Valeria Isacchini, dicembre 2017
Come è abbastanza noto, l’Italia non utilizzò mai le truppe indigene in Europa durante le guerre mondiali, a differenza di altre potenze coloniali (segnatamente Francia e Gran Bretagna, come purtroppo sanno bene le popolazioni dell’Italia centrale).
Meno noto è che tuttavia all’inizio della 2 guerra mondiale era presente in Italia un nucleo di ascari, a cui se ne aggiunsero parecchi altri nell’immediato dopoguerra. La loro storia può essere interessante in un momento in cui la presenza di africani in Italia e la loro gestione sono più che mai di attualità.
LA TRIENNALE D’OLTREMARE, GLI ASCARI P.A.I. E I FIGURANTI INDIGENI
Fin dall’Ottocento erano diffuse in Europa le Esposizioni Universali, con funzioni sia industriale e commerciale, permettere in mostra le novità della produzione, sia etno-antropologica, per esibire i “tipi umani” impegnati nelle loro attività “normali e quotidiane”, con cornice di ambienti “originari” ricostruiti. Si accontentava così quel gusto dell’esotico che senz’altro captava il pubblico (in un epoca in cui – val sempre la pena di ricordarlo – i mezzi di diffusione delle conoscenze erano assai scarsi e comunque poco diffusi). Si pensi per esempio alla esposizione di Torino del 1884, con il “villaggio dancalo” e relativa truffa di finti principi afar (v. anche https://www.ilcornodafrica.it/uc-isacchini.htm) o anche, nel 1900, alla esposizione di Parigi, di cui ci restano rari filmati dei fratelli Lumière, tra i quali una danza del ventre in ambiente arabo.
Anche i primi decenni del secolo XX videro questo genere di mostre, che si tenevano in tutto il mondo con cadenza frequente (e che tuttora vengono organizzate, anche se focalizzate su aree tematiche; basti pensare all’EXPO di Milano 2015).
È in questo ambito che l’Italia cominciò a preparare durante gli anni Trenta due ambiziosi progetti: l’Esposizione Universale di Roma, da tenersi nel 1942, per la quale fu creato il quartiere EUR, e che non venne mai inaugurata, causa le subentrate vicende belliche; e la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare, che avrebbe dovuto avere cadenza triennale, e che venne allestita a Napoli, dove venne edificato un quartiere apposito nella Conca Flegrea, tra Bagnoli e Fuorigrotta.
La Mostra d’Oltremare venne inaugurata, alla presenza di re Vittorio Emanuele III, in una data poco opportuna: il 9 maggio 1940. Esattamente un mese e un giorno dopo, anche l’Italia entrò in guerra e l’esposizione chiuse rapidamente i battenti.

Come già era successo all’Esposizione di Torino del 1884 e in altre consimili manifestazioni, anche per la Mostra d’Oltremare era stato allestito un “villaggio indigeno”, che avrebbe dovuto essere abitato da indigeni delle colonie (eritrei, etiopici, somali),per illustrare ai visitatori i modi di vita nelle zone del Corno d’Africa, nonché un Padiglione libico, con tanto di palme e minareto.

Vennero quindi portate in Italia cinquantasette persone, tra le quali diciassette donne e sette bambini, di vari gruppi etnici e di religione sia cristiano-ortodossa che islamica, che avrebbero dovuto abitare alla Mostra.Per la loro sorveglianza (erano già state emanate le leggi razziali, e ci si premurava di evitare il rischio di contatti troppo stretti tra indigeni e italiani) venne creata un’apposita stazione PAI (Polizia Africa Italiana) che comprendeva, oltre ad italiani, anche cinquantacinque ascari (parte dei quali, in realtà, adibita, più che alla sorveglianza dei conterranei, al servizio d’onore, cioè a scopi rappresentativi).


