Erminia Dell’Oro, 6 agosto 2004. Foto di Alberto Vascon |
Ho conosciuto Elsa a Milano, pochi anni dopo la liberazione dell’Eritrea. Ho di lei, come di altre guerrigliere, un bellissimo ricordo. Erano anni di grandi speranze per l’amata Eritrea. |
– Per quindici anni, nel Sahel, ho mangiato lenticchie-. Eravamo, Elsa e io, in una trattoria di Milano. Insistevo perché prendesse qualcosa di più che il brodo richiesto. – Il brodo va bene – Elsa sorrise, intuendo il mio pensiero. La osservavo, cercando di capire quali fossero le sue sensazioni nei momenti di silenzio in cui il suo sguardo era assente. Una giovane donna eritrea, molto bella, i gesti controllati, il portamento altero che hanno in genere le donne di quel paese. Era venuta a Milano, dove l’avrebbero sottoposta a un intervento chirurgico per tentare di estrarle da un rene le schegge di un proiettile. Sono molte le storie delle donne eritree che hanno combattuto nella guerra trentennale di liberazione contro il potere dei militari etiopici. Donne copte, musulmane, contadine, operaie, studentesse. Donne di nove diverse etnie, unite da una grande solidarietà nel comune obiettivo. E il loro apporto – quasi metà dell’esercito dei guerriglieri era costituito da donne – è stato determinante. Andavano al fronte anche ragazze giovanissime, poco più che bambine. Fuggivano da casa, dalle campagne, da scuola. Le musulmane gettavano il velo e prendevano il fucile, suscitando nei loro villaggi ire e maledizioni. Era la loro occasione la guerra, l’unica, per un percorso di emancipazione. Elsa studiava in un collegio di suore italiane. Era curiosa, volitiva, intelligente, e aveva avuto la fortuna di poter andare a scuola. Si era innamorata, a quindici anni, di Henok, lui ne aveva diciotto. Alla sua età molte ragazze erano sposate, matrimoni combinati dai genitori, alla loro nascita. Henok, dopo avere preso il diploma, decise di lasciare la città. I suoi due fratelli e la sorella erano al fronte da anni. L’atmosfera, ad Asmara, era angosciante. Coprifuoco, perquisizioni, soprusi e violenze da parte dei militari occupanti, abitazioni incendiate, arresti improvvisi per strada, nelle case, nei luoghi pubblici. Nelle carceri del potere venivano rinchiusi giovani, vecchi, donne, anche suore. Luoghi orribili di torture, di stupri. Nel vasto cortile una fossa comune per i prigionieri assassinati. ‘Tesareb, tesareb’ era il ritornello dei carnefici ‘ parla, parla’. Gli eritrei non parlavano, non si arrendevano. Alcune studentesse sparirono all’uscita di scuola, rapite dai militari. Non se ne seppe più nulla. Henok raggiunse il fronte di liberazione, nei deserti del Sahel, dove i guerriglieri, per difendersi dai bombardamenti dell’aviazione etiopica, dal napalm avevano costruito una città sotterranea con fabbriche in cui si riciclava di tutto, sartorie, nursery, infermerie, luoghi attrezzati per gli interventi chirurgici, scuole. L’alfabetizzazione divenne una rivoluzione all’interno della rivoluzione. Elsa soffriva per la mancanza di Henok. C’erano drammi per cui soffrire, sembravano dirle gli sguardi riprovevoli di suor Matilde. Il fratello sedicenne di Elsa era morto in un combattimento vicino ad Asmara, il padre aveva perso il lavoro, la madre lavorava in casa giorno e notte. Preparava le anghere, un’infinità di anghere, qualcuno veniva a ritirarle e le portava ai guerriglieri nascosti nelle periferie della città. Elsa guardava le finestre dell’aula le ambe rosse, lontane, il cielo blu punteggiato dai falchi. Pensava a Henok, alla guerra, al padre che era sempre stato stimato da tutti, ai sacrifici della madre. Non erano momenti, quelli, per restare in una scuola di Asmara, pensava, bisognava liberare il paese. Fuggì dal collegio di notte, sfidando il coprifuoco. I compagni che l’attendevano fuori mostravano sicurezza per il piano a lungo studiato, ma