Vincenzo Meleca, 25 aprile 2017









Abbiamo ricevuto una interessantissima testimonianza da parte del topografo Mario Liguori che nel 1976 ebbe l’occasione di vedere il relitto del Welf e di ascoltare dalla viva voce dello Sherif di Markbley come era stato tramandato il racconto di quanto successe….
“Ai primi di dicembre del 1976 ero sul fiume Giuba per rilievi topografici e determinazione delle coordinate astronomiche a Bardera e a Lugh Ganane.
Con alcuni colleghi stavamo risalendo con le due nostre barche di 4 metri, ciascuna dotata di motore Oceania di 20 cavalli il fiume, quando, arrivati alle rapide di Markbley (che noi pronunciavamo Markblì, parola evidentemente derivata da “markab”, che in lingua somala significa “nave”), trovammo le stesse difficoltà del battello tedesco Welf.
È fu lì che vidi quello che sembrava il relitto inclinato di un’imbarcazione seminascosta dalla vegetazione di un isolotto nel fiume. Si notava bene soprattutto il suo fumaiolo.
Le rapide che avevano impedito al battello di risalire il fiume Giuba dovevano essere state vorticose e pericolose come quelle che trovammo anche noi, tanto che fummo costretti, con i nostri operai, a tirare a riva le nostre barche trasportandone una a braccia lungo la riva destra in direzione nord e rimettendola in acqua a monte delle rapide. L’altra, raggiunta la riva opposta a Bardera, fu caricata sulla nostra campagnola Fiat che, a sua volta, era stata trasportata mediante uno zatterone tirato da un lungo cavo, zatterone che svolgeva il compito di traghettare uomini e merci, mentre frotte di ragazzi, incuranti dei numerosissimi coccodrilli e ippopotami, si tuffavano dai rami degli alberi pendenti dalla riva sul fiume. Per una pista lungo la riva sinistra, la seconda barca fu trasportata dalla campagnola verso nord e poi, calata nel fiume, raggiunse la barca trasportata a braccia.
Facemmo una sosta e ne approfittammo per parlare con quello che ci venne detto essere lo Sherif di Markbley e che ci raccontò come si tramandava che erano andati i fatti.
Il battello era stato scagliato dal vortice delle rapide sulle rocce affioranti e i componenti dell’equipaggio furono assaliti e catturati dagli indigeni e portati in un vicino villaggio. Ed aggiunse che furono evirati e il loro sesso inastato sulle lance, dimenate in area nel corso di una danza, per loro festosa. Non capii bene se nell’occasione fu praticata l’antropofagia. Ma, poiché correva voce che questa pratica sopravviveva anche nel 1976, mentre si svolgeva la nostra missione astronomica-topografica, sono portato a credere che tanto più a fine ottocento sia stata praticata nei confronti dell’equipaggio del Welf.
Nell’aria misticamente tremula per il sole infuocato, il vascello muto, piegato e ricoperto in parte dalla vegetazione, sembrava un moribondo che non riusciva ancora a esalare l’ultimo respiro. Dal camino arrugginito sembrava provenire un rantolo di storia, dopotutto poi non tanto lontana.
Ai tempi che le ho riferito, transitarono per quelle latitudini, oltre ai topografi, anche geologi. Era infatti in progetto la costruzione di una diga sul fiume Giuba per la creazione di un invaso a circa 30 km (se ricordo bene) a nord di Bardera, per sviluppare l’agricoltura lungo il Giuba. Non ho avuto più notizie, ma credo non sia mai stata realizzata quella diga.
Io mi trovavo lì per conto di una ditta che aveva vinto l’appalto dei rilievi, comprensivi delle stazioni astronomiche. Non esisteva alcuna cartografia di riferimento e le determinazioni astronomiche, eseguite di notte ovviamente, erano proprio necessarie.
Ridiamo un pò, anche se con il Giuba non c’è tanto da ridere. La gara per i rilievi inizialmente fu vinta da una impresa svizzera. Gli ultralpini, considerate le indubbie difficoltà della missione, si inventarono tutti i rilievi e la cartografia che ne derivava. Ma, al collaudo furono smascherati e subentrò impresa italiana che a sua volta subappaltò i rilievi. Firenze a quei tempi vantava molti tecnici e piccole imprese di rilievi topografici e aerofotogrammetrici, tutti di provenienza dall’IGM, l’Istituto Geografico Militare.
Ero topografo, operatore di campagna. Quando seppi del pericolo dell’antropofagia tentennai alquanto. Mi sarebbe dispiaciuto finire arrostito a solo tre mesi dopo essermi sposato. Poi alla fine partii, necessità virtù.
Andò più o meno bene. Gli ultimi giorni furono però veramente duri e, una volta riguadagnato Mogadiscio, dovetti ricorrere all’ospedale per le conseguenze della disidratazione: siccome non si poteva trasportare una carovana di bottiglie d’acqua o un’autobotte d’acqua, mi toccava zero virgola rentatré centilitri di acqua al giorno, oltre a una birretta di altrettanti centilitri. Somma: sessantasei centilitri totale di liquidi. Al giorno! Ma sono qui, lasciamo perdere.
In seguito sono stato in altre zone dove si pratica ancor oggi l’antropofagia, e in altre dove si pratica invece il sacrificio umano!!! Ma lasciamo stare e consideriamo l’essenziale: a me è andata meglio che al barone Karl Klaus von der Decken!”