L’improvvisa chiusura della Mostra creò ovviamente grosse difficoltà alla comunità di coloniali. Il gruppetto di libici ebbe meno problemi, perché, data la vicinanza alle coste campane, venne imbarcato (secondo Valeria Deplano1 addirittura “qualche giorno prima dell’inizio delle ostilità” – dettaglio sorprendente -) e raggiunse la terra di origine. Rimase in Italia un solo libico, Abdelgader Trudi, che in quei giorni era malato e ricoverato. Rimase ospite di una famiglia italiana fino al 1943, quando venne catturato dai tedeschi e deportato a Lipsia. Nel dopoguerra tornò a Napoli e lavorò come fattorino alla sede partenopea del Calzaturificio di Varese. Secondo alcune fonti2, in Libia venne inviato anche un gruppo di somali, che, in quanto mussulmani, erano ritenuti poter trovare in Libia un habitat corrispondente alle loro esigenze.
Ma per gli abitanti del Corno il rientro, con Mediterraneo e Mar Rosso completamente militarizzati, risultava impossibile.
Vennero quindi confinati in un campo apposito nella zona della Mostra, con baracche di legno, dove ricevevano una paga giornaliera che variava tra uomini, donne e bambini. Non era per loro possibile trovare lavoro, sia per le leggi razziali in corso sia per il sospetto che potessero, fuori dal campo, creare “spiacevoli incidenti”; a parte tre coloniali che vennero trasferiti a Roma nel 1941 per lavorare alle radiotrasmissioni di propaganda in tigrino ed amarico, e dei quali faceva parte l’interprete eritrea Abeba Bisset, che sapeva leggere e scrivere l’italiano.
Il clima sociale all’interno del campo, da quanto emerge dalla documentazione archivistica rintracciata dalla Deplano, divenne presto insofferente ed alterato, con lamentele sul cibo, sulle paghe, sulla gerarchia, sulle violenze di alcune guardie.
Da parte dell’amministrazione, le posizioni su queste lamentele erano diverse:
– Chi, come il capo della direzione Affari Politici, Martino Mario Moreno, consigliava di soddisfare le richieste, in vista di un possibile utile politico alla fine della guerra (comunque fosse andata, l’Italia avrebbe avuto un gruppo di persone collaboranti)
– Chi lamentava individui “insofferenti, litigiosi, ipercritici, neghittosi, incontinenti, […] scontenti di tutto”. Le due posizioni, se ci si pensa, non sono affatto incompatibili. La prima era una considerazione politica, l’altra una visione forse più realistica, visto che proveniva dalla direzione Servizi di guerra.
Nel frattempo, i bombardamenti su Napoli (che fu la città italiana maggiormente soggetta a incursioni aeree nella 2ᵃ GM) certo non facilitavano la serenità di persone che erano state lì chiamate con ipotesi di soggiorno provvisorio e tranquillo. Tanto più che nel frattempo il Governo aveva scoperto che le razioni alimentari erano state ridotte arbitrariamente, ad opera dei dirigenti del campo.Ai primi di aprile1943 la comunità di civili coloniali (53 civili, a cui poi si aggiunsero cinque bambini nati sul luogo) e di militi PAI venne quindi trasferita a Villa Spada –Vannutelli3 a Treia, in provincia di Macerata. Il gruppo di ascari era accasermato sotto il comando di un ufficiale, Giuseppe Chiappa, di un sottufficiale, il maresciallo Cestelli, due graduati italiani e dei graduati indigeni. Anche qui si manifestarono scontri ed insofferenze tra le diverse etnie, in particolare dall’agosto 1943, quando la notizia dei rovesci militari italiani incrementò atteggiamenti di indisciplina e avversione nei confronti dei militari PAI.In ottobre si verificarono quattro fughe.

