by Nicky Di Paolo e Gian Carlo Stella, 12-8-05

Quando ci troviamo a discutere di colonialismo italiano, rimaniamo sempre isolati nel cercare di separare il comportamento dei civili italiani da quello dei militari italiani. Spendiamo molte energie, ma otteniamo poco o nulla. Eppure la storia, che solo in parte è stata scritta, relativa ai civili ed ai militari che si spinsero in Africa si diversifica nettamente fra queste due categorie.

Un esempio lampante di questa diversità fu Ferdinando Martini, il primo governatore civile dell’ Eritrea ( 1897-1907) dopo una serie di militari.

Riteniamo estremamente utile riportare una pagina di questo importante personaggio che sembra stesa oggi da un giovane redattore di un giornale di sinistra. Parole oneste, pesanti come pietre, che fanno onore a chi le scrisse e che impongono un riconoscimento non solo dagli storici italiani, ma anche dagli abitanti del Corno d’Africa perché il Martini era dalla loro parte, come lo furono la maggioranza dei civili italiani che hanno operato in quei territori.

Se non dicessi subito quanto ho nell’animo, non arriverai a finire questo libro che vuole e ad esso deve essere in tutto sincero. In Africa ci siamo andati, senza saper bene perché, ci siamo voluti restare per consenso quasi universale, quando era tempo di venirsene con danno minore; ora io, che pur così ripetutamente e vanamente domandai si richiamassero dalle coste del Mar Rosso i nostri soldati, io, per il primo, confesso che nel dare le spalle al Mar rosso oggi non è più possibile, senza disdoro infinito, perpetuo. Ma, se col mutare degli eventi e dei tempi, muta la ragione politica, la ragione morale rimane quale era; ed io non so rassegnarmi a credere che vi siano due giustizie, una bianca e una nera, due diritti, uno nero e uno bianco; nella pochezza mia non arrivo a intendere con che cuore noi che per secoli patimmo e lamentammo il gioco, andiamo ora ad imporlo. Ma noi siamo eclettici: richiediamo l’Isonzo e pigliamo il Mareb. Quando mi provo a dirlo, mi rispondono con una alzata di spalle: “codeste sono idee da secolo decimo ottavo”. Me ne rincresce per il decimonono. Ma noi siamo ipocriti: Degiacc Mesfin che rischia la vita per liberare dalla prigionia il padre, Ras Woldenkiel e il proprio paese dagli invasori; se costui fosse nato a Roma sotto la repubblica lo proporremo nelle storie ad esempio di virtù patria e filiale.

Nato in Africa lo rinchiudono nella galera di Santo Stefano.

Quando mi attento a dimostrare la contraddizione, interrompono sogghignando: “non c’è termine di confronto: noi compiamo in Africa gli uffici della civiltà” . Ma noi siamo bugiardi: non è vero che speriamo diffondere la civiltà in Abissinia; non importa aver dimorato anni ed anni nella Africa come lo Schweinfurth per farsi il suo medesimo convincimento: basta avervi passato non inutilmente due mesi. Non si tratta di tribù selvagge idolatre, bensì di un popolo cristiano da secoli, la cui compagine politica è secolare; nel cui paese, per secoli, conquistatori e viaggiatori tentarono imprimere tracce della civiltà europea; quel popolo non ne volle sapere: le sue capanne sono ancora quelle dei tempi biblici, i suoi costumi presenti furono conosciuti da Erodoto. Noi figuriamo di voler porre un termine alle guerre fratricide che spezzarono in quelle regioni ogni molla dell’operosità umana e arruoliamo ogni giorno e paghiamo abissini perché si sgozzino con abissini. Eh! Via, replicate a noi malinconici, che in Europa stiamo troppo pigiati, che in Etiopia vi sono tre o quattro abitanti per ogni chilometro quadrato, che ormai le conquiste coloniali sono un empia necessità, ma non parlate di civiltà! Chi dice che s’ ha da incivilire l’ Etiopia dice una bugia o una sciocchezza.

(Da Ferdinando Martini: “Nell’Affrica Italiana”, Fratelli Treves Editori, Milano, 1896)

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