La ‘ngerà
Che dire della ’ngerà se non che è molto buona da mangiare, anche da sola, e che è nella cucina habeshà indispensabile quasi quanto il berberè?
Avendo completato nella precedente edizione il mestiere di “foodwriter geometra” con la descrizione del mogogò, mi cimento ora, come promesso, nella veste di “ foodwriter panettiere” descrivendo come ottenere la ’ngerà.
’ngerà, viene scritta anche all’inglese enjera ma ritengo che foneticamente sia più corretto scrivere ‘ngerà in quanto se letta da un italiano si avvicina molto alla corretta pronuncia habeshà. Per gli eritrei è più o meno come il pane per gli italiani. Dal punto di vista nutrizionale è un alimento formidabile, se realizzata con la materia prima originale, il teff , (nome scientifico: eragrostis).
Questo cereale sottile, che assomiglia al miglio o allo psillium, è di colore kaki, con caratteristiche simili al grano, ma che contiene molte altre sostanze di cui il grano è carente, come ad esempio la lisina ed altri aminoacidi essenziali. E’ ricchissimo di ferro e contiene calcio e potassio in quantità significativamente più elevate sia del grano che del riso. Infine l’assenza di glutine lo sta rendendo abbastanza popolare negli USA.
Questa caratteristica a mio avviso lo potrà salvare dall’estinzione e renderlo una valida alternativa al grano per chi è sensibile al glutine, trovando utile applicazione nella malattia celiaca.
Dopo una così dotta dissertazione, vediamo se riesco a fornire degli input validi per farvi ottenere una ’ngerà degna di questo nome, anche se provvisti solo di ingredienti nostrani, visto che malgrado affannose ricerche personali non sono riuscito a reperire l’eragrostis in Italia .
Per ottenere quel lieve e caratteristico sapore acidulo, è necessario fare fermentare bene la pastella, che si ottiene mischiando in acqua tiepida farina di grano miscelata con un dieci-quindici percento di farina di mais. La miscela con la farina di mais serve per evitare al prodotto finito la colorazione da “viso pallido” (o da maakòr tsaadà, culo bianco, come dicono gli habeshà), e per renderla lievemente ruvida, come quella fatta con il teff. Probabilmente il teff conferisce un potere assorbente ineguagliabile grazie al favorevole rapporto cuticola/seme, ma anche la miscela descritta se la cava senza infamia.
La colorazione scura e la ruvidità sono le caratteristiche apprezzate solo da chi l’ha sempre mangiata con le mani. Inoltre il mais fermentato aiuta ad ottenere un lieve sapore asprigno, particolarmente gradevole soprattutto se si associa la ’ngerà allo sciurò.
Ingredienti e dosi per una dozzina di ’ngere, da circa 40 centimetri di diametro:
1 cucchiaio di lievito da panificazione
2 bottiglie di acqua minerale gassata, portata a circa 45 gradi
2 tazzine da caffè di farina di miglio
1 puntina di cucchiaio di baking soda
4 bicchieri di farina di grano da pizza o da pane
1 bicchiere di farina di mais molto fine

Procedimento:
Mischiare bene le farine nell’acqua tiepida, ed una volta ottenuto un liquido semidenso e omogeneo, versare l’amido, mischiare e coprire con un panno. Lasciare fermentare per almeno 3 giorni in temperatura ambiente di almeno 20 gradi. E’ importante girare l’impasto almeno ogni sei ore e controllare frequentemente se e quando inizia la fermentazione. Attendere che la fermentazione produca un odore lievemente acidulo. A questo punto l’impasto e’ pronto per essere cotto sul quel famoso mogogò… che non abbiamo!
Un surrogato del mogogò può essere una padella di alluminio teflonata, molto spessa (per garantire una buona inerzia termica), portata su un fornello a gas ad elevata temperatura (almeno 200 gradi). Raccogliere l’impasto semi-liquido, tenuto ben mischiato continuamente con un mestolo di legno, con l’aiuto di una tazza con manico (sono idonee quelle in ferro smaltato) e versare in strato sottile, con movimento circolare e progressione spiraloide centripeta, partendo dal bordo della padella.
Ottenuto il riempimento della padella con strato omogeneo di circa 2 millimetri di spessore, coprire con un coperchio possibilmente trasparente e attendere 5 minuti di cottura a fiamma alta, fino a che si ottiene un’ebollizione che produce una serie di bollicine che, esplodendo, danno alla ’ngerà quel tipico aspetto butterato che la fa assomigliare alla trippa bollita .
Una volta cotta, rimuoverla dalla padella e stenderla su un piatto di legno ricoperto da un tovagliolo. Lasciarla raffreddare per alcuni minuti.
In tal modo le ’ngere possono essere sovrapposte in pile di una dozzina di pezzi, senza che si appiccichino fra loro.
Con questo processo produttivo abbiamo finalmente a disposizione la base per potere gustare un buon zighnì, la cui ricetta rimando, non dico ad ottobre, ma come minimo al rientro dalle ferie estive!
Se nel frattempo volete gustarvi le ‘ngere ottenute prima delle ferie, eccovi una ricettina rapida rapida:
Prendete un cucchiaio di burro, fatelo sciogliere in un pentolino su fuoco lieve con un po’ di olio d’oliva. Versate un cucchiaio abbondante di berberè, girate bene e lasciate cuocere per qualche minuto fino a che si ottiene una salsa scura. Quando le ’ngere sono ancora tiepide stendere questa salsina ben calda su tutta la ’ngerà e aggiungere del sale. Avrete cosi un buon antipasto (si chiama chetignà) che si accompagna molto bene a qualsiasi cibo!
Buone ferie!
Ninetto Talluri, 18-7-0

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