Il 28 ottobre1943 Villa Spada fu attaccata da un gruppo di partigiani, interessati forse a liberare gli africani, forse soprattutto alle armi lì custodite, pare su delazione di un internato fuggito che voleva vendicarsi di uno scontro con un agente PAI. Il conte Vannutelli e il maresciallo Cestelli furono feriti, due militari (tra i quali lo sciumbasci4 che aveva denunciato al comando per oltraggio uno dei fuggitivi) prelevati ed uccisi. Non è chiaro quanti indigeni riuscirono a fuggire o furono prelevati, comunque una decina. Almeno tre di essi si aggregarono alle bande partigiane: Nurù Tahar, Aden Scirè, Abbabuglù Abbamegal5. Quest’ultimo, detto Carlo (ma forse si trattava del fratello, detto Giovanni), etiopico, cadde poche settimane dopo in uno scontro con la Wermacht presso San Severino Marche, il 24 novembre 1943. Anche il somalo Nurù Tahar (o Nur Thur6), pare milite della PAI, venne fucilato a Braccano (MC) il 24 marzo 1944; nella stessa azione cadde anche un altro agente PAI somalo, Mohamed Raghè, fuggito da Villa Spada in altre circostanze7. Il 26 novembre 1946 Corte D’Appello di Ancona8, emanò una sentenza di colpevolezza nei confronti di Abbagirù Abanagi dal Galla Sidamo (Etiopia) detto “Giovanni”, imputato di omicidio perché il 15 aprile 1944 aveva ucciso (senza peraltro alcun movente politico o ideologico) un certo M.A.nella zona di Treia. Nel luglio 1944 nella zona di Macerata arrivarono gli Alleati, che trasportarono gli africani in un altro campo: Carbonara, presso Bari. Da lì, venne predisposto il loro rimpatrio.
GLI ASCARI NEL DOPOGUERRA A NAPOLI E ROMA
Alla fallita Mostra di Oltremare si lega in qualche modo anche un altro gruppo di ascari e civili provenienti dalle nostre ex-colonie. Già negli ultimi anni di guerra un paio di centinaia di ascari che erano stati fatti prigionieri dalle potenze vincitrici vennero rimandati in Italia. Qui si trovavano già da anni, oltre ai già citati partecipanti alla Triennale d’Oltremare, anche alcune decine di persone provenienti dalle colonie, tra studenti che erano rimasti bloccati allo scoppio del conflitto e immigrati per ragioni varie, talvolta presenti in Italia già da ben prima del 1940. Inoltre, subito dopo il 1945 giunsero alcuni clandestini provenienti dal Corno d’Africa, generalmente individui che avendo strettamente collaborato con gli Italiani ritenevano di non essere più al sicuro nel proprio paese. Erano generalmente ex-ascari o parenti di ascari, e vennero inviati al campo per stranieri irregolari “le Fraschette”9 ad Alatri, presso Frosinone, o al campo di Lipari10.

In particolare tra i civili, vi erano appartenenti a famiglie di rilevanza nel proprio paese di origine, famiglie che potevano avere influenza sociale e politica; come i Caramanli11 dalla Libia, i Nasibù12 dall’Etiopia.
Altri erano libici israeliti fuggiti in Italia dopo i pogrom effettuati dai mussulmani a Tripoli tra 4 e 7 novembre 194513, che videro la morte di circa centocinquanta persone (i dati non sono certi) di religione ebraica e la distruzione di case e sinagoghe. Gli inglesi, sotto la cui amministrazione era in quel momento la Libia, intervennero solo il 7 novembre per fermare la strage e non concessero visti per l’espatrio, ma alcuni ebrei riuscirono a fuggire clandestinamente e a raggiungere l’Italia.
Oppure erano donne che erano venute in Italia per matrimonio e, per vedovanza o per separazione, erano rimaste sole e senza mezzi di sostentamento.
In un momento in cui l’Italia cercava di mantenere una qualche forma di controllo sulle ex-colonie, il Governo pensò che lasciare in queste persone una buona opinione dell’Italia potesse essere utile per i propri programmi politici.
Vennero quindi stanziati fondi per il mantenimento di questi ex-sudditi coloniali, con assegni più cospicui per i notabili, stanziando un fondo specifico preso il Ministero dell’Africa italiana. Una parte dei civili, bilingue, venne stipendiata dal Ministero Africa Italiana per condurre apposite trasmissioni radio in lingua araba da Radio Bari a paesi del Mediterraneo.
