Nicky Di Paolo, 24 ottobre 2016

Correva l’anno 1964 e in Eritrea era in atto la smobilitazione della maggior parte degli italiani e degli altri stranieri che avevano vissuto fino a quel momento in quell’angolo dell’Africa, una vita serena e piena di soddisfazioni.  La situazione politica era diventata incandescente da quando il Fronte di Liberazione Popolare Eritreo era di fatto entrato in guerra con l’Etiopia e era facile presagire una vita difficile, se non pericolosa per tutti quelli che risiedevano in Eritrea.

Il ritratto di Abebesh, abbozzato su un semplice foglio di carta bianca che stava uscendo dalla stampante, suscitava, man mano che ne prendevo visione, un senso di eccitazione per la bellezza e l’intensità dello sguardo che quei semplici tratti di matita erano riusciti a trasportare dal vivo all’immagine fissa del disegno.

Da quando avevo iniziato a scrivere del pittore Scabbia nel nostro sito, erano in molti a inviarmi foto o copie di disegni  a matita, a carboncino  oppure di sanguigne  e più raramente foto di oli su tela, con la speranza che io potessi esprimere un parere sulla autenticità e sul valore  di quelle opere; la produzione abbastanza sostenuta di  Scabbia era ed è il primo problema da affrontare: in altre parole di opere di questo pittore in giro ce ne sono tante, la maggior parte appese ai muri delle case di privati, mentre Scabbia è sconosciuto sul mercato della pittura, non avendo mai avuto, vivendo in Africa, la possibilità o la necessità di farsi valorizzare e conoscere da galleristi europei.

Quello splendido volto, appena uscito dalla stampante, era  una copia di un pastello dipinto diversi anni prima: la copia dell’immagine immortalata sul cartoncino, appariva come qualcosa di  fantastico e i 15 anni che la fanciulla doveva avere al tempo che Scabbia le fece il ritratto, apparivano  a momenti  troppi o troppo pochi; infatti la fisionomia del volto cangiava, secondo l’angolo di vista,  da quella di  una timida fanciulla ancora da sbocciare a quella di una  donna matura, da tempo  data  alla vita.
Il proprietario del quadro che  stavo osservando si sarebbe meravigliato se avesse potuto vedermi  in faccia; ero del tutto stupito: infatti riconobbi un viso che mai  avrei potuto dimenticare; Abebesh era una ragazza che abitava all’ Asmara negli anni ’60, e quel ritratto magico, tratteggiato dallo Scabbia, era bellissimo,  ma aveva tralasciato di evidenziare ciò  che i miei vividi  ricordi  riportarono alla mente: Abebesh era anche incredibilmente dolce e intrigante al tempo stesso, attributi, a mio avviso, più intensi della sua evidente e  notevole bellezza.

Riportavo dal lontano passato il mio vissuto e rivedevo i suoi occhi scintillanti come due stelle che risaltavano ancora di più sulla pelle chiara del viso. I ricordi mi inondarono l’animo e rivissi la delizia quando lei, in vena di seduzione, con un lembo

della futa, copriva in parte il volto quasi per dare la possibilità a chi la osservasse, di poter godere pian piano, ma appieno, quella straordinaria bellezza, evitando di soffermarsi solo su una parte della sua figura, e perdere così l’armonia di tutto ciò che appariva man mano che spostava il velo.

La madre di Abebesh faceva la sciarmutta, la prostituta: fino a una sessantina di anni prima, non c’era nulla di infamante a praticare quella attività nel Corno d’Africa, e la donna che aveva   venduto il suo corpo per anni, poteva In qualsiasi momento lo desiderasse, cessare quel commercio e rientrare nella società abissina, senza essere additata e messa in disparte.

Anche la madre era stata molto bella, ma Abebesh, probabilmente nata dal rapporto con un   bianco, aveva acquisito quel fascino che caratterizzava le figure dei meticci con una esasperazione della bellezza dei volti e dell’armonia delle forme.

