Nicky Di Paolo, Aprile 2012

È ben noto che l’Abissinia, vastissimo altipiano che troneggia sull’Africa orientale, è ancora oggi, così come è stata nel lontano passato, una fortezza naturale inespugnabile dove la particolare dislocazione e le sue ricchezze naturali avevano permesso,migliaia di anni fa,lo sviluppo della grande civiltà axumita, unica nel suo genere,che ha mantenuto, sotto certi aspetti, usi e costumi inalterati nei tempi. Gli abissini, diretti discendenti degli axumiti, hanno trascorso migliaia di anni distaccati dal resto del mondo e se non ne hanno ricevuto gli impulsi di civiltà che dall’Europa si spargevano in ogni dove, hanno mantenuto nel tempo, intatti e inalterati,i loro modi di vivere, i loro rituali religiosi e la loro mentalità particolare che nulla aveva da invidiare a quella di altre civiltà

Stele axumita di Matarà

Un centinaio di anni fa, sono stati gli europei e in prima fila gli italiani a forzare quella magnifica e incomparabile roccaforte trascinandosi dietro un bagaglio culturale del quale gli abissini avrebbero fatto volentieri a meno ma, obbligati da una forza penetrante e inarrestabile, hanno dovuto accettare la nuova realtà,cercando di fare proprio solo ciò che di utile e piacevole apportava lo straniero.

Massaua

Degli europei, ciò che più attirava gli abissini era la massiccia e intrigante circolazione di denaro, fino a quel momento scarsa e limitata al tallero di Maria Teresa, monete preziose perché solo queste permettevano l’acquisto facile di un fucile, massima aspirazione di un abitante del Corno. Gli italiani, tuttavia,non erano disposti a cedere con facilità i propri guadagni e risparmi;preferivano barattare i prodotti occidentali più vari in cambio del lavoro delle genti dei territori occupati. Gli abissini, da parte loro,lavoravano volentieri, non solo perché apprendevano facilmente i mestieri dei bianchi, ma soprattutto perché diventavano presto ottimi collaboratori e in tal modo ottenevano di essere retribuiti con dei quattrini; gelosissimi dei loro piccoli capitali,cercavano di raggiungere le cifre necessarie per comprarsi, oltre al fucile, un pezzo di terra, un carretto con un mulo, animali da pascolo, ossia quelle cose che permettevano di vivere bene le loro ataviche abitudini. Non erano pochi poi quei nativi che raggiungevano mete ambiziose come aprire un’attività artigianale o avviare 3un’impresa commerciale, per poi abitare in una casa di stile europeo e acquistare un automobile: mio padre, importatore ed esportatore, lavorava con tutti, senza alcuna distinzione.Quando gli italiani, dopo solo cinque anni di impero, dovettero lasciare precipitosamente l’Africa, gli abissini cercarono di fermare quella drammatica fuga perché, anche se in breve tempo, avevano capito che, a parte la violenza della guerra, gli italiani erano capaci di convivere con loro dando un impulso formidabile al miglioramento della loro vita. La storia attribuisce a Hailè Sellassiè il merito e l’intelligenza di aver trattenutogli italiani in Africa ma, a mio parere, il Negus ci riuscì perché la maggior parte del popolo la pensava come lui. Gli abissini avevano constatato che questi bianchi ignoravano la fatica e lavoravano al loro fianco creando un tessuto sociale ed economico dove in pratica non esisteva il razzismo ma solo una pacifica convivenza.

