Valeria Isacchini, 4 febbraio 2019
Subito dopo la conquista dell’Etiopia, si avviarono lavori di colonizzazione agricola, procedendo comunque con una certa cautela, trattandosi di territori ancora poco conosciuti, generalmente privi di infrastrutture e spesso non mappati
esaurientemente, di cui occorreva identificare con certezza le condizioni climatiche, geologiche, fisiche, idrografiche, insomma tutto il potenziale agricolo1. Inoltre occorreva identificare terreni fertili e non ancora coltivati. Il problema era molto delicato e di non facile soluzione: “Si deve favorire l’acquisto delle terre da parte del cittadino metropolitano, quando queste terre siano disponibili, e se non sono disponibili si possono togliere all’indigeno?” chiedeva (senza dare una chiara risposta) il geografo economico Ernesto Massi nel 1936. In Africa anche terre apparentemente vuote possono essere infatti di proprietà collettiva, magari di popolazioni nomadi che le lasciano in abbandono per lunghi periodi.
Presso i popoli musulmani, che costituivano parte dei nuovi possedimenti, anche se residenti generalmente in zone aspre, la tradizione coranica prevede che la terra sia sempre di proprietà della collettività, che la concede ai singoli perché la usi nell’interesse generale. Inoltre, la necessità di creare grandi latifondi per colture industriali avrebbe costretto ad espropri delle piccole proprietà, con la conseguente umiliazione dell’“indigeno [che] privato del suo pezzo di terra dovrà dopo poco tempo piegarsi a coltivare la stessa terra, per conto altrui”2. Era un problema che non sfuggiva affatto e che ovviamente riguardava la piccola proprietà, poiché i fondidi quei grandi feudatari che si erano opposti alla conquista (ovviamente solo di quelli, non di tutti, dato che anzi alcuni dei più potenti avevano appoggiato l’iniziativa italiana, in funzione anti-negussita), nonché di Hailè Sellassie, vennero confiscati.
L’esperienza precedente consigliava cautela: quando il governo Crispi aveva dichiarato l’Eritrea “colonia” aveva proceduto all’indemaniamento di proprietă private, il che aveva ovviamente suscitato un’opposizione che si era dimostrata nella breve ma preoccupante rivolta di Batha Agos3, creando anche negli anni seguenti problemi evidenti. Ci si rendeva conto che sarebbe stato un errore disconoscere l’antica tradizione e il “sacrosanto diritto d lla proprietă”4; il diritto feudale etiopico aveva un regime di proprietà fondiaria molto articolato e soggetto a complesse norme, per cui occorreva individuare quei terreni che potessero essere venduti dai proprietari. D’altra parte, occorreva cercare una via di compromesso tra il rispetto assoluto di tradizioni secolari, ma non per questo pienamente accettabili, e un miglioramento dell’economia rurale grazie a nuove forme imprenditoriali5.
Vennero comunque create rapidamente, già nel 1937, alcune aziende agricole (ca. 17000 ha) a concessione temporanea, per provvedere al fabbisogno alimentare dei militari e operai presenti in Etiopia. Il già citato Manetti riferisce come, intorno ad ogni presidio, si fossero creati spontaneamente, fin dai primi tempi dell’occupazione, orti destinati a completare le mense di ufficiali e soldati con verdure fresche. Il Ministero dell’Africa Italiana stese un piano di massima per organizzare razionalmente la colonizzazione, in modo da produrre un’economia agricola in grado sia di sopperire alle necessită dell’Impero sia di esportare verso la madrepatria. Vennero creati localmente Uffici Agrari con aziende sperimentali, con l’appoggio dell’Istituto Agricolo per l’Africa Orientale di Firenze͘
Erano previsti quattro tipi di colonizzazione:
– Colonizzazione industriale con grandi latifondi (da 500 a 3000 ha) affidati a compagnie per la produzione di piante industriali, coltivati da indigeni sotto sorveglianza italiana.