Il progetto era comunque quello di farli tornare nei paesi di origine, anche se i rientri furono rallentati soprattutto dalla difficoltà di ottenere l’autorizzazione delle autorità britanniche, come era previsto per gli spostamenti da e per le ex-colonie. Per anni, queste persone furono dunque tenute in una condizione di incertezza sulla loro sorte; spesso il possibile rientro veniva da loro vissuto non come un ritorno, ma come un angosciante arrivo in una realtà a loro diventata estranea, se non pericolosa (causa i loro rapporti con il governo fascista oppure con il mondo militare).
Quando infatti, dal 1949 in poi, i rimpatri diventarono più regolari, si verificò un frequente ricorso a motivi di salute o di famiglia per cercare di evitare il rientro. Gli ascari vennero suddivisi in due nuclei alle dipendenze del Ministero Africa Italiana: uno a Roma (almeno una parte era nei nuovi locali CRAL all’Acqua Acetosa) e uno, facente parte del Deposito misto speciale, comprendente i reparti militari coloniali nativi dell’Africa Italiana, a Napoli e dintorni.


Lì rimasero in attesa che si decidesse la loro sorte: per la maggior parte non erano intenzionati a rientrare in Africa, dove non avevano più legami, mentre in Italia non solo potevano vantare il lungo servizio agli ordini delle autorità militari italiane, ma talvolta avevano creato famiglia con donne italiane. Si poneva inoltre, in un’Italia le cui finanze nel dopoguerra erano già difficoltose, il problema delle paghe arretrate, dei diritti alla pensione, degli eventuali indennizzi per ferite e prigionia.
È possibile ricostruire i dati del numero di ascari presenti nella zona di Napoli14: 183 nel 1948; 170 nell’agosto 1949; 37 nel 1950; 25 a fine 1951. È evidente la forte accelerazione dei rimpatri a partire dal 1949, probabilmente, come si vedrà, in applicazione dell’articolo 10 della Costituzione del 1948. Nella zona di Roma, si sa che a fine 1951 erano 57; gli 82 ascari ancora presenti in Italia tra Roma e Napoli in quell’anno vennero ulteriormente rimpatriati nel corso del 1952, riducendone il numero alla metà.Nell’agosto 1953 erano 14 a Roma (zona Acqua Acetosa), ridotto a 10 nel 1954.
Una parte di loro era stata sistemata in uno degli alberghi creati per accogliere i visitatori della Mostra d’Oltremare, l’Albergo delle Masse nella zona napoletana di Fuorigrotta. Si trattava di una struttura ormai fatiscente, danneggiata dai bombardamenti, che, come già era successo per Villa Spada, venne in qualche modo riattata. Un altro gruppo, più fortunato, venne accolto a Castel dell’Ovo, struttura quanto meno più adatta ad ospitare una caserma.
Ancora nel 1951 il giornalista Giovanni Ansaldo15 visitò questo sito, trovandovi il Reparto Nativi d’Africa, al comando del col. Leone. Si trattava di un reparto militare molto particolare, dato che era disarmato, che non faceva più parte delle Forze Armate italiane e i cui componenti si trovavano in una situazione in bilico, dato che secondo i trattati di pace avrebbero dovuto essere rimpatriati ma che spesso facevano di tutto per restare in Italia, dato che ormai coi paesi di origine non avevano più alcun rapporto. Secondo Ansaldo, nonostante “tiri, sugli spalti di Castel dell’Ovo e su tutta Italia, un gran vento di miseria”, gli ascari vi alloggiavano “decentissimamente”, ricevendo assegni tra le 12.000 e le 16.000 lire a seconda del grado, oltre naturalmente ad alloggio, vitto e uniforme (quest’ultima però “a consumazione”, cioè non sarebbe stata rinnovata). Avevano a disposizione spaccio, barberia, una cucina in cui si cercava di conciliare le forniture della sussistenza italiana con le esigenze tradizionali e anche rituali dei cibi halal. La situazione sanitaria, nonostante la presenza di un’infermeria tenuta da un maresciallo di Sanità, Del Prete, non era delle migliori, data la diffusione di tubercolosi e malattie infettive. Il giornalista incontrò alcuni graduati (ricorda il brigadiere dei carabinieri eritreo Hascenafé Uoldensai, l’aiutante libico Attia Alì, il sergente Muftà Mohamed). Nonostante gli sforzi per mantenere una qualche forma di decoro, dalla sua visita riceve una sensazione di malinconia, di precarietà.


