Nicky di Paolo, 25 aprile 2022
Mi è sempre piaciuto scrivere. In molte occasioni questa mia voglia pazza di riempire fogli su fogli con una penna stilografica a inchiostro ha destato curiosità nei miei parenti e conoscenti: sono state penne che ho comprato in continuazione cercando sempre quella che più si conformasse alla mia mano, senza mai riuscire a sostituirla con una biro, più funzionale, ma almeno nel mio caso affatto stimolante.
Ricordo che quando frequentavo la scuola elementare delle suore orsoline della chiesa di Ghezzabanda ad Asmara in Eritrea, le maestre mi sollecitavano sempre a essere coinciso evitando di perdermi in un mare di parole; oggi penso che quei rimbrotti fossero causati dal tempo perso a correggere i miei infantili, ma sempre prolissi elaborati.
Un’altra rimembranza mi porta a Roma quando mi ritrovai al Ministero della Sanità per partecipare al concorso di idoneità a primario nefrologo e consegnai il mio scritto ai commissari giusto alla fine del tempo concesso, ma soddisfatto della mia prestazione: fuori del ministero erano in attesa partecipanti, commissari e parenti che formavano gruppetti di persone. Mi avvicinò uno dei commissari presentandosi come professor Giuseppe D’Amico di Milano che mi chiese come avessi fatto a riempire 20 fogli scritti fitti fitti in appena 6 ore a disposizione per svolgere un tema impegnativo e complesso.
Non seppi rispondere se non che avevo tante cose da dire e le avevo riportate volentieri. Da allora i rapporti con Giuseppe sono stati sempre cordiali e amichevoli.
Fino a una decina di anni fa ho pubblicato volumi di narrativa di oltre 300 pagine, senza sforzi particolari, continuando a preferire la penna stilografica alla scrittura automatica che necessariamente ho utilizzato solo per copiare i testi nell’unica forma oggi accettata dagli editori.
Ho 80 anni e non sono più in grado di usare la stilografica e poco anche il computer; risento pesantemente la mancanza della prima e meno del PC con il quale ho sempre avuto solo un rapporto di convenienza . E’ certo però che con l’abbandono forzato della penna, ho perso un’amica, sempre pronta ad accogliere i miei pensieri, le mie gioie, i miei dolori, non esprimendo pareri, ma consentendomi di imprimere nella carta tutto ciò che avevo nell’animo, tutto quello che dovevo o desideravo archiviare.
Ovviamente oggi conservo centinaia di appunti dei tempi passati dove avevo annotato non solo i fatti salienti della mia esistenza, ma anche di come si svolgeva attorno a me e al mio mondo la vita, cercando di prevedere gli eventi futuri che si sarebbero svolti in Africa, sempre alla ricerca di realistiche possibilità di poter continuare a risiedere stabilmente in quel continente.
Esistevano delle differenze nella calligrafia dei miei elaborati che, anche dopo vari anni riescono, rileggendoli, a farmi rivivere lo stato d’animo che avevo provato nei momenti in cui li avevo compilati ; di solito e in condizioni normali, erano parole chiare: uno scritto a tutto tondo quello che sgorgava dalla mia tranquillità, dalla mia contentezza, dal mio amare, mentre la scrittura diventava piccola e scarsamente leggibile se annotava tristezza, dolore o quel che è peggio, rancore.
Degli anni ‘60 e ’80 uno degli argomenti che più contribuivano a fare riempire le mie note, come ho già detto più volte, era quello che riguardava quali fossero le reali possibilità negli anni seguenti che capi di stato del Corno decidessero di accogliere gente bianca e in particolare europea in Africa Orientale. Anche mio padre si poneva quei quesiti e io ero sempre curioso del suo pensiero al riguardo. A proposito di mio padre, come ho già ricordato altre volte, rimanevo incantato leggendo una pagina scritta dalla sua mano. Mi piaceva pensare che prima o poi l’ avrei sicuramente incorniciata e appesa al muro.
