Nicky Di Paolo, 9 maggio 2016
Il gruppo di amici che comprendeva me e Antonio era piuttosto ristretto: infatti, dopo aver aggiunto Giovanni e Gilberto, il conto era bello che fatto; eravamo pochi, ma legati dalla magia dell’ambiente nel quale eravamo immersi e che ci intrigava ogni oltre limite razionale.
Gilberto, il cui padre importava in Eritrea materiali elettrici, era ostacolato dai genitori ad andare in giro in macchina fuori delle città principali per il timore delle aggressioni da parte dei soliti scifta, banditi che raramente bloccavano le vetture per depredare i viaggiatori.
Antonio ed io eravamo invece sempre disposti a gironzolare per il Corno d’Africa e quindi quando Giovanni arrivò per la prima volta all’Asmara da Roma per proseguire gli studi di medicina, fu rapidamente inserito nel nostro gruppo in quanto possedeva un Maggiolino Volkswagen, tutto suo e dono del padre per avere ascoltato l’invito a venire a proseguire i suoi studi all’università eritrea. Fu più semplice del previsto, per me e Antonio, aggregare Giovanni al nostro gruppo; il giovane romano aveva sete di avventure e si aspettava, venendo in Africa, qualcosa di più eccitante di quello che offriva la città dell’Asmara. Noi riuscimmo a convincere il nuovo venuto a sfruttare la possibilità di vivere molte emozioni nell’interno dell’Eritrea anche perché eravamo sempre alla ricerca di posti particolari, di luoghi poco conosciuti e di genti che ancora vivevano lontano dalla civiltà occidentale; Giovanni, mettendo a disposizione il Maggiolino, toglieva ai suoi nuovi amici la solita difficoltosa impresa di trovare una vettura per spostarsi nell’interno, lontano dalle città.
Il Maggiolino Volkswagen era l’ unica vettura, a parte i costosi fuoristrada, in grado di percorrere le piste ed anche qualche fuoripista per la sua particolare conformazione che ricordava lo scheletro di una tartaruga con il fondo coperto da una solida lastra di metallo che riparava la vettura da tutti quei traumi che le strade sterrate africane elargiscono a chi vuole percorrerle; un altro vantaggio del Maggiolino era il raffreddamento ad aria che con il motore posto nel retro della vettura, lo metteva al riparo da buona parte degli accidenti che capitano sovente a chi vuole o deve transitare per le sofferte vie di quelle terre tanto sconnesse.
Per noi, divertirsi voleva dire impegnare la vettura nei percorsi più difficili, non di rado costretti a scendere dalla macchina e a liberare la pista da tronchi o massi, se si voleva proseguire. Le nostre gite in genere duravano 4-5 giorni e di solito eravamo autosufficienti benché fossero ben poche le provviste che potevamo stipare nella piccola vettura dove dovevano trovare posto alcune cose essenziali quali un paio di taniche di benzina, una cinghia di trasmissione di ricambio e un paio di scatole di arnesi per affrontare ogni evenienza.
Antonio e Giovanni erano compagni ideali per andare a bighellonare in giro per l’Africa orientale. Amavano ambedue il rischio e l’avventura ma soprattutto erano soggiogati dalla bellezza di quei posti che riempiva i cuori di coraggio e di tenero appagamento.
Antonio e Giovanni erano diversi come fisico e come carattere: alto, magro, tanto vivace e intraprendente il primo, quanto bonario e tranquillo il secondo, robusto e di media statura. Discutevano sempre, non litigavano mai, spesso ero chiamato a dire la mia, incitato da ognuno di loro a sostenere le proprie tesi; se cercavo di rimanere in una posizione intermedia fra di loro, venivo subito tacciato di ipocrisia e quindi escluso dal loro battibecco. Tutti e due amavano cantare: in genere erano le canzoni di montagna che Giovanni, appassionato di sci, insegnava a noi che in montagna vivevamo ma senza mai aver visto la neve. Non andavamo mai armati, ben consci che rischiavamo di più portandoci dietro un fucile o una rivoltella che andando liberi, mostrando chiaramente di avere intenzioni pacifiche senza neppure l’ombra di voler intimidire qualcuno. I nostri rapporti con le popolazioni locali erano sempre ottimi e tutti indistintamente erano felici di ospitarci o, al minimo, di condividere con noi un sciai.
