhi che raccontavano quel luogo di misteri e di savane inesplorate.
Lui le prese le mani e capì che avrebbe potuto sciogliere la tunica gialla che le avvolgeva i fianchi, senza che ella protestasse; invece si contentava di guardarla, di carezzarle il viso, mentre lei gli regalava dei sorrisi dolcissimi. Ogni tanto Jamila restava ad occhi chiusi, abbandonando le braccia esili sul grembo e rimanendo immobile, non in attesa, ma quasi cercasse di comunicare in qualche modo il suo essere donna, la sua pace interiore, il fascino sottile e potente dell’Africa.
Eraldo si rese conto solo allora che lei non usava per ungersi i capelli il burro abissino dall’odore acre e nauseabondo per i bianchi, ma qualcosa che emanava una fragranza di erbe appena colte, di fiori delicati; si sentiva sedotto da quella donna che impersonava tutti i sogni che aveva fatto venendo in Africa, visitando la Valle dei Re, ed immaginando che un giorno lontano avrebbe forse incontrato una dea.
Durante il ritorno l’ascaro lo ragguagliò sui nomadi: appartenevano ad una delle tante tribù delle genti originarie dello Yemen; per questo avevano la pelle chiara ed erano famosi per la bellezza delle loro donne. Gli disse anche che la ragazza che aveva visitato era in attesa del marito che era tornato nel nord ad accompagnare un gregge.
Quando il giorno dopo tornò da solo a trovare Jamila, si rese conto, quasi con sorpresa, di amare quella donna intensamente, senza che la giovinezza e la nudità risvegliassero in lui desideri che l’avrebbero portato a dissacrare l’immagine sublime che aveva creato dentro di sé. Lui sfiorava leggermente le sue spalle, il suo lungo collo, le lunghe gambe affusolate solo per l’imperioso bisogno di constatare che quella statua era viva, e aveva una pelle di seta, liscia, morbida che dava la sensazione di toccare petali di rosa .
Ogni tanto Jamila parlava con un idioma dolce, ma per Eraldo incomprensibile. Lui immaginava che lei gli rivelasse i segreti dei deserti, le leggende delle sue genti che si tramandavano di generazione in generazione, i suoi reconditi desideri, mentre la luce del sole che filtrava dentro la capanna creava intorno al volto di lei farfalle d’oro e di smeraldo che turbinavano nell’aria, proiettando le loro ombre danzanti sul resto del corpo.
Eraldo si meravigliava di non sentire caldo, mentre fuori la pianura era schiacciata dal sole cocente, immersa in una infinita solitudine. In quello spazio angusto, lui percepiva l’essenza della vita che gli veniva trasmessa da una donna che parlava una lingua sconosciuta, ma che era capace di aprirgli altri occhi, altre orecchie, di donargli sensazioni ripiene di tenerezza.
Lei era conscia del suo turbamento e ricambiava le sue carezze, gli sussurrava parole incomprensibili, ma suadenti e con i sorrisi ed il movimento degli occhi gli trasmetteva il suo desiderio. Si, amava quella fanciulla, ma si rese conto che era nato nel suo cuore anche un altro amore forse meno irruento, ma senza dubbio più razionale; quella terra lo stava ammaliando perdutamente.
Non si rese conto del trascorrere delle ore e dei giorni che si consumavano tanto rapidi quanto inclementi. Viveva in una dimensione di pace e di benessere tale che la telefonata dal comando di Massaua con la quale gli comunicavano la fine della sua piccola missione, lo colse impreparato, lo risvegliò di soprassalto, gli creò una sensazione di panico, simile a quella che provò quando lo inviarono da solo a Mersa Taclai; questa volta però l’angoscia montava per dover abbandonare l’interno dell’Africa, non per doverlo affrontare.
La telefonata inopportuna gli diede la certezza di amare quella terra, di avere ormai nel sangue l’incantesimo della sua selvaggia bellezza, di avere gli occhi ripieni dei suoi colori, le orecchie stregate dal mormorio delle savane, dai silenzi rotti dal rullare di tamburi lontani, l’animo ricolmo dall’incanto del suo mare, dalla melodia dei suoi tramonti, dalla semplicità della sua gente.
I primo istinto fu quello di fuggire, di non fare ritorno a Massaua, di rifugiarsi dai suoi amici nomadi, di correre da Jamila.
La vettura questa volta correva, incurante dei sobbalzi e dei continui piccoli ostacoli che la pista presentava. Arrivò trafelato alla capanna, ma questa volta, a differenza di sempre Jamila non era sulla soglia ad aspettarlo. La trovò dentro in ginocchio di fronte al suo fornello di coccio, le palpebre abbassate sugli occhi grandi e tristi.
Eraldo, con il cuore in tumulto e stravolto per doversi distaccare da qualcosa di importante che gli sembrava di aver raggiunto finalmente nella sua vita, prese Jamila per mano, la fece alzare e la strinse a sé mentre la capanna dentro e fuori si colorava tutta di rosso dal gran fuoco di un tramonto che riempiva di fiori scarlatti il cielo della Dancalia.
