“A una decina di chilometri verso Abu Gamel –il monte del cammello –Alighidir, col suo nome da novella araba, rappresenta il villaggio agricolo, moderno, se si tien conto delle comode casette in muratura per gli alloggi della direzione e dei capi-azienda. All’intorno si stendono i campi di cotone e di dura, attraversati da una lunga rete di canali; laggiù, nello scacchiere delle aziende, vivono numerose famiglie indigene […]”Così Giannino Marescalchi descrive, in un lungo articolo, gli esordi della coltivazione su scala industriale del cotone in Eritrea nella piana di Tessenei.Era stato Ferdinando Martini (più lo conosco, più ammiro questo fiero anticolonialista e fine umanista, primo governatore dell’Eritrea) a studiare, o meglio a fare studiare dall’ing. Coletta, un progetto per l’irrigazione della pianura di Tessenei, nel 1905.
Ed è ad Alighidìr che ancora si coltiva il cotone destinato alla produzione di sciarpe, fute, sciamma prodotte nel laboratorio artigianale Alkemya, fondato dall’asmarina Nadia Biasiolo
Nel 1908, gli ingegneri Nobile e Avetrani proseguirono gli studi su incarico del Ministero Affari Esteri. Si cercava di contrapporre la produzione cotoniera eritrea a quella della vicina britannica Cassala, in Sudan. Tra 1907 e 1912 si iniziò, ad opera di un gruppo di industriali del Nord Italia, laproduzione cotoniera. Ma l’attacco di cavallette e siccità nel 1913 e la Guerra Mondiale poi bloccarono la produzione a scopo industriale, e per parecchi anni il cotone rimase limitato alle piccole coltivazioni sperimentali di alcuni agronomi.Nel 1924 l’accordo di Khartoum tra governo eritreo e governo del Sudan anglo-egiziano sblocca la situazione: le acque del fiume Gash (detto Marèb nell’Hamasièn) affluirono ad irrigare quindicimila ettari di bonifica nella zona di Tessenei, dove, attirate dalle nuove possibilità economiche, si trasferirono famiglie di diverse etnie (Bileni, Mària, Atmariam, At Tacles, Baria, Cunama, Amara, Tacruri, Sudanesi, Yemeniti, elenca Giannino Marescalchi). Nel 1926 le opere cotoniere vennero titolate al Principe di Piemonte Umberto.Come varietà, venne scelto il cotone Sakellaridis (o più semplicemente Sakel di origine egiziana, a fibra lunga, di minore produttività rispetto al tipo americano, ma assai più pregiato e resistente alle malattie; malattie, tuttavia, che quando insorgevano erano spesso devastanti e difficilmente contrastabili, almeno con i mezzi di allora.Donne e ragazzi si occupavano della raccolta; poi, eliminati gli scarti (parte utilizzati come mangime per il bestiame; parte trasformati in olio per vari usi, anche alimentari), la fibra migliore veniva pressata ed imballata per le macchine tessitrici europee.La “Guida d’Italia del Touring Club Italiano –Possedimenti e Colonie” del 1929 già citava la bonifica di Tessenei come la più importante opera di valorizzazione agricola coloniale.
Presso Tessenei, a Alighidìr (talvolta trascritta come Aligider) nacque, nel secondo dopoguerra, una delle più felici imprese italiane: quella di Roberto Barattolo.Ed è ad Alighidìr che ancora si coltiva il cotone destinato alla produzione di sciarpe, fute, sciamma prodotte nel laboratorio artigianale Alkemya, fondato dall’asmarina Nadia Biasiolo.La famiglia Biasiolo è in Eritrea da generazioni. Un bisnonno paterno, Hagop Seguliàn, giunse da Costantinopoli alla fine del sec.XIX°, in fuga dalle persecuzioni contro gli armeni, ed era già a Massaua quando vi sbarcò il col. Saletta, tant’è che divenne fornitore delle truppe italiane, prima di dedicarsi alla coltivazione pionieristica del tabacco. Il padre di Nadia, Giulio, anchelui imprenditore, ebbe una vita particolarmente movimentata, a causa delle sue aperte simpatie in favore della guerriglia anti-etiopica. Aveva fondato ad Asmara anche una casa produttrice cinematografica, la Afro Film, che tra la fine degli anni Sessanta e primi degli anni Settanta produsse, oltre a documentari, anche alcuni film di tutto rispetto, girati in Eritrea: Le mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, Sette baschi rossi di Mario Siciliano, La via dei babbuini di Luigi Magni e uno sceneggiato televisivo per ragazzi, Verso l’avventura.
Nadia Biasiolo oggi abita nel centro di Asmara, e una parte della sua casa è stata da molti anni adibita a laboratorio tessile, con annesso negozio. L’idea è nata nel 1998, quando si pose il problema di dare una possibilità lavorativa alle tante donne, magari vedove di guerriglieri o ex-guerrigliere esse stesse nella lotta per l’indipendenza dall’Etiopia, che non erano generalmente scolarizzate, ma avevano imparato in famiglia, per tradizione,l’antica capacità della filatura. Avendo studiato tessitura presso la Scuola d’Arte di Roma, la Biasiolo ha pensato di valorizzare un’arte che in Italia da tempo è scomparsa o limitata a pochi corsi destinati più a passatempo che a vera produzione. Il numero di artigiane è variabile a seconda dei periodi: ci sono state fino a 28 lavoranti in laboratorio, e una quarantina di donne dedite alla produzione a domicilio.
Con mani agili, le filatrici traggono dalla morbida massa del cotone un sottile filo che, trasportato su un rocchetto, viene arrotolato in matasse da un arcolaio.Peculiarità della lavorazione a mano è che il filo, per quanto sottilissimo, non ha mai spessore costante, il che caratterizza il prodotto finale.
Poi, il filato viene utilizzato su un antico, semplice telaio a due licci, e battuto con un pettine che è stato utilizzato da generazioni di tessitrici.
Alcuni prodotti vengono rifiniti ad uncinetto.