Si recò anche all’albergo di Fuorigrotta, dove alloggiavano, riferisce, i nativi con famiglia: alcuni ascari, infatti, avevano sposato donne italiane. La situazione, in quel che restava della struttura in cemento, era ancora più squallida e angosciante. Sale “aperte ai venti”, ragazzini che giocavano nel salone delle feste, che, ironia del destino, era decorato con i motivi che all’epoca della costruzione volevano essere evocatori delle colonie: palme e cammelli. Ragazzini che erano destinati a tornare con la famiglia nel luogo d’origine del padre. “Parecchi sono nati a Napoli, di madre napoletana, e parlano napoletano come a Foria; che cosa può essere l’Africa per loro, se non una terra d’esilio?”, considera Ansaldo. Tra gli ospiti, anche un paio di vecchi: Muftà Jusef e Cassai Bairù. “E tutti e due, colpiti da una disperazione che si esprimeva senza parole, nel tratto, nel gesto, nel voltare stanco del capo, nell’abbandono di tutta la persona. Ah, la nobiltà con cui annunciarono i loro anni di servizio, trentatré l’uno, trentasei l’altro! […] Egli e il suo compagno sono due italiani – come negare loro questa qualifica, anche se non conoscono bene gli accenti? – sono due italiani, per i quali la perdita delle terre africane è un dolore tale, da farli morire di accoramento”.

Ansaldo non ha dubbi; a conclusione dell’articolo, manifesta il suo pensiero facendolo esporre dal colonnello Tancredi Saletta, che immagina nella sua cabina a bordo del Gottardo mentre nel 1885 si recava a Massaua. “Questi ultimi soldati coloniali, se non vogliono tornare più laggiù, bisogna che l’Italia trovi un modo per tenerseli. Ne va dell’onore di tutti gli italiani che sono stati in armi in Africa; compreso del mio, che ci sono andato per primo. E mi meraviglio anzi veramente che ci si stia ancora a pensare”.
Il governo italiano riteneva invece che l’allontanamento fosse necessario. La Costituzione del 1948 all’art. 10, specifica che il diritto di asilo è concesso nel caso che gli stranieri non possano godere dei diritti democratici nel paese di origine oppure che non possono essere estradati per motivi politici. Il fatto che molti di questi ascari avessero militato per decenni tra le Forze Armate italiane, talvolta rimanendo feriti, mutilati o fossero stati decorati al valore non era quindi motivo sufficiente per permettere loro di restare, dato che in Libia, dopo l’amministrazione britannica, si era formata nel 1951 una monarchia costituzionale con parlamento eletto; in Etiopia la Costituzione venne emanata solo nel 1955, ma evidentemente si riteneva che gli sforzi riformatori di Hailè Selassie garantissero un futuro democratico. Il Ministero degli Esteri nel 1947 aveva fatto notare che nella Costituzione in fieri avrebbero dovuto essere messi dei limiti all’arrivo e soggiorno di stranieri, per evitare di dover accogliere “un imprecisato numero di stranieri nel nostro paese, con effetti, per molti aspetti, non desiderabile”16.
Inoltre, contrariamente ai riferimenti di Ansaldo al rigore marziale ancora mantenuto dagli ex-sudditi, talvolta si lamentava da parte dei comandi una certa indisciplina da parte degli ascari; in un rapporto del 1951 il consigliere governativo Gian Galeazzo Belli riferiva di un eccessivo uso di abiti ed atteggiamenti borghesi, tanto che molti si allontanavano dalla caserma per dedicarsi al piccolo commercio; uno, l’aiutante PAI libico Mohamed Hussein, si procurava denaro col pugilato e aveva partecipato come comparsa in alcuni film. Il che è, col senno di poi, comprensibile: si trattava di persone che da anni si trovavano in una specie di limbo, senza certezze sulla loro posizione sia finanziaria che residenziale. Inoltre, si erano formate alcune famiglie miste in seguito a matrimoni contratti da ascari con donne italiane, da cui erano nati figli talvolta già in età scolare.