Balcone turco a Massaua

Ancora oggi, a distanza di oltre 70 anni, è difficile far intendere agli storici attuali che sbagliano quando mettono nello stesso calderone il destino di tutti i paesi africani relativamente alla presenza dei colonialistiche sono voluti restare anche dopo la sconfitta e (o) la cacciata degli eserciti dei propri paesi. Non si riesce a far capire a questi studiosi di storia africana che nelle ex colonie italiane e in modo particolare in Eritrea, era del tutto differente la convivenza tra bianchi e neri; vi era un reciproco scambio di realtà profonde che non si limitavano a mutui e vicendevoli interessi materiali. È palese, ad esempio, che lo stile di vita dei civili italiani fece capire agli abissini che non esisteva solo la guerra come scopo delle loro esistenze, ma molti aspetti pacifici della vita dei bianchi potevano gratificare i loro istinti geneticamente bellicosi.Fu così che,dopo il 1940, eritrei ed italiani vissero nelle città a fianco a fianco, dando vita ad una comunità mista dove dominava il quieto vivere e la tolleranza:il periodo di trenta anni dopo la fine della seconda guerra mondiale fu un periodo positivo per il Corno d’Africa e non solo per il buon governo del Negus Haillè Sellassiè, ma anche per la sostanziale presenza di una comunità civile italiana estremamente efficiente.

Dahlak

Il piano operativo degli abissini era semplicissimo;trattenere gli italiani per imparare la loro scienza e la loro tecnologia: per fare ciò era sufficiente dare sicurezza agli stranieri e nel contempo fare in modo che i loro figli frequentassero le scuole dei bianchi. Tutto fu più facile del previsto: i civili italiani rimasti senza l’esercito alle spalle, in parte ritornato in patria e in parte fatto prigioniero dagli inglesi, si strinsero in una comunità ideale basata sul lavoro, sulla solidarietà e sulla tolleranza. 25.000 bianchi tra milioni di neri mantenevano in pratica il timone dell’Africa orientale. La sanità, l’istruzione, le importazioni, le esportazioni, la produzione interna, erano tutte attività gestite dagli italiani, dove però gli abissini formavano non solo il gruppo operaio preponderante, ma occupavano anche posti direttivi o di responsabilità. Se fra gli indigeni serpeggiava la tendenza a scimmiottare il bianco, gli europei e gli americani,nel frattempo sopraggiunti per creare la Kagnew Station di Asmara, la base di ascolto militare più avanzata nel medio oriente, si integravano con facilità con la popolazione indigena e quella convivenza poteva senza alcun dubbio definirsi molto piacevole.

La strada per l’altopiano

D’altra parte gli italiani si lasciarono fecondare dai lati positivi della mentalità abissina; destinare un buono spazio della propria giornata,libero da impegni lavorativi,per dedicarlo ai piaceri della vita, alla meditazione, alla partecipazione ai riti religiosi, per gli indigeni comprensivi di digiuni prolungati e meditativi; estromettere la fretta e accettare che il trascorrere del tempo fluisse normalmente senza cercare di arrestarlo o di velocizzarlo diventarono concetti fondamentali anche per i bianchi.Gli ex colonialisti e colonizzati crearono assieme un habitat funzionale e sereno.Unico neo era la fine bellezza delle donne abissine: queste attiravano fortemente i bianchi con i quali non di rado instauravano relazioni, ma facevano imbestialire di gelosia le donne italiane e americane che vedevano i propri uomini disertare il talamo famigliare per frequentare le veneri nere. Molti erano i matrimoni misti e numerosa la prole meticcia. Questa epoca felice durò trenta anni; poi il Corno, come altre parti dell’Africa,si incendiò nel disegnare la nuova geografia postcoloniale. Oggi i pochi italiani ed eritrei sopravvissuti sognano quel trentennio, i primi additando il Mal d’Africa come responsabile dei loro rimpianti, i secondi ricordando con nostalgia il periodo quando nel Corno vigeva la pace e il popolo poteva trascorrere un’esistenza tranquilla. Ma cosa era in realtà questo Mal d’Africa così diffuso e così virulento?Mi riferisco al passato perché l’Africa di oggi,sconvolta da cataclismi naturali e da immani catastrofi causate dall’uomo ha difficoltà ad esprimere quelle caratteristiche che immancabilmente colpiva noi viaggiatori che fino a 40-50 anni fasi recavano in quel continente. Non sono un nostalgico, ma l’Africa di oggi mi spaventa e non riesco più a ritrovare quelle miriadi di sensazioni che, tutte le volte che posavo il piede in Africa, mi saturavano l’animo e mi facevano percepire un appagamento totale e unico, e che mi mancavano tanto al momento del ritorno in Italia: era quello il Mal d’Africa?