Da giovane e nella maturità la mia scrittura poteva definirsi un’accettabile calligrafia, ma ben lontana da quella di mio padre che aveva fatto le scuole elementari, le medie e le superiori, dal 1920 al 1930, al collegio dei salesiani in Alessandria d’Egitto. In quel collegio gli insegnamenti principali erano le lingue, la religione cattolica e la calligrafia, materie in cui mio padre eccelleva; conservo gli scritti di suo pugno sia in italiano che in arabo, sembrano piccole opere pittoriche che affascinano chiunque le osservi.
Da tutto questo si può dedurre come mi manchi la possibilità di scrivere con una penna stilografica, in perfetta sintonia con il mio vivere e il mio sentire; aveva un buon ruolo, fra l’altro nel farmi creare pagine di narrativa accettabili.
Ma, come ho già accennato, a quei tempi, il mio interesse maggiore era quello di cercare di capire quali fossero le reali possibilità di intraprendere la mia futura esistenza in Eritrea.
Nei primi anni del 60 i bianchi in Africa erano in tutto 160.000 e nel Corno d’Africa in particolare non superavano i 25.000, vale a dire gli abitanti di una modesta cittadina Italiana, mentre solo il Corno d’Africa è grande 10 volte l’Italia. Quindi niente problemi di spazio e neppure di convivenza in quanto il territorio enorme lasciava campo per tutti, ognuno con le proprie religioni, i propri usi e costumi, le proprie comunità e relative aspettative: ln tal senso sia l’Eritrea che l‘Etiopia, pur essendo abitate da popoli guerrieri, potevano insegnare al mondo intero cosa volesse dire ospitalità, accettazione, amicizia, convivenza.
Il negus Hailè Sellasiè, monarca illuminato dell’Etiopia, al termine della seconda guerra mondiale, vedeva la presenza bianca nel Corno come la possibilità per le sue genti di continuare a crescere e progredire rapidamente: l’istruzione e il lavoro erano gli obiettivi per poter raggiungere in tempi brevi la capacità di confrontarsi con il resto del mondo. In altre parole i bianchi erano invitati a restare o a tornare e in medici in particolare erano molto ricercati sia per fornire assistenza diretta alla popolazione, sia per insegnare agli indigeni l’arte sanitaria.
Andava quindi tutto come si sperava e le mie note erano cariche di aspettativa e il preludio di un futuro sereno.
Oggi da una semplice scorsa a quegli appunti, emerge e sorprende come abbia potuto sbagliare così vistosamente nelle mie previsioni; in un breve spazio di tempo è successo esattamente il contrario di quanto avessi sperato: infatti negli anni ’70 si è manifestato un problema inverso che si è imposto per importanza e grandezza nel creare nuovi equilibri, questi ultimi talmente inaspettati da risultare spesso sconvolgenti.
Come avrei potuto prevedere, e tantomeno immaginare quanti mutamenti storici e quali effetti epocali la fuga degli europei prima e subito dopo l’inizio dell’ abbandono degli africani dalle loro terre avrebbero causato all’ Europa e alla stessa Africa?
Bisogna premettere in verità che i flussi migratori nel mondo sono sempre esistiti fin dai tempi antichi e tutti indistintamente hanno sempre provocato sostanziali modificazioni del vivere sia nelle terre di partenza che in quelle di arrivo: cambiamenti in genere e a lungo andare positivi, specie per i paesi di arrivo.