Fu con una certa sorpresa quindi che Antonio ci comunicò di aver preso una decisione ben meditata: avrebbe costruito un arco e le relative frecce nei laboratori di Gilberto, sfruttando materiale del caravanserraglio di Asmara.
Ci confidò che il desiderio di possedere un arco lo aveva colpito così, all’improvviso, forse leggendo un libro o vedendo un film; sta di fatto che si mise alla ricerca di un arco con relative frecce prima rivolgendosi a quei commercianti indigeni che vendevano lance, scimitarre, pugnali ma nessuno in città aveva archi da vendere. L’unico commerciante di armi italiano che aveva il negozio in piazza della posta aveva chiesto una cifra esorbitante per importare un arco da gara europeo.
Questi contrattempi non avevano deluso Antonio che, come sua consuetudine, non si arrendeva mai; qualunque cosa gli si presentasse difficile, diventava una sfida a realizzarla: se un arco non si poteva acquistare, lo avrebbe costruito da sé e, senza pensarci due volte, i successivi giorni li trascorse alla ricerca di quello che poteva servirgli per costruire un arco da solo.
Trascorsero alcuni giorni e, quando già l’argomento arco sembrava esaurito, Antonio si presentò da Gilberto affinché gli facesse utilizzare le apparecchiature del laboratorio paterno; disse che aveva meditato a lungo su come costruire un arco e che aveva dovuto escludere la possibilità di realizzarlo in legno per le serie difficoltà che questo comportava: prima di tutto all’Asmara non erano reperibili legni adatti allo scopo perché dovevano essere robusti ed elastici allo stesso tempo, poi necessitava sapere come intagliare il legno per ricavare l’arco, subito dopo bisognava applicare le giuste modalità per conferirgli una corretta curvatura e infine necessitava l’arte e l’ambiente adatti a un’indispensabile e lunga stagionatura.
Scartato il legno, l’unica possibilità che lui aveva intravisto era quella di tentare la costruzione di un arco utilizzando lamine di acciaio flessibili. In altre parole voleva realizzare qualcosa che sfruttasse il principio del funzionamento delle antiche balestre degli arcieri medievali, ma che avesse la struttura simile a un classico arco di legno.
Al Caravanserraglio di Asmara Antonio aveva rimediato per pochi dollari una balestra smontata da una vecchia vettura Fiat. La balestra era formata da alcune strisce di acciaio, larghe 5 centimetri e di 7-8 millimetri di spessore; la più lunga misurava almeno 130- 140 centimetri mentre le altre avevano un andamento decrescente e possedevano una leggera inflessione nel loro piano longitudinale. Le strisce erano sovrapposte e tenute strette assieme da graffe metalliche e da bulloni e andavano a formare un sistema che permetteva sia l’oscillazione che l’estensione dell’attrezzo. Era verosimile quindi che Antonio volesse ricavare dalla balestra Fiat un arco dopo aver collegato con un cavo gli estremi della lamina maggiore.
I problemi per il novello arciere iniziarono subito: la balestra era troppo pesante e si maneggiava malissimo; e così com’ era, l’attrezzo richiedeva uno forza enorme per tenderlo. Antonio non si perse certo di animo e si mise tosto al lavoro. Smontò tutta la balestra e scelse due lamine: la prima, la più lunga e l’altra di misura di circa la metà. Di seguito dovette lavorare molte ore per riuscire ad intaccare le cime della prima lamina scelta in modo da poterci applicare un cavetto di acciaio appena teso tra le due estremità. Accorciò poi i bulloni e quindi rimontò le due lamine prescelte che assunsero un naturale aspetto di arco grazie al cavetto di acciaio rimasto in tiro.
Antonio non volle rivelare dove aveva trovato le bacchette di legno per preparare le frecce alle quali applicò una cima in ferro e un paio di piume all’altra estremità. Neppure volle sentire ragioni di provare l’arco metallico per la paura che qualcuno potesse farsi del male e sparì con arco e frecce per qualche altro giorno.