Grotta di Adi Alauti

Ricordo un libro letto quando avevo forse 16 anni che mi piacque moltissimo, Il Villaggio Sepolto nell’Oblio di Teodoro Krogher: la storia di un contingente di prigionieri politici inviato, alla fine dell’800, in una remota zona della Siberia, lontana da tutto il resto della Russia e isolata dalla neve per la maggior parte dell’anno. Nell’eterogenea comunità, posta ai confini del mondo, si stabilì,di necessità o di virtù, una collaborazione così importante tra relegati e residenti, da far dimenticare i rispettivi ruoli e tale che,dopo qualche anno, tutti, indistintamente, cominciarono a paventare che qualcosa o qualcuno potessero rovinare quell’idillio che era diventato tanto bello solo perché il resto del mondo si era dimenticato di loro.Non ci volle molto a capire che il romanzo mi aveva colpito perché ricordava da vicino la nostra situazione nel Corno d’Africa e in particolar modo in Eritrea. Senza rendercene conto stavamo vivendo, Eritrei ed Italiani una sorta di avventura in un angolo di mondo ancora incontaminato, dove la natura era stata prodiga nel creare in mezzo all’Africa posti la cui bellezza è difficile da descrivere e le cui genti sono assai più simili a quelle europee che a quelle dell’Africa sudsahariana. La maggior parte della popolazione era insediata sull’altipiano dove un clima primaverile che durava tutto l’anno permetteva un’agricoltura fiorente che concedeva la coltura di prodotti ortofruttiferi quanto mai vari e una pastorizia eccellente. La coerenza e quindi la forza della comunità si estrinsecava con tutto il suo potenziale nel combattere le piaghe che talvolta colpivano quei luoghi come la siccità e le cavallette.Si era creato un gruppo di lavoro che operava all’unisono producendo risultati sorprendenti.

Ghenzabò

Era impossibile non essere sedotti da quell’ambiente che elargiva emozioni uniche, tanto difficili da descrivere, quanto intense e singolari nell’appagamento dei sensi.Basti ricordare uno degli aspetti più banali:sull’altipiano tutti godevano nel respirare un’aria fine,profumata dai fiori e dalle spezie,un’aria sempre tiepida, corroborante e forse causa dell’euforia che si avvertiva appena scesi da un aereo e che si riscontrava ovunque: nelle scuole, nelle case, nei luoghi di lavoro prevaleva sempre il buon umore, dominava l’ottimismo e non c’erano ostacoli ad ambientarsi nei vari settori della vita cittadina.Il costo della vita per un europeo era decisamente basso e permetteva di avvalersi di un ottima cucina, molto varia e in buona parte ispirata a quella abissina:non c’era europeo infatti, che ignorasse lo “zighini” dispiacendosi se talvolta non lo trovava sulla tavola assieme a piatti europei che perdevano molto del loro sapore in confronto alle essenze e al gusto dei cibi locali.D’altra parte non c’era eritreo che ignorasse la delicatezza e l’aroma della birra italiana Melotti fabbricata in Eritrea o il piacere di gustarsi un “cappuccino “ con una pasta alla crema in uno dei tanti bar sparsi un po’ dovunque nelle città e nei paesi.