i rischi erano molti. ‘Troverò Henok’ pensava Elsa durante la lunga marcia a piedi con mezzi di fortuna. Andava dal suo ragazzo e avrebbe combattuto al suo fianco per la liberazione dell’Eritrea. I suoi genitori, pensava, avrebbero capito. Avrebbero fatto qualsiasi cosa per la causa. Le suore non avrebbero capito, forse Suor Rita, che andava ogni settimana fuori dalla città, sfidando i militari, per portare soccorsi nei villaggi. Le montagne, il letto asciutto di un fiume, i deserti percorsi dall’aria calda e dai cammelli. Di notte il freddo, i cieli stellati, le grida delle iene, degli sciacalli. Sembrava di essere fuori dal mondo. Fuori dalla guerra. Poi, andando, una divisa piena di polvere in terra, una camicia strappata appesa a un ramo – solitaria bandiera di un albero morto – dei teschi, carri armati arrugginiti, gli avvoltoi e i corvi che scendevano in un punto lontano. Bambini sbucavano all’improvviso, giocavano sui resti di un carro armato arrugginito, salutavano ridendo e agitando le braccia, come se fossero stati in un paese in pace. Il Sahel. Rocce immense, monti, vallate nella terra arida, assolata. Nacfa, la capitale, distrutta dai bombardamenti dell’aviazione etiopica. Era rimasto in piedi soltanto il minareto, custode di tanta rovina. Come sorti dal capriccio di un mago sbucavano qua e là, fra le rocce, fiori gialli, straordinari, che sfidavano il sole. A Elsa parvero un segnale di benvenuto. La vita era dura al fronte, ma Elsa si abituò in fretta. Caldo, sete, infezioni, addestramenti. Si imparava a combattere, a resistere. C’erano momenti di svago fra un combattimento e l’altro. I gruppi folcloristici cantavano, ballavano, eseguivano esercizi acrobatici, improvvisavano parodie. ‘ L’Otello’, messo in scena da un ex insegnante di Asmara, e le ragazze che si contendevano il ruolo di Desdemona. Shakespeare nel Sahel, interpretato da guerriglieri eritrei, chi avrebbe potuto immaginarlo nell’Occidente lontano e indifferente. Elsa chiedeva a tutti di Henok. – Siamo in tanti – sospirava qualcuno – non è facile trovare il tuo Henok-. – C’è un Henok in infermeria – le disse un medico – era ad Asmara -. Elsa, con il cuore che le batteva forte, raggiunse l’infermeria. – Cerco Henok – disse. – Sono io – il ragazzo la guardò appena. Gli avevano amputato un braccio, il viso era sfigurato dalle bruciature. Non era il suo Henok. Elsa cercava ancora, senza trovarlo. Talvolta di notte piangeva, pensando che fosse morto. Aveva fatto amicizia con molti coetanei e con ragazzi più grandi, la solidarietà e l’amicizia furono una grande risorsa in ogni momento della lunga guerra. Era spesso con Cadigia, una ragazzina del bassopiano che raccontava con spirito le storie del suo villaggio. Era stata relegata in casa fino a un anno prima, e avrebbe dovuto sposare l’uomo anziano scelto dai suoi genitori. Era fuggita. Voleva essere utile al suo paese, non a un marito anziano e prepotente. Fu un attacco a sorpresa, in un pomeriggio tranquillo. Elsa vide Cadigia saltare in aria, la maglietta troppo grande per il suo corpo minuto, le mani protese verso il cielo. – Non andare – Gabriel la fermò – non si può far niente -. Si avvicinò a lei qualche attimo dopo. Era tornato il silenzio. Tolse dal capo di Cadigia il nezelà, il velo bianco che le aveva regalato, e glielo avvolse intorno alle spalle. Le rimase per sempre, dentro, il suo ultimo sguardo, smarrito. La battaglia di Agabet fu decisiva per la liberazione dell’Eritrea. Erano in migliaia i guerriglieri nascosti sulle montagne che circondavano la valle. La valle in cui sarebbero passati i militari etiopici, e i mezzi corazzati con i comandanti, e con gli ufficiali russi. Una lunga fila che si sarebbe snodata sul sentiero sassoso fra i monti. Bisognava attendere in assoluto silenzio. Sarebbe bastato poco per compromettere l’esito dell’agguato. Elsa