Per la fine di quella settimana Giovanni aveva proposto di fare una gita fino a Tessenei; era giugno avanzato e nel bassopiano occidentale il clima era caldo ma secco e quindi sopportabile, a differenza della costa dove era iniziato il periodo dell’anno invivibile per chiunque non fosse bene acclimatato. Andare a Tessenei era sempre una festa sia perché l’habitat era quello africano vero, abitato ancora da animali selvatici e da popolazioni quanto mai interessanti, sia perché i luoghi erano del tutto simili alle savane africane che si vedono nei documentari e negli opuscoli che pubblicizzano gite in quel continente.
Per noi esisteva un solo problema scendendo dalla montagna al bassopiano: il pericolo di incappare in una zanzara malarica era molto elevato e purtroppo non bastavano le solite precauzioni. Da tempo adottavamo un sistema gravoso ma efficiente; al tramonto ogni sera si faceva ritorno a Cheren, mille metri di altitudine dove qualche zanzara malarica poteva anche esistere, ma erano sufficienti i soliti deterrenti a prevenire quel serio pericolo. Il giorno della partenza, Giovanni, di primo mattino, passò prima a prendere me per poi recuperare Antonio e subito dopo, senza alcuna esitazione, ci si avviò per la destinazione prestabilita.
Antonio, che di solito si presentava con i soli abiti che aveva indosso e una piccola borsetta dove stipava il portafoglio e l’occorrente per radersi, quel mattino lo trovammo in attesa mentre teneva con una punta a terra e una al cielo qualcosa di lungo avvolto in carta di giornale.
Ci volle poco a capire che il vistoso oggetto era l’arco costruito dal nostro amico, ma, a parte l’aiuto per riporlo dentro il Maggiolino, l’attrezzo ingombrava sia la parte anteriore che posteriore della vettura, ma Antonio non fece verbo su ciò che trasportava e noi ci guardammo bene dal fare domande.
Nelle nostre gite ce la prendevamo sempre comoda andando tranquilli e fermandoci dove più ci piaceva; così ci volevano un paio d’ore per arrivare a Cheren e altrettante per raggiungere Tessenei, ma il tempo trascorreva veloce, raccontando di noi, delle persone che conoscevamo, della natura che andavamo impattando scendendo dall’acrocoro verso il bassopiano. Se nel tratto di strada da Asmara a Cheren incontravamo diverse vetture, camion e autobus; nell’ultimo tratto tra Agordat e Tessenei ci si imbatteva in pochissimi mezzi motorizzati, mentre frequenti erano piccole e grandi pittoresche carovane di muletti o cammelli.
Raramente quei nomadi si soffermavano, ma il più delle volte, con un gesto della mano salutavano e proseguivano per la loro strada. Noi avremmo voluto scambiare qualche parola per sapere la loro destinazione, cosa trasportavano e da quanto tempo erano in viaggio. Poche erano le carovane di muletti con gente abissina, mentre più frequenti erano le lunghe carovane di cammelli condotte da abitanti del bassopiano: cristiani i primi, mussulmani gli altri, si rispettavano, ma non al punto di fare un accampamento in comune.
Quel giorno, dopo quasi cinque ore di viaggio alternate da frequenti soste, quando eravamo già in vista di Tessenei, una decina di gazzelle attraversò la strada e per Giovanni che era alla guida del Maggiolino fu del tutto naturale uscire dalla rotabile e seguire quei teneri animali che con tanta eleganza e salti spettacolari proseguivano il loro cammino senza curarsi troppo della vettura che lo seguiva. Dopo qualche minuto Giovanni fermò il Maggiolino e lasciò le gazzelle proseguire per il loro destino. Il caso volle che la sosta improvvisata si fece nei pressi di un gruppo di acacie ad ombrello cresciute attorno a delle siepi ormai secche e in attesa di rifiorire di lì a qualche mese con l’arrivo della stagione delle piogge. Qualcosa attirò la nostra attenzione verso la siepe più grande; i suoi rami si muovevano come mossi dal vento, ma non tirava un alito di brezza e quindi valeva la pena di andare a dare un‘occhiata.