Negli anni ‘60 tuttavia, si era capito molto distintamente che il tempo dei pionieri e degli avventurieri in Africa era finito per sempre e così pure quello degli sfruttatori. l richiami dell’accorto Negus erano espliciti e si rivolgevano a coloro che avessero programmi ben definiti dando vita a un lavoro duro e serio che fosse in grado non solo di far partire il commercio e l’artigianato, ma che rappresentasse l‘ obiettivo inseguito dagli africani e cioè quello dell’istruzione di tutti gli abitanti per sopprimere l’analfabetismo. Era ben chiaro infatti agli indigeni che il passo più importante per tutta l’Africa fosse l’acquisizione di quel complesso di insegnamenti dei bianchi, indispensabili per poter gestire da soli tante branche di quell’industria, di quel commercio e di tutta l’attività statale che avevano visto creare e sovrintendere agli europei e che erano impazienti e desiderosi di fare da soli. In ogni caso in tutta l’Africa e in specie nel Corno c’era posto per tanti bianchi che fossero stati pronti a lavorare, a insegnare, a stringere amicizie e eventuali parentele con gli indigeni del luogo.
Il destino preparava invece altri scenari. Quando mi recai in Italia per laurearmi, mio padre mi scriveva spesso e la sua scrittura, sempre perfetta in sincronia con i suoi stati d’animo, era in quel periodo poco ricercata, e riletta ora appare sgarbata quando mi sollecitava a rimanere, una volta laureato, in Italia denunciando il fuggi fuggi dall’Eritrea di tutti gli Italiani, di molti italo-eritrei e anche di tanti indigeni che, allarmati dai frequenti attacchi dei Fronti di Liberazione Eritrei contro l’esercito etiopico, facevano prevedere lunghi tempi duri e una relativa recessione economica.
Quando mio padre mi comunicò la sua definitiva decisione di lasciare il Corno, scrisse una lettera a macchina inviata per conoscenza a tutti i parenti onde si convincessero che non c’era più spazio per i ripensamenti o per le incertezze: era il momento di ritirare i remi in barca e di lasciarsi alle spalle un secolo di storia della nostra famiglia.
Una volta laureato fui uno dei pochi a tornare in Eritrea, volevo rendermi conto di persona di quanto stava succedendo. Arrivai in Africa quando tutta la mia numerosa famiglia era in uscita. Solo mio padre con moglie e figlie tornarono a vivere in Italia, mentre la maggior parte dei miei parenti andò a vivere in Sud Africa, qualcun altro in Nord Europa. Fu un periodo oscuro dove una fitta corrispondenza cercava di lenire le pene di una disgregazione tanto repentina quanto dolorosa: la nostra famiglia, sempre forte della propria compattezza, lasciando l’Eritrea si era scomposta e mio padre non riusciva più a coprire quel ruolo di capofamiglia che all’Asmara tutti gli riconoscevano.
Continuava a scrivere a macchina quasi volesse usare un tono imparziale nei suoi scritti ricchi di incoraggiamenti e di consigli mentre il lato affettuoso lo relegava alle cartoline postali, allora di moda e che lui riempiva a penna con la sua eccellente calligrafia.
Se parliamo di flussi migratori, dobbiamo distinguere due importanti modalità di attuazione; la prima riguarda centinaia di migliaia di persone che, tutte assieme, in un movimento biblico e in un arco di tempo di solito molto ristretto, quasi sempre In fuga da avvenimenti particolari, sono dirette verso paesi recettivi, divenuti simboli di queste ingenti migrazioni.
Volendo considerare il Corno e gli sconvolgimenti epocali avvenuti in quell’area, dobbiamo constatare che è stato oggetto di ambedue i tipi di migrazioni: il primo dei quali che avvenne, nella seconda metà degli anni ’30, al momento del massiccio espatrio italiano In Africa; fenomeno durato pochi anni e subito invertito dopo la perdita della guerra e l‘avvento del protettorato inglese a cui seguì l’annessione dell’Eritrea all’Etiopia; infine la guerra di liberazione eritrea seguita da un regime autoritario, tutti eventi questi che hanno generato veloci spostamenti di grandi dimensioni.
Un altro esempio di esodo ben documentato di questo tipo, ci è fornito in questi giorni dall’emigrazione in blocco della popolazione ucraina che fugge dalla propria terra terrorizzata da un crudele invasore.