Abebesh studiava all’Istituto delle Suore Comboniane di Asmara, solo per imposizione della madre, in quanto lei non traeva giovamento da quegli insegnamenti che rifiutava apertamente: ciò era in totale contrasto con la genitrice che la voleva istruita desiderando per l’unica figlia qualcosa di più di ciò che poteva offrire in quel momento l’ambiente eritreo ad una giovane donna abissina.

Le lunghe discussioni tra madre e figlia vertevano sempre sul solito argomento; la madre rifiutava l’idea di dover accettare un semplice matrimonio organizzato dai garanti e dai  padrini che l’avrebbero portata presto ad avere diversi figli e tanto lavoro
sulle spalle, come del resto aborriva l’idea di farla lavorare come commessa in qualche negozio o prestare servizio come collaboratrice domestica in una delle tante famiglie di stranieri che abitavano le città abissine; la madre di Abebesh aveva avuto modo  di prendere atto di come venivano cresciute  le fanciulle dei bianchi, di come erano spinte ad acquisire un titolo di studio e con quello un lavoro importante e un’indipendenza͖ solo in un secondo tempo  i genitori bianchi facevano contrarre un matrimonio alle figlie e le aiutavano a mettere su famiglia.

complicare il tutto c’era il fatto che la madre di Abebesh era cristiana ortodossa, le suore comboniane erano cattoliche, mentre la ragazza era mussulmana; più di una volta avevo chiesto spiegazioni su questa strana situazione religiosa, ma Abebesh era all’oscuro di come si era venuto a creare quel conflittuale contesto, mentre la madre evitava di rispondere e non diede mai alcuna spiegazione.

Abebesh non sapeva cosa doveva fare per raggiungere il fine cui lei ambiva; non aveva alcuna voglia di dedicarsi allo studio, il suo rapporto con i libri era terribile; per lei era più che sufficiente il fatto che sapeva leggere e scrivere in italiano e in inglese.
Inoltre  era pienamente cosciente del desiderio che faceva suscitare in tutti  gli uomini, ma non avrebbe mai fatto la sciarmutta come la madre e non solo rifiutava l’idea di potere avere tanto denaro vendendo il suo corpo ai bianchi,  lei era certa che ci fosse una via per sfruttare la sua bellezza senza cascare nel commercio del sesso  che avvertiva   accettato dagli eritrei, ma negletto da tutti i bianchi: questi ultimi  cercavano rapporti mercenari di un’ora o di anni, ma pubblicamente  condannavano  chiunque frequentasse  o  convivesse  con donne africane.

Le donne bianche erano le più accanite contro le abitudini abissine e univano le loro forze a quelle delle congregazioni religiose condannando senza riserve uomini e donne che avessero rapporti sessuali con indigeni.  Era evidente che il duro atteggiamento verso la prostituzione nascesse dal fondato timore che la bellezza delle donne nere e meticce seducesse l’uomo bianco che spesso abbandonava la famiglia o anche un lavoro per rincorrere quelle veneri nere che lo avevano fatto innamorare.

Da quelle parti, anche se non esisteva una divisione netta tra bianchi e neri, erano evidenti le diversità di usi e costumi tra europei e indigeni; questi ultimi in genere non ambivano a migliorare il loro stato sociale: desideravano solo assicurarsi una
retribuzione che permettesse loro una vita decorosa senza dover necessariamente migliorare la loro esistenza.