Sciolse quella tunica che fino ad allora aveva rispettato denudando la fanciulla dei suoi sogni e si immerse in una voluttà che lo fece sentire un essere superiore che aveva raggiunto una fusione completa con tutti i deserti e le savane di quella terra, con quel mare caldo e pieno di vita, con tutti i segreti e le malie che il Tropico nasconde; si sentì in pace con se stesso e con il mondo, si rese conto con sorpresa della sua vera fisicità e capì in quel momento che, per la prima volta in vita sua, era felice.
Tornò a Dule all’alba; poche ore dopo giunse, come previsto, un giovane tenente a dargli il cambio e lui, dopo aver lasciato le consegne, partì immediatamente alla volta del comando di Massaua, dove arrivò confuso, irritato, indeciso, tanto che il suo superiore lo giudicò stanco e provato e decise di inviarlo il giorno dopo ad Asmara, in altipiano dove, con il fresco, si sarebbe ripreso.
Non riuscì a godersi nulla; la salita sull’acrocoro fatta sulla littorina Fiat in una ferrovia che aveva aspetti straordinari lo colse indifferente; aveva in mente solo il pensiero di lei, i suoi occhi, la sua pelle vellutata, le sue mani tenere e a nulla poteva la ragione: non c’era il diverso colore della pelle a mettergli dei dubbi, non lo spaventavano minimamente le leggi razziali, non pensava alla sua famiglia e tanto meno al suo grado nell’esercito; c’era solo Jamila nella sua mente e null’altro riusciva a distoglierlo dal suo ricordo.
Indifferente accettò tutto ciò che il comando di Asmara dispose per lui. Fu assegnato momentaneamente alla contraerea del forte Baldissera che era in fase di potenziamento. Eraldo però non si applicava nel lavoro, evitava i contatti con i commilitoni, era sempre pensieroso e non usufruiva delle libere uscite: aspettava solo con ansia un’occasione per poter tornare a Massaua. Quando una sera fu organizzata una squadra per andare a caricare nuovi pezzi di artiglieria giunti al porto la notte precedente, fu il primo a farsi avanti e prese il comando della piccola compagnia formata da una camionetta e tre grossi camion. Lasciò l’Asmara che era ancora notte e quando il sole sorse, la camionetta correva isolata nel bassopiano verso il mare; non era riuscito a trattenersi ed era corso avanti lasciando i camion addietro proseguire con il loro passo molto più lento. Giunto a Massaua non ci pensò due volte e girò a destra per la strada di Archico per poi buttarsi sulla pista per Zula. Quanto era diverso il suo stato d’animo da quello della precedente missione! Non si rendeva conto più di nulla; c’era solo l’immagine di Jamila che lo attendeva nella piccola zeriba distante ormai solo poche decine di chilometri. Non aveva un programma, un’idea, un piano: aveva un disperato bisogno di stringere il suo sogno fra le braccia, di immergersi in quella dolce dimensione di voluttà.
Si rese conto da lontano che la comunità nomade si era spostata e fu colto dal panico; erano sparite le piccole cupole dorate che risplendevano nel verde, non si intravedevano più i dorsi gibbosi dei cammelli. Poi furono la rabbia e il dolore a sostituire l’ansia dell’attesa di rivedere Jamila. Non ebbe indecisioni: perse solo pochi minuti per rifornire il serbatoio con una delle taniche di benzina che erano a corredo della camionetta e si buttò a rotta di collo sulla pista per Dule, l’unico posto dove avrebbe potuto attingere notizie della tribù di nomadi; arrivò trafelato. L’ufficiale italiano di turno nel presidio non riuscì a comprendere nulla di ciò che Eraldo cercava disperatamente di sapere dagli ascari. Loro erano a conoscenza della partenza dei nomadi e della loro nuova destinazione. Si erano andati ad accampare ad una cinquantina di chilometri più a sud verso il lago Badda, lago per modo di dire, uno stagno d’inverno e un deserto d’estate.
Non ascoltò consigli ed esortazioni a fermarsi. Rifiutò la scorta, litigò con l’altro ufficiale italiano ma non servì a nulla: riempì il serbatoio di carburante e via, per la pista sempre più difficile, sempre più impervia.
Lui non avvertiva le scosse terribili della vettura lanciata in un sentiero lastricato di sassi grossi quanto un pugno che mettevano a dura prova le resistenze della camionetta, non si curava del sole di mezzogiorno che implacabile infiammava quella terra, non sentiva la stanchezza e non si rese neppure conto di cosa fosse stato quel forte colpo avvertito sul petto.
Ebbe solo pochi attimi per realizzare che tutto stava diventando buio, a parte quella strana macchia rossa che si allargava sulla sahariana.
Il predone dancalo scese dal grosso termitaio su cui si era appostato quando aveva scorto la polvere alzata dalla vettura in corsa. Era stato molto più facile del previsto, aveva avuto tutto il tempo per prendere la mira e poi lo sprovveduto viaggiava solo. La vettura uscita fuori strada era andata a fermarsi contro un’acacia ed il radiatore rotto sprigionava fumo; il predone si avvicinò tranquillo e constatò che il bianco stava morendo. Si mise con metodo a razziare la vettura e le tasche dell’uomo che inspiegabilmente, con gli ultimi sospiri, continuava a farfugliare parole a lui incomprensibili a parte il nome di Jamila, la ragazza “rasciaida”, la cui tribù era accampata nell’oasi distante pochi minuti di cammino.