La decisione governativa fu drastica: mentre una decina di ex-sudditi in zona romana nel corso del 1953 poté trovare un impiego presso il Museo Coloniale (poi museo Africano), cioè, in sostanza, presso l’Istituto Italo-Africano17, quelli ancora residenti a Castel dell’Ovo vennero congedati e fatti sgomberare a forza. Secondo la Deplano (che però in questo caso non riporta i riferimenti archivistici)18 furono “privati delle masserizie minime per la sopravvivenza e costretti a firmare una dichiarazione in cui affermavano di volere rimanere in Italia a proprie spese”.
L’atteggiamento governativo, che non rispettava obblighi morali nei confronti dei nostri ex-militari, suscitò aspre reazioni negli ambienti di destra, reducisti e monarchici, che ne ricordavano l’impegno profuso in favore dell’Italia.Tanto più che si erano verificati casi di ascari che, al momento del rimpatrio nel luogo di origine, erano stati immediatamente imprigionati per correità col colonizzatore, quando non fucilati per alto tradimento, come era stato il caso del serg. magg. (cioè un bulucbasci capo secondo i gradi ascari) somalo Ahmed Ali Ben Yusuf. Fu finalmente su iniziativa dell’ex generale dei Carabinieri Leonetto Taddei, senatore monarchico, che nel 1957 venne approvata la legge 108 del 14 marzo 1957 che stabiliva il pagamento di pensioni e indennità di congedo, con riconoscimento per ferite, mutilazioni e infermità di servizio,per gli ultimi 51 ascari ancora presenti in Italia. Veramente, Taddei aveva proposto che tale trattamento finanziario fosse destinato anche a coloro che erano stati costretti al rientro nel 1953, dopo lo scioglimento del Ministero Africa Italiana da cui dipendevano; e che i 12 zaptiè ancora in servizio nel 1957 dell’Arma dei Carabinieri non fossero praticamente costretti al congedo entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge per potere usufruire del trattamento finanziario, ma potessero, volendo, restare al loro posto.
Ancora nel marzo 2009 Gianni De Angelis intervistava lo sciumbasci novantacinquenne Beraki Gebrasellassiè presso una Casa di Riposo di Roma.

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1 Valeria Deplano, La madrepatria è una terra straniera: libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra (1945-1960), Le Monnier, 2017, p. 36
2 V. http://www.globalproject.info/it/produzioni/partigiani-doltremare-africani-nella-resistenza-italiana/18871, incontro del 7/8 marzo 2015 al Csa Sisma di Macerata.
3 Chiamata villa “La Quiete”, fu ricostruita dopo il 1815 su disegno del celebre architetto Giuseppe Valadier; chiamata comunemente Villa Spada dal nome di uno dei tanti proprietari, o Vannutelli dal nome dell’ultimo, che vi abitava al momento dell’arrivo degli ascari. Nel sec. XIX ebbe rilevanza anche come sede di sperimentazioni agricole. Poi cadde lentamente in rovina. Il 6 giugno 1940 vi venne aperto un campo di internamento femminile, che dopo l’8 settembre 1942, come abbiamo visto, si trasformò in caserma per militari indigeni. Oggi è stata completamente recuperata e restaurata.
4 Grado di sottufficiale delle truppe coloniali, corrispondente a quello di maresciallo del Regio Esercito.
5 L. Goglia, in Ascari partigiani: il caso dei “neri” della PAI raccolti a Villa Spada a Treia in U. Chelati Dirar-S.Palma-A.Triulzi-A. Volterra, Colonia e postcolonia come spazi diasporici, Carocci, 2011, ha identificato tra gli aggregati ai partigiani anche un ascari PAI, Mohamed Raghé, ma non è chiaro quando sia fuggito; forse nel gennaio 1944.