Amba Toquillè

I bassopiani, inclementi d’estate per le torride temperature, divenivano in tutti i mesi inverali luoghi di vacanza fantastici:quello orientale, una stretta fascia desertica, distesa alla base di immense cattedrali di roccia, divideva l’acrocoro dal Mare Eritreo. Litorali ed isole nello stretto connubio di una immensa barriera corallina erano in pratica desertici e rappresentano, ancora oggi,l’ultimo mare tropicale che, in tutto il mondo, non è stato preda di un turismo di massa. Girovagare per le isole eritree, tra fondali fantastici e spiagge tuttora incontaminate,fermarsi su atolli popolati solo da mangrovie e uccelli marini,immergersi in verdi acque chiare gremite da miriadi di pesci tropicali coloratissimi, non si poteva definire una gita, ma ritengo più consono il termine di pellegrinaggio. Se poi ci si imbatteva in un sambuco di pescatori di perle o di pinne di pescecani, non c’era bisogno di parlare, non serviva a nulla; si accettava l’invito di bere con loro il ciai e si osservavano i loro volti,si incrociavano i loro sguardi e d’un tratto si capiva, senza proferir parola, tutto ciò che si desiderava sapere della loro vitae ci si sentiva al sicuro da quei magnifici pugnali di ossidiana finemente intarsiati che tenevano al fianco. Se scoccava l’ora della preghiera, osservarli mentre in ginocchio con il volto rivolto alla Mecca pregavano, ascoltarli in assoluto silenzio, apriva anche ai presenti il cuore alla meditazione.

Gasc

Il bassopiano occidentale è una vera steppa africana dove pochi abitanti convivevano con animali selvatici, la maggior parte di passo,contendendosi la poca acqua presente in pochi e piccoli bacini. Era questa l’Africa di chi ama l’avventura, di chi sogna inseguire branchi di elefanti per poter ammirare la potenza di una loro carica e l’armonia delle loro membra. Era l’Africa di chi si commuove incontrando una coppia di giraffe che si scambiano tenerezze attorcigliandosi i lunghi colli,o gruppi di gazzelle che insegnano ai loro piccoli come difendersi dai predatori .Devastato dalla guerra questa parte del Corno è oggi abitata solo da pochissimi animali e da rari pastori nomadi.Tra l’altipiano e il bassopiano esiste,più caratteristico in Eritrea, un vasto territorio che mostra aspetti peculiari e molto interessanti sia per la natura rigogliosa che per il clima salubre e clemente: è questo il medio piano dell’acrocoro che però è stranamente poco abitato ; la parte più bella è sicuramente quella rivolta ad est verso il Mar Rosso: meglio nota come “Pendici orientali”, fa parte di un territorio ancora tutto da valorizzare e in parte da scoprire.Pochi italiani avevano allestito fattorie dove flora e fauna si sviluppavano rigogliose

Tigrè

Non è facile distinguere, se si continuano a elencare i vantaggi che esistevano nel vivere in Eritrea, tra la nostalgia di una vita facile, goduta da tutti quelli che hanno vissuto nel Corno d’Africa,ed il Mal d’Africa vero e proprio: se vogliamo tentare di dare una definizione a questo ultimo, dobbiamo necessariamente uscire dalle città, belle e romantiche che siano, per inoltrarci nell’ interno dell’acrocoro o fra le isole eritree. In questi luoghi sperduti,se l’animo è disposto a recepire, sarà presto saturato da primordiali bellezze che in un primo momento possono dare luogo a malesseri generali simili alla sindrome di Sthendal, per poi, superato il primo impatto,incidere vere e proprie tracce nel profondo dell’animo, modificando radicalmente e perennemente il proprio modo di pensare e di essere.A mio parere il mal d’Africa è una condizione di sofferenza da privazione psichica simile a quella di chi è costretto a vivere,per ragioni contingenti lontano,dalla propria amata. In altre parole il mal d’Africa è una pena d’amore.