Abebesh era diversa nel senso che, conscia della sua bellezza, desiderava utilizzare questa dote per conquistare un posto in alto senza dovere studiare o lavorare come tutti i suoi coetanei. Per raggiungere i suoi scopi, Abebesh aveva ben chiaro il fatto che non poteva frequentare giovani uomini, di qualsiasi razza fossero, in quanto avrebbero distratto la sua attenzione della ricerca della giusta occasione; tanto meno poteva fidanzarsi o amoreggiare come qualsiasi altra ragazza della città senza avere ben chiaro cosa cercare, ma era certa che prima o poi qualcosa sarebbe successo.
      La mia conoscenza di Abebesh poteva definirsi un’amicizia, ma senza alcun fine, in quanto lei mi aveva dichiarato la sua simpatia, ma nello stesso tempo la sicurezza che non ci sarebbe mai stato alcunché di sentimentale nel nostro rapporto; d’altra parte a me Abebesh era simpatica ed ero contento della sua frequentazione e rassegnato nello stesso tempo a non considerarla qualcosa di più. Era evidente nella giovane eritrea il conflitto interno tra il modo di vedere le cose da parte dei bianchi e quello di vivere le usanze del mondo indigeno che si scontravano in continuazione, il tutto frammisto a pulsioni religiose che anche se solo inconsciamente, tentavano di turbare il lieto vivere degli abitanti del Corno.

Abebesh era la rappresentazione vivente del complesso polimorfismo spirituale presente in Eritrea e a quei tempi ero molto interessato a comprendere l’animo degli abitanti del Corno, e quindi le interminabili discussioni che avevo con la bella meticcia mi permettevano di comprendere gli usi, i costumi, ma soprattutto l’indole degli abitanti che mi ospitavano. Difficile era trarre delle conclusioni e quindi rimanevano senza risposta i tanti quesiti che ci ponevamo in continuazione e che ci lasciavano insoddisfatti e incapaci di modificare la mentalità di ognuno di noi.

Abebesh soffriva quando tornando a casa, trovava sul battente del portone di casa un fazzoletto, indice che la madre era occupata con un cliente e lei doveva necessariamente attendere, per entrare in casa, che quell’odiato pezzo di stoffa
sparisse dalla sua vista. L’avversione verso il mestiere della madre nasceva dal suo rapporto con le suore comboniane che ce la mettevano tutta per far comprendere alla giovane come la morale comune condannasse chiunque vendesse il proprio corpo.

Abebesh vedeva la madre e centinaia di altre donne vendere se stesse e, non di rado, anche il loro amore a uomini di tutte le razze. Loro erano da una parte soddisfatte del proprio agire e del ruolo di “ambasciatrici di amore” che qualcuno aveva loro assegnato; d’altro canto suore e frati tuonavano ogni giorno dai loro pulpiti contro la libertà religiosa propria degli abissini, accusandoli non solo di immoralità, ma anche di compiere peccati mortali che prima o poi avrebbero dovuto scontare.
 

Abebesh e la madre abitavano una modesta casetta a due piani situata dietro il teatro Asmara e quindi in pieno centro, dove povere abitazioni si alternavano a belle villette in stile decò e a palazzi moderni a più piani.  Gli abitanti di quel quartiere, come
del resto avveniva in ogni parte della città, si conoscevano tutti, e qualsiasi cosa accadesse si diffondeva con rapidità, ma anche con fantasia, e ciò alterava sensibilmente il vissuto. Quindi, quando madre e figlia sparirono dalla circolazione e fu
chiaro che nella casa non abitava più nessuno, i vicini cominciarono a trarre le conclusioni più fantasiose ed io, sorpreso da quella dipartita improvvisa e misteriosa, cercai notizie da parenti, dalle suore, dalle botteghe dove si servivano, ma nessuno
aveva un’idea al riguardo.

Il dispiacere di aver perso un’amica, si diluì pian piano per poi accettare la sua scomparsa come un qualcosa di annunciato, o come un evento ineluttabile nei progetti di Abebesh. Nel 1968 lasciai anch’io con tutta la mia famiglia l’Eritrea, con molti rimpianti, ma con la necessità di mettere in sicurezza non solo il nostro futuro, ma anche la nostra stessa vita.