– Colonizzazione capitalistica, con terreni da 50 a 150 ha, acquistati con propri capitali da agricoltori, con appoggio di tecnici ed agronomi italiani e generalmente l’uso di manodopera indigena
– Piccola colonizzazione, con terreni di 10-15 ha, per i reduci di guerra e per gli operai che vi avevano collaborato
– Colonizzazione demografica, diretta da Enti di Colonizzazione autonomi, creati sulla precedente esperienza italiana in Libia, finanziati da banche e altri enti assistenziali; ogni Ente inviava un certo numero di capifamiglia scelti nell’ambito di una stessa regione; la terra era all’inizio coltivata in comunità, ma si prevedeva che in seguito, una volta che il capofamiglia si fosse sistemato ed avesse avviato i lavori, fosse raggiunto da moglie e figli e la terra divisa ed affidata ai gruppi familiari.
I primi (e unici) Enti di questo tipo ad essere creati furono il “Romagna d’Etiopia”, il “Veneto d’Etiopia”, il “Puglia d’Etiopia”.
Si tendeva infatti a ricostruire all’interno dell’Etiopia gruppi compatti di corregionali, che non sentissero eccessivamente lo sradicamento dai luoghi di origine. Si ebbe inoltre cura di inviare famiglie con genitori ancora in grado di procreare ma con figli già in grado di collaborare ai lavori agrari. Si sceglievano braccianti con famiglie numerose, a cui si consegnavano, al momento della immissione nel fondo, casa, attrezzi, bestiame. Era il concetto già applicato per la Bonifica Pontina. Il fondo veniva prima coltivato dai coloni a salario da parte dell’Ente; una volta diventato produttivo (trattandosi di terreni incolti, occorrevano in genere almeno due anni) si passava a mezzadria, con anticipo da parte dell’Ente delle spese sostenute per la messa in valore dei campi e per le colture. Infine, poteva essere riscattato ratealmente dal colono. Il prezzo pagato dalle famiglie per il riscatto avrebbe permesso all’Ente il recupero delle spese sostenute͘
I coloni incapaci o indegni perdevano la concessione. Infatti, la piena proprietà era prevista non solo dopo il completo pagamento delle rate, ma anche dopo l’attuazione di una serie ben determinata di obbligazioni di carattere tecnico͘ I contratti relativi ai rapporti tra Ente e coloni si basavano sostanzialmente sulla precedente esperienza messa in pratica durante la colonizzazione della Libia, con l’Ente per la colonizzazione della Cirenaica6.
Le abitazioni erano costruite con precise norme igieniche e strutturali, per poter sopperire alle difficoltà ambientali: fornite di impianti igienici con bagno o doccia, di impianti di ventilazione dell’aria, di zanzariere e protezioni contro serpenti, roditori e soprattutto contro le terribili termiti. Le sorgenti erano protette e le acque luride disperse in profonde fosse settiche.7
Accanto agli Enti regionali c’erano Enti Assistenziali per gli Indigeni, che si occuparono anche della costruzione di abitazioni per i salariati locali, che riprendevano lo schema tradizionale, ampliandolo ed adeguandolo a livelli
costruttivi più moderni; ogni tucul disponeva di circa 160 m2 di terreno per orto e bestiame͘ L’affitto era molto modico, gratuito per i più indigenti͘ In base al Regio Decreto 2466 del 12 novembre 1936, il piano regolatore urbanistico prevedeva
separazione tra il quartiere italiano e quello indigeno. La possibilità di ricevere uno stipendio come lavoratore agricolo (o come operaio) e di avere un’abitazione e un piccolo appezzamento compensava i problemi legati all’abolizione della schiavitù: lo “schiavo” era infatti in pratica un servo che per tutte le sue necessità materiali si appoggiava al proprietario, senza il quale non avrebbe avuto alcuna risorsa8.