Ci sono punti di contatto fra i due fenomeni. Uno di questi ad esempio riguarda molti ragazzi, maschi e femmine e giovani, questi ultimi di fatto ancora bambini, che in ambedue le zone, scappano per evitare la costrizione obbligatoria, violenza che rappresenta nulla di nuovo rispetto al ratto, procedura schiavistica comune in quei luoghi fino a poche decine di anni prima, quando per sottrarsi a quella brutalità, l’unica possibilità era la fuga e la ricerca di umanità altrove. Lentamente, ma in modo continuo, hanno abbandonato il Corno d’Africa circa cinque milioni di persone che si sono sparse in diversi paesi del Mediterraneo. Un esodo lento di popoli costretti alla fuga dal bisogno impellente di sbocchi vitali.
Anche in questo momento, tanti abitanti del Corno sono oggetto di un continuo, lento ma apparentemente inarrestabile trasferimento dai propri paesi verso stati europei sia legalmente che in maniera fortunosa. Scappano per l’impossibilità di condurre un’esistenza accettabile nei loro paesi di origine e con la certezza di trovare nel mondo dei bianchi tutto ciò che i media sono capaci di esaltare.
Da evidenziare che non ci sono molte differenti motivazioni fra chi scappa da un territorio desertico e chi fugge da luoghi ad elevata civilizzazione. Due sono le cause più frequenti: la fame e le persecuzioni.
I miei appunti si riferiscono spesso alla politica di Winston Churchill e al suo fine intuito nel prevedere, alla fine della seconda guerra mondiale, gli sviluppi futuri dello scacchiere africano: il saggio statista inglese ripeteva spesso che gli europei prima o poi avrebbero abbandonato le colonie africane e allora si sarebbe verificato il fenomeno della colonizzazione da parte di alcuni forti popoli africani verso genti più deboli causando sofferenze maggiori della stessa colonizzazione bianca.
Non ci volle molto per capire che Churchill aveva ragione e sono le uniche annotazioni importanti inerenti questo argomento che la mia stilografica aveva allora riportato.
Come ho già ricordato se ero addolorato o sofferente, lo scritto diventava svogliato specie se si riferiva alla necessità di decidere in un istante cosa fare della mia vita, quando tutti i mei sogni andavano altrettanto rapidamente in frantumi.
A distanza di mezzo secolo i miei ormai antichi appunti riescono a farmi riprovare le pene sofferte quando lascia l’Eritrea con la consapevolezza di un addio definitivo e nessun ritorno turistico ha potuto mai mitigare le angosce che quella separazione mi creò. Hanno ragione gli abissini con uno dei loro proverbi:
‘Dio ha creato due grandi dolori
la morte e la separazione’
Sono convinto che in qualche caso la separazione sia più terribile della morte.
Ho conservato in parte e solo per un certo tempo ciò che avevo vergato di mio pugno, costretto ogni tanto a fare posto nel mio studio a materiale medico che esigeva sempre più spazio.
Oggi mi pento di aver gettato tanti scritti.
Talvolta mi capita di rileggere alcune mie pagine pubblicate a stampa anni addietro senza però riuscire a far rivivere quelle emozioni provate rileggendo un vecchio manoscritto.
Da tutto questo si può dedurre come soffra l’impossibilità di scrivere con una penna stilografica.
C’è chi amichevolmente mi ha insegnato a servirmi di sofisticati software permettendomi di dettare testi che la macchina mi fornisce belli che stampati: niente da fare, non sono riuscito a creare col computer quella simbiosi che sgorgava dalla penna stilo con la sua semplicità. Fino a quando sono stato in grado di usarla, mi elargiva del tutto gratuitamente la sua simpatia e il suo incoraggiamento, regalandomi la gioia di vantare almeno un lettore.
Nicky Di Paolo