Beni Amer

Se si resta sufficientemente a lungo immersi nella natura incontaminata e si osserva il comportamento delle genti che vivono in questi ambienti,abbandonando temporaneamente i contatti con il mondo civilizzato,scatta nell’inconscio del visitatore una reazione complessa, composta da vari impulsi che arrivano presto a livello di coscienza e che fanno parte dell’innamoramento. Ne ricorderò alcuni, consapevole di dimenticarne la maggior parte, ma ben sicuro che la loro intensità modifica in maniera definitiva l’assetto interno di chi cerca di vedere oltre il solito panorama.

Uno degli impulsi più evidenti è l’invidia che scatta nel momento in cui si realizza il senso di grande benessere che quei luoghi e quelle genti emanano; un’invidia buona che porta a formulare una semplice domanda: perché non fermarsi a vivere in quei posti per sempre? Perché non cercare di prolungare all’infinito quelle sensazioni straordinarie di benessere fisico e mentale che neppure si pensava esistessero? Perché una volta assaporata la felicità, la si debba abbandonare? Per quale ragione si deve fare a meno di sentirci così vicini a Dio?In molte regioni dell’Africa, in Eritrea e Etiopia in particolare, I questi luoghi abbondano,dove la realtà e la spiritualità si fondono a tal punto che la semplice visione diventa una preghiera o, se si vuole, un inno di ringraziamento per il fantastico dono di poter trovarsi lì in quel momento e provare una gioia così intensa; il massimo lo si percepisce quando si è soli, al limite in due, ma mai in gruppo perché questo disperde la concentrazione a favore della banalità e della semplice curiosità. È bene ricordare che quando ci si sposta da soli nelle zone interne dell’Africa e ci si trova di fronte a visioni mozzafiato, ad animali selvatici o a genti primitive, non si è mai presi da moti di paura o di sconforto, ma,al contrario, si avvertirà una fisicità impensata, un coraggio sconosciuto,e si realizzerà ti trovarsi molto più in alto di quanto mai si sia sentito fino a quel momento. È così che ci si innamora. Quando si sale in aereo per tornare in Europa, ci si rende conto di stare abbandonando qualcosa di estremamente importante, ed è lì che inizia a manifestarsi il vero Mal d’Africa: è l’angoscia di abbandonare qualcosa che ami profondamente e ti senti vile per non avere la forza sufficiente per restare.Alla fine degli anni 70’, man mano che gli italiani lasciavano l’Africa orientale, gli abitanti del Corno, memori ancora dei loro istinti guerreschi, ripresero in mano le armi e si prepararono per nuove guerre, per nuovi scontri con vecchi e nuovi nemici, spingendo in tal modo gli stranieri a lasciare ancor più velocemente il paese.Gli indigeni avevano capito che se era meglio il fucile della lancia, era pur vero che ad ogni arma da fuoco si doveva contrapporre un’arma dello stesso genere ancor più sofisticata. L’intelligenza abissina non dovette faticare più di tanto per imparare a gestire armi moderne, mentre il guaio peggiore fu quello che contrappose eritrei ed etiopici in una guerra fratricida. Se prima del colonialismo eserciti abissini si battevano fra loro per conquistare il trono dell’Etiopia, combattendo battaglie di un giorno dove la fanteria e la cavalleria avevano i ruoli principali,quasi all’improvviso gli stessi abissini si trovarono a combattere con moderne tecniche di guerriglia e con armi altamente distruttive. Carri armati, auto blindate, cannoni, radar, aerei, mine,tutto diventava necessario per fronteggiare i nuovi nemici. Tante armi le avevano lasciate gli italiani, gli inglesi più che altro consegnarono agli abissini residuati bellici ormai obsoleti come contropartita delle loro vergognose razzie:in cambio dell’appoggio militare dato al Negus per riconquistare le colonie italiane,pretesero di smontare e portarsi via monumentali opere costruite dagli italiani,come la fantastica teleferica Asmara-Massaua.Quaranta anni di guerra e di forzata lontananza logorano qualsiasi amore.Sono in molti a dirmi che amo ancora tanto il Corno d’Africa, ma se invece fossero solo rimasti i rimpianti?