Il primo Ente regionale ad essere creato fu il “Puglia d’Etiopia”, istituito con Regio decreto del 6 dicembre 1937. Finanziato dal Banco di Napoli, dall’Istituto nazionale fascista della Previdenza Sociale e dagli enti provinciali pugliesi, l’Ente aveva sede a Roma.
A sud-ovest di Dire Daua, in zona dell’Harar, tra Asba Littoria (che attualmente ha ripreso il vecchio nome di Asba Tafari) e Bedessa vennero sistemate 400 famiglie pugliesi, i cui primi capifamiglia giunsero già nel 1938. La Guida per l’Africa Orientale Italiana fa notare come a 17 km da Bedessa stesse sorgendo la città di fondazione detta Bari d’Etiopia9. Si trattava di un progetto del pugliese Saverio Dioguardi, architetto di altre due cittă di fondazione per l’Opera Nazionale Combattenti: Olettà Ghennèt e Biscioftu (che prese nel tempo il nome di Debra Zeit e attualmente Biscioftu)10 presso Addis Abeba.

La cittadina “Bari d’Etiopia” comprendeva Residenza, un padiglione di ospedale, Poste e Telegrafi, caserma dei Carabinieri, ovviamente acquedotto, camionabile verso Arba, 250 case coloniche. Il 7 dicembre 1938, come documenta un filmato dell’Istituto Luce11 il Viceré medeo d’ osta visitž la zone, dove giă, si dice, erano stati dissodati e messi a coltura 600 ha di terreno.
Si iniziò anche la costruzione della Lecce d’Etiopia, a Ghelemsò, cioè nella stessa zona, ma l’inizio della 2ᵊ GM bloccò evidentemente ogni lavoro. 400 famiglie venete furono installate nel 1940 presso Gimma nel Galla-Sidama, ma al momento non è dato conoscerne altri dettagli, se non che ne era stato approvato lo Statuto e lo schema di convenzione per il funzionamento; ma la data di fondazione è talmente a ridosso dalla scoppio della 2^ GM che i lavori dovettero essere rapidamente bloccati. Nella zona di Gimma risultavano nel 1938 già attive anche la Colonia “Cavalieri di Neghelli” di 100 ha, fondata nel 1937, con un centro sperimentale agricolo; un Centro Sperimentale dell’Ufficio Agrario a Malcò con terreno di 100 ha, coltivato dalle “pattuglie del grano”, istituite dalla Federazione dei Fasci del Galla Sidama per la coltivazione di vari prodotti. Si trattava però di “piccole colonizzazioni”͘
Ampiamente documentato, anche grazie alla pubblicazione di Enrico Paolini e Davide Saporetti, La Romagna in Etiopia, è invece l’Ente romagnolo (sul quale, a quanto risulta dalla stessa pubblicazione, parecchio materiale inedito dell’Archivio Africana di Gian Carlo Stella non ha potuto essere inserito per ragioni di tempi di stampa͘ C’è da augurarsi un aggiornamento).
Anche in questo caso, furono 400 le famiglie romagnole inviate nel territorio dell’Amara͘ Il 22 marzo 1938 partì il primo scaglione, da Predappio (quella vera) per andare a creare la Predappio d’Etiopia͖ e poi era in nascere una Forlì d’Etiopia.
Avrebbe dovuto essere creata anche una Ravenna d’Etiopia, ma la faccenda restò in cantiere: era scoppiata la 2^ guerra mondiale. Dell’Ente era presidente il forlivese Arnaldo Fuzzi, di cui era vice Demetrio Francesconi di Rimini, e dir. generale Guido Savini, pure di Rimini.
Grazie alle ricerche recentemente pubblicate dell’architetto Giancarlo Gatta12, è stato possibile individuare il sito dove con ogni probabilità era stata creata la Predappio etiopica, a pochi chilometri a nord-est di Dabat, cioè presso Gondar. L’arch͘. Gatta ha infatti individuato, tramite ricerca satellitare, un piccolo abitato la cui pianta corrisponde perfettamente al nucleo centrale del progetto dell’arch͘. Amerigo Bandiera13.