6 La prima trascrizione, Nurù Tahar, è riportata da Valeria Deplano, cit., la seconda, Nur Thur, in http://www.cadutipolizia.it/fonti/1943-1981/1944nur.htm. Secondo i documenti rintracciati dalla Deplano presso l’Archivio Storico Min. Affari Esteri, Nurù Tahar non avrebbe fatto parte della PAI.
7 V. http://www.storiamarche900.it/main?p=storia_territorio_braccano e http://www.cadutipolizia.it/fonti/1943-1981/1944raghe.htm
8 Su http://www.globalproject.info/it/produzioni/partigiani-doltremare-africani-nella-resistenza-italiana/18871 è presente in audio la lettura integrale della sentenza della Corte d’Appello, sentenza che riguardava anche altri due indigeni ex-coloniali, che vennero però prosciolti per insufficienza di prove.
9 Era stato aperto nel 1942 per prigionieri di guerra, poi divenne campo di internamento per civili dai paesi ostili all’Italia, e nel dopoguerra campo per i profughi da Istria, Dalmazia e, appunto, Africa. Su https://www.youtube.com/watch?v=5ap-eZOc35s, è possibile vedere un servizio per la Settimana Incom del 17/3/49 (a cura dell’Istituto Luce) che mostra la presenza nel campo di russi, indiani, francesi, ungheresi, greci, austriaci ecc. e appunto, di un gruppo di ex ascari. Nello stesso campo vennero accolti, negli anni 60, anche Italiani espatriati dalla Libia dopo l’insediamento di Gheddafi. Venne chiuso definitivamente nel 1976. Dopo decenni di disuso, se ne sta ora cercando il recupero per iniziativa del gruppo di volontari “Gocce di memoria”. Tuttavia, nonostante il valore storico del sito, lo stato di degrado attualmente permane, dato che nel 2016 il campo è stato sede di rave party ed abbandonato al pascolo e ai furti del poco che ne resta (v. Pietro Antonucci, Ciociaria oggi, 2/6/2016 http://www.ciociariaoggi.it/news/alatri/20352/campo-fraschette-rave-party-vandali-barbecue-festini.html)
10 Usata dapprima come colonia di confino negli anni Trenta, Lipari vide poi un campo di concentramento per civili dal 1942. Oggi, alcuni padiglioni ospitano i laboratori di restauro del Museo Archeologico Eoliano.
11 L’antica famiglia turca dei Caramanli (o Karamanli) aveva governato già tra XVIII e XIX sec. le zone libiche durante la dominazione ottomana, ma praticamente in modo indipendente. In Italia era presente, Suleiman Caramanli con la moglie Guzidè; il padre di Suleiman, Hassuna, era stato sindaco di Tripoli dal 1896 al 1932 ed aveva eccezionalmente ottenuto il titolo di principe sotto il dominio italiano.Tale compromissione con i colonizzatori italiani aveva spinto la famiglia a spostarsi in Italia dopo che gli inglesi avevano preso la Libia.
12 Diversi esponenti della famiglia etiopica Nasibù erano in quegli anni in Italia, dopo anni di esilio e peregrinazioni, (descritte da Martha Nasibù in Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza), causati dall’importante ruolo militare rivestito dal deggiac Nasibù Zamanuel nella guerra d’Etiopia. Nel dopoguerra, Atzede Babitcheff, vedova del deggiac, era a Roma con i cinque figli; ebbero un trattamento di estremo favore, data l’influenza politica che i Nasibù potevano avere ad Addis Abeba dove era rientrato Hailé Selassie (e indirettamente sul governo inglese).
13 Secondo http://www.focusonisrael.org/2013/11/04/pogrom-ebrei-tripoli-libia-4-novembre-1945/ (che però riferisce dati non accertati) gli israeliti in Libia nel 1945 erano 40.000, gli islamici 500.000.
14 V. V. Deplano, cit., p. 53 e nota 73 p. 179.
15 Giovanni Ansaldo, Mal d’Africa, Illustrazione Italiana, maggio 1951.
16 V.V. Deplano, cit., p. 50.
17 Poi confluito nel 1995 nell’Istituto Italiano Africa e Oriente.
18 V. V. Deplano, cit. p. 57