Separarsi dall’Africa fu difficile anche per me che conoscevo la realtă italiana, ma più problematico si rivelò l’impatto con la nuova vita per i miei familiari che trovarono ben poco rispetto a tutto quello che avevano dovuto abbandonare. Mio padre, assieme a un cugino, ottennero la concessionaria della Volkswagen in Siena, dove io stesso fui assunto a lavorare al policlinico; questi due eventi portarono tutta la famiglia a risiedere nella cittadina toscana. In Italia mancavano tante cose proprie della vita africana; un solo aspetto era ben evidente nella nuova realtà: la presenza, ormai diffusa in ogni abitazione, della televisione con molti canali e una marea di programmi che all’inizio sorpresero in tale maniera i nuovi arrivati da far spendere loro tutto il tempo libero di fronte allo schermo televisivo.

Anch’io, malgrado il lavoro assorbisse tante ore durante la giornata, alla sera, dopo cena, spesso sprofondato in una poltrona, tra uno sbadiglio e un altro, guardavo volentieri qualche documentario o film intervallati da lunghe pause di pubblicità
commerciale.  La televisione  aveva mutato sensibilmente le abitudini degli italiani che rimanevano ore e ore  fissi  di fronte al piccolo schermo dimenticando che  fino a poco tempo prima trascorrevano le ore libere nei circoli, nei  cinematografi, nelle case di amici,  oppure in famiglia a parlare  del più e del meno: il tempo trascorso di fronte alla TV andava  tutto perso a scapito del contatto umano, ma  nessuno  cercava di frenare quella  scatola magica  che incantava tutti e già si preannunciava l’arrivo di molti altri canali  che avrebbero invaso ancora di più le abitazioni degli italiani trattenendoli in casa, creando o aumentando la  carenza di rapporti interumani  tra  quegli stessi soggetti che fino a poco prima già lamentavano una  scarsa  partecipazione alla vita interna della famiglia.

Anch’ io, come ho già detto, non ero da meno e rimanevo per una buona parte del mio tempo libero alla televisione, anche se ero contestato dai bimbi piccoli che, memori della vita africana, pretendevano le giuste attenzioni che un padre dava prima
ai suoi figli.

Una sera, alla fine del primo tempo di un buon film di avventura che riusciva a tenere lontane seducenti spinte ipnotiche, uno spot commerciale attirò la mia attenzione senza una ragione apparente: quattro ballerine danzavano attorno ad un paiolo dove la pasta da reclamizzare sguazzava nell’acqua bollente. Qualche secondo ancora e poi il filmato mostrò primi piani di due delle fanciulle, tutte molto graziose; in un istante riconobbi il volto di Abebesh, non ebbi esitazioni né dubbi sulla mia
memoria: era lei con il suo sorriso intrigante, il suo corpo flessuoso e i movimenti della danza seducenti.

Avrei voluto fare qualcosa per fermare quelle immagini   onde poterle rivedere a mio piacimento ma non avevo un registratore e lo spot durò non più di un minuto dal momento del mio riconoscimento.

Il giorno dopo, telefonai alla RAI e una segretaria, molto gentilmente, mi indirizzò verso l’agenzia cinematografica che aveva realizzato il filmato con Abebesh, ma un solerte impiegato mi comunicò che non rilasciavano generalità e indirizzi degli attori impiegati nella realizzazione del loro filmati. Vista la mia insistenza, mi fecero parlare con uno dei responsabili dell’agenzia che, piuttosto sbrigativo, mi confermò l’assoluta conformità ad assicurare la privacy dei loro attori e mi invitò a non tediare più la segreteria perché nulla mi potevano comunicare.

Non ho più rivisto Abebesh in televisione e neppure in qualche film e tanto meno mi cercò lei malgrado avessi lasciato all’agenzia di Milano i numeri di telefono e gli indirizzi dove potermi rintracciare. Tutto questo succedeva molti anni fa ed ora sono convinto che mi riuscirebbe difficile riconoscere Abebesh dato che il trascorrere del tempo avrà certamente modificato i tratti del suo viso.