riconoscibile il nucleo semicircolare di Predappio d’Etiopia
Tale progetto prevedeva due torri accanto all’ingresso principale, quello proveniente dalla strada Dabat-Debarq (ovvero Gondar-Axum) destinati alle Camicie Nere e alla sede dei Fasci: il centro si sviluppava a semicerchio, con le strade
disposte intorno a ventaglio. Era fornito di tutti gli edifici principali destinati alla collettività: scuole, Poste e Telegrafi, chiesa, impianti sportivi e cinema, ospedale, luoghi di ristoro, ecc. che si irradiavano intorno alla grande piazza rettangolare ed ai numerosi portici.
Non a caso Curzio Malaparte, che visitò Dabat durante il suo percorso in Etiopia nel 1937, notò come, a differenza dei villaggi quasi improvvisati creati dai pionieri con materiali di risulta, si trattasse di un vero e proprio “villaggio romagnolo, dai muri di pietre a secco, disegnato con arte estrosa e insieme precisa, con quella poca cura dello spazio che è un dono dei Romagnoli, e a me toscano, abituato alla gelosa parsimonia che i contadini toscani han dello spazio, appare come un segno del loro istinto d’abbondanza,della loro generosa natura. In Etiopia lo spazio non manca.”14
ForlŞ d’Etiopia era costituita da 64 case coloniche, con relativi poderi di circa 30/50 ha, con impiego anche di lavoranti indigeni salariati. Un’altra sede curata dall’Ente romagnolo aveva sede ad Ambo, nel Galla Sidama, dove venivano effettuate colture sperimentali.15
1 Sulla carenza di informazioni, v. Ministero degli Affari Esteri, L’Italia in Africa, vol. 1°,
L’avvaloramento e la colonizzazione, testo di Armando Maugini, Ist. Poligrafico dello Stato, 1969
2 Ernesto Massi, Il problema economico della colonizzazione, 1936, in Luigi Goglia – Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, 2003
3 Nel 1894 Batha Agos era il capo indigeno della zona dell’Acchelè-Guzai, cioè la regione intorno a Decamerè, sottoposta a dominio italiano. Si incitamento del ras Mangascià, si ribellò al presidio italiano il 14 dicembre 1894, imprigionando il tenente Sanguinetti, rappresentante del Governo italiano nella zona. La ribellione fu soffocata in pochi giorni, grazie sia alla resistenza del presidio militare italiano, sia all’intervento del magg͘. Toselli, prontamente inviato dal gen͘. Baratieri͘ Batha Agos cadde sul campo. Le tensioni rimasero comunque alte, e furono una della cause della battaglia di Adua.
4 V. Carlo Manetti, Etiopia economica, Bemporad, 1936. A Manetti spetta un accurato saggio (cap. VII, Le forme i proprietă immobiliare nell’agricoltura etiopica) sulle varie forme di proprietà che regolavano l’agricoltura (Restì, Medrì Uorchì, Gultì, Usté gultì, ecc.) a seconda che si trattasse di donazioni del Sovrano ai sudditi, di terreni vendibili, di proprietà per diritti feudali, di beni demaniali, di proprietà della chiesa, ecc.)