era in un cunicolo fra le rocce, dietro a Saba e a Weini. Sentirono, lontano, il rumore di un carro armato. Quasi non respiravano. Fu in quell’attimo che videro il serpente. Era un grosso pitone che strisciava verso di loro. Sarebbe stato facile ucciderlo, era accaduto altre volte. Ma non potevano muoversi, non potevano sparare. Il serpente si avvicinava. Avrebbe attaccato Weini, la più esposta. La ragazza si tolse la maglietta, la gettò al rettile. Il pitone l’afferrò con la bocca, la scosse. Sembrava che ci giocasse. Poi l’abbandonò. Saba ed Elsa avevano le mani sudate, contratte sui fucili. Il serpente strisciò ancora. Era davanti a Weini. Alzò la testa, si eresse. Weini non si mosse. Giunse, improvviso, lo scoppio delle granate, il fragore delle mitragliatrici. Gli eritrei avevano attaccato. Rapida Weini colpì il pitone alla testa, sparando più volte. Dopo la vittoriosa battaglia gli eritrei requisirono tutti i carri armati, le armi, le munizioni, e portarono via i prigionieri, anche gli ufficiali russi. Era frequente sposarsi al fronte. Furono ore di festa quelle in cui Messeret, la guerrigliera che sarebbe entrata nel mito per le sue imprese, per la straordinaria personalità, sposò il compagno Petros. Il loro primo figlio sarebbe nato nella città sotterranea. Durante la guerra di liberazione, le donne, vissute fino ad allora in una società arcaica, conquistarono diritti che erano stati negati per secoli, ottennero ruoli di comando. Elsa avrebbe voluto sposare Henok, al fronte, come Messeret e le altre compagne avevano sposato i loro uomini, liberamente scelti. Pensava ancora a lui, sebbene fossero trascorsi dodici anni dal giorno in cui Henok l’aveva baciata per l’ultima volta. Erano vicino al collegio, sotto le jacarande con i fiori azzurri. Fu colpita mentre stava ricaricando il fucile. Sentì fitte alla schiena. Alle braccia. Vide il cielo affollato di corvi. Poi, più niente. Ancillè, un suo compagno di battaglia, la portò via da quel campo di morte. Molti mesi dopo, quando fu in grado di riprendere una vita normale, le diedero un posto nel reparto dell’amministrazione. Imparò a usare il computer e non andò più a combattere. Maggio 1991. Asmara stava vivendo un immenso dramma. Isolata dal resto del mondo, senz’acqua, senza corrente elettrica, senza viveri, senza medicinali, senza latte per i bambini che ogni giorno morivano. A pochi chilometri dalla città si stava combattendo l’ultima battaglia. Sconfitti i nemici, l’esercito di liberazione entrò in città. Arrivavano i guerriglieri, una interminabile fila di uomini con le divise sporche, strappate, donne con i nezelà intorno al capo, stanchi, silenziosi, lo sguardo rivolto all’orizzonte. Asmara finalmente libera. La folla lanciava fiori, foglie di palme. I pianti, le grida, gli applausi, i canti, si confondevano nella luce smagliante del giorno più bello dell’Eritrea. Elsa era accanto a Saba, ad Ancillè, a Elisa. Erano trascorsi quindici anni dalla notte in cui era fuggita dal collegio pensando di raggiungere Henok. Aveva voglia di piangere, per la pena e la gioia. Percepiva le assenze dei compagni che non sarebbero tornati. Cimiteri lontani, nei deserti del sole, su ogni tomba un bossolo di cannone, dipinto di azzurro. Pensava alla giovane amica, Mariam, diciotto anni. Sarebbe rimasta per sempre invalida, come lei tanti altri. Ai bambini che attendevano inutilmente il ritorno dei genitori dalla guerra. Ma il paese era libero. La folla voleva toccarli, abbracciarli, i colombi selvatici mandavano il loro richiamo. Loro guardavano avanti, in silenzio. – Elsa -. Non era un grido, ma un’esclamazione sommessa. Si girò di scatto. – Henok – Aveva i capelli lunghi, una cicatrice sul mento, ma il sorriso di allora. Si abbracciarono, poi si presero per mano e non dissero nulla. |
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