Bastarono pochi passi girando attorno alla siepe più folta per scoprire una magnifica otarda maggiore che stava tranquillamente rovistando col suo grosso becco sotto i cespugli e non sembrava allarmata per la presenza di noi tre che eravamo rimasti attoniti di fronte alla sua maestosa figura. Di otarde ne avevamo viste molte in Eritrea, ma erano tutte otarde minori o piccole come venivano di solito nominate. Si sapeva che esistevano nell’Africa orientale otarde maggiori ma, prima di allora, nessuno di noi le aveva mai viste. L’enorme uccello che ci stava di fronte era ritenuto uno dei più grandi uccelli in grado di volare e aveva un aspetto impressionante. Sembrava un maschio adulto, lungo più di un metro e ad occhio si poteva valutare un peso superiore a quindici chili. Aveva il dorso color ocra carico che contrastava con il resto del piumaggio tutto bianco a parte il lungo collo e la testa che erano grigio chiaro.
Dava l’idea di un essere forte e coraggioso. Il tempo trascorreva lento senza che nessuno degli attori di quella scena osasse muoversi, gli uomini per la paura che l’animale si allontanasse, mentre l’otarda si muoveva in modo lento e maestoso continuando la sua ricerca di cibo, ma al contempo tenendo d’occhio gli intrusi verso cui volgeva sguardi indagatori.
Chi aveva osservato questo strano volatile in Eritrea lo aveva sempre visto a terra, mai in volo anche se l’uccello, presente in alcuni paesi dell’Europa dell’est, era stato più volte fotografato mentre volava. In effetti un paio di volte la nostra otarda accennò ad aprire le ali che erano molto grandi, circa 3 m di apertura, ma che non sembravano sufficienti a tenere per aria quel corpo così grosso.
Fu Antonio che si mosse per primo e si diresse in modo silenzioso verso la vettura; Giovanni ed io eravamo certi che fosse andato a prendere la cinepresa e la macchina fotografica, per immortalare quell’incontro decisamente poco frequente.
Rimanemmo di stucco quando lui tornò con il suo involucro e tosto si mise a scartarlo liberando l’arco che risplendeva alla calda luce del bassopiano: lo aveva pitturato con una vernice d’argento mentre i dadi e i bulloni li aveva dipinti con una vernice dorata creando un effetto molto piacevole. Poi tutto si svolse in pochi istanti; Antonio si tolse in un attimo la
camicia e rimase con il suo torace muscoloso scoperto e scolpito dal sole e quando imbracciò l’arco e lo tese per scagliare la freccia contro l’otarda lontana una quindicina di metri, sembrava una figura mitologica, certamente bella anche se in contrasto a quel contesto africano.
Mentre Giovanni corse alla vettura per prendere la macchina fotografica, Antonio pose il ginocchio destro per terra e tese l’arco con la freccia innescata; quando mollò il tiro, l’attrezzo emise un rumore sordo e brontolone, mentre la freccia cascò a circa quattro metri da Antonio, conficcandosi nel terreno e lasciando l’otarda impassibile e indifferente. Antonio evidentemente deluso prese un’altra freccia, ritese l’arco fino allo spasimo e lasciò andare il dardo al suo destino che evidentemente non era quello di colpire l’uccellone perché fece esattamente la fine dell’altro facendo emettere ad Antonio un gemito di rabbia seguito dal lancio dell’arco verso il pennuto che questa volta, con molta dignità si allontanò zampettando dalla scena. Giovanni, giunto di corsa, non trovò nulla da immortalare mentre Antonio, rimessa la camicia, si diresse verso il Maggiolino, dove montò lesto dando a noi un’occhiata di traverso che da sola imponeva il silenzio su quanto era accaduto.
Spesso mi sono chiesto se qualcuno dei soldati che combatterono in quei luoghi nei lunghi anni di guerra fra l‘Eritrea e l’Etiopia, si fosse imbattuto nell’arco di Antonio, cosa avrebbe potuto immaginare per giustificare la presenza di quella strana arma in mezzo a una savana africana.


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