5 V, L’Italia in frica, cit. pagg.35 e segg.
6 V. Annibale Grasselli-Barni, Colonizzazione di Stato ed iniziativa privata, 1935 in Luigi Goglia – Fabio Grassi, cit.
7 Ampi dettagli costruttivi sulle abitazioni costruite dagli Enti regionali si trovano nel sotto citato testo di Enrico Paolini e Davide Saporetti, all’epoca laureandi in Ingegneria Edile, nato, come riportano gli AA, da una ricerca condotta presso l’Universită di Bologna durante il corso di Storia dell’Architettura II͘
8 Non credo che la parola “schiavismo” nell’economia africana del secolo scorso debba avere lo stesso significato che aveva nell’economia, per esempio, degli Stati Uniti nell’800͘ Non si trattava, nel Corno d’Africa, di “merce” fornita in maniera abbondante e quindi a basso prezzo come succedeva con le navi europee, ma generalmente di poche decine di individui traghettati con sambuchi clandestini, quindi di alto “valore aggiunto”͘ Non era conveniente “sprecarla”͘ V. Pietro Gerardo Jansen, Abissinia di Oggi, Marangoni, 1935, pp. 239-241 (“A parer mio, le maggiori difficoltà che incontrerà il governo abissino nel suo tentativo di estirpare la schiavitù sarà rappresentato dagli stessi schiavi. La maggior parte di costoro, infatti, non vuole essere liberata. A che pro – Essi si dicono- essere liberi? Per soffrire la fame e la sete? [͙ Molti tra di essi, poi, sono nati nella dimora del padrone al quale portano affetto. Spesso, anzi, costui chiama gli schiavi “figli miei” e questi ultimi lo considerano come un padre [͙ La maggior parte degli equipaggi di questi pittoreschi velieri è formata, infatti, da schiavi, veri e propri bruti, paghi della loro sorte e soddisfatti di vere un padrone che provvede a nutrirli. [͙ Del resto, i mussulmani, di solito, non trattano male gli schiavi che vengono a far parte integrante della loro famiglia. Certo, essi tratterebbero peggio un servo prezzolato che si può licenziare da un istante all’altro e che non ha alcun valore intrinseco”); Giuseppe Piazza, in Il Benadir, Bontempelli e Invernizzi, 1913, pur parlando della situazione in Somalia, ma comunque relativa al traffico attraverso il Mar Rosso, (pp. 325 e segg.) nota che “La schiavitù è cosa orribile solo in mani ai popoli civili ed evoluti. Presso gli africani – e presso i Somali specialmente- la cosa è diversa. [͙ Il Somalo acquista lo schiavo, e a caro prezzo. Basta questo solo fatto per convincersi che il Somalo non può avere interesse che a curare, anziché a deteriorare coi cattivi trattamenti il capitale che ha investito nello schiavo [͙ I padroni somali non adoperano mai per i loro schiavi questo nome, ma li chiamano “figli” Essi fanno, infatti, parte della loro famiglia e hanno diritto al medesimo trattamento”. Insomma, la situazione dello schiavismo in Africa Orientale non è affatto, come del resto per tutti gli eventi economici, di facile trattazione.
9 Non mi è stato possibile identificare a quale nome attuale corrisponda la località.
10 La prima pietra venne posata il 9 dicembre 1937
11 https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000031676/2/il-vicere-visita-zona- harar-dove-sorgera-centro-rurale-bari-d-etiopia.html?startPage=0&jsonVal={%22jsonVal%22:{%22query%22:[%22bari%20etiopia%22],%22 fieldDate%22:%22dataNormal%22,%22_perPage%22:20}}
12 G. Gatta, Esiste la Predappio d’Etiopia, 23/12/2018, https://www.4live.it/2018/12/esiste-la- predappio-detiopia
13 Le coordinate della visione satellitare sono 12°59’39.6″N 37°46’27.8″E; il progetto di Bandiera si trova nell’ rchivio Centrale di Stato, fondo Architetti, fondo Amerigo Bandiera, fascicolo n͘. 6, busta 1͘ Si ringrazia l’arch͘. Giancarlo Gatta per le cortesi indicazioni e l’invio del materiale fotografico.
14 V. Curzio Malaparte, Nella Romagna d’Etiopia, in Viaggio in Etiopia e altri scritti africani, Vallecchi, 2006͘ Malaparte nell’articolo citato riporta molti dettagli sulla nascita di Predappio d’Etiopia, sulle persone che vi parteciparono, sull’aspetto del villaggio ecc.
15 Consociazione Turistica Italiana, Guida dell’Africa Orientale Italiana, 1936