Valeria Isacchini, 8 novembre 2016

Giovedì 3 novembre 2016 si è svolto al Politecnico di Milano un convegno internazionale sulle città coloniali, moderniste e di fondazione degli anni Venti-Trenta, “L’Urbanistica e l’Architettura moderne alla prova della contemporaneità. Sguardi sulle città coloniali e di fondazione”, a cura di Susanna Bortolotto e Renzo Riboldazzi.
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Il tema riguardava l’architettura modernista in ambito coloniale, soprattutto italiano, e la possibilità di recupero, restauro, riproposta; in particolare, il convegno si proponeva di verificare come i piani urbanistici e i progetti, talvolta di sorprendente sperimentazione, hanno affrontato il passare del tempo. Argomento solleticante, tanto più che coincideva con la richiesta, ufficializzata quest’anno, di Asmara come città Patrimonio dell’Umanită (World Heritage) presso l’UNESCO͘ Ovviamente sono state ampiamente trattate le colonie italiane in Africa, ma spaziando anche su Tirana e su Portolago (oggi Lakki), cittadina “di
fondazione” nell’isola di Lero; e sono stati presentati esempi di restauri e recuperi urbani, come a Carbonia, Tel viv (per quanto riguarda la zona della modernista “cittă bianca”), Casablanca, con gli interventi di Prost e di Ecochard nell’ampliamento della cittă͘

Un programma così denso richiedeva però ai relatori tempi strettissimi, per cui ci si augura vengano pubblicati a breve gli Atti, dato che la sequenza delle diapositive e il ritmo di eloquio dei relatori, correttissimi nel rispettare i loro tempi, erano talvolta frenetici.
Il primo intervento, di Pier Giorgio Massaretti e Maria Spina, riguardante “Lo stato dell’arte della ricerca storica sulle cittă coloniali italiane” ha, tra l’altro, evidenziato come il progetto “Restituiamo la storia”1 che si proponeva di mettere a disposizione degli storici e ricercatori, anche stranieri, tramite digitalizzazione e inserimento on-line, la massa di documenti sulle nostre colonie presente in Italia e disperso in una miriade di archivi, anche privati, sia ora stato sospeso causa mancato finanziamento. A quanto pare, secondo i responsabili dell’erogazione, un tale progetto di condivisione, che avrebbe permesso agli studiosi, anche delle nostre ex-colonie, di venire a contatto con i documenti relativi alla storia del loro paese, suonerebbe come una “nuova colonizzazione” del tipo “Noi vi diamo il materiale e vi diciamo come dovete fare”: così è stato motivato il mancato finanziamento.
Medhanie Teklemariam , Urban planner di Asmara, coordinatore dell’ Asmara Heritage Project, ha presentato analiticamente, con la relazione “An Overview of Asmara Heritage Project” tutti i passi che sono stati compiuti per giungere finalmente alla proposta della capitale eritrea come sito UNESCO di interesse mondiale. Il lavoro ha coinvolto uno staff di
ingegneri, architetti, archivisti, ecc. per procedere alla identificazione dei siti di interesse, alla loro inventariazione e analisi della situazione attuale, allo studio per la loro conservazione. Si è così giunti a mappare oltre 4300 costruzioni, 257 strade, 38 aree aperte.
È stata coinvolta anche l’opinione pubblica, tramite mostre, opuscoli, pubblicazioni per rafforzare negli asmarini la consapevolezza del loro patrimonio. Il 1 febbraio 2016 è stata presentata ufficialmente all’UNESCO la richiesta di inserire Asmara tra le città Patrimonio dell’Umanită͘
Chi scrive è perfettamente consapevole della bellezza, veramente unica al mondo, di Asmara͘. Una città “di fondazione” creata nel giro di pochi decenni secondo i criteri di un modernismo architettonico e urbanistico puro e sereno, che per una serie di ragioni è riuscita a conservarsi e a conservare caratteristiche sparite nel mondo occidentale: non cercate supermarket di catena, non cercate grattacieli, non cercate frenesia. Si tratta, come giustamente notava Medhanie Teklemariam, di una delle rare città coloniali in cui si è conservato magicamente tutto, dall’impianto urbanistico alla realizzazione degli edifici, che si sono rivelati adatti anche alle esigenze contemporanee.
Cosa che purtroppo non è avvenuta con altre città coloniali, anche per incombenti e tragiche ragioni storiche.
È stato l’arch͘. Walter Baricchi ad evidenziare i tragici problemi di conservazione dell’architettura modernista in Libia. Giă all’epoca di Gheddafi, come è noto, ragioni nazionaliste hanno fatto distruggere monumenti di alto valore artistico, come lo straordinario Arco dei Fileni2, (e non si sa che fine abbiano fatto le statue in bronzo che lo completavano, un tempo salvate nel piccolo museo locale di Sirte, di cui non è possibile sapere le condizioni attuali) o il Monumento ai Caduti di Tripoli, sostituito da un acquedotto (che, ironicamente, ne riprende la struttura circolare).



Baricchi, che a più riprese si è recato in Libia anche in tempi recenti, ha evidenziato con le sue foto, di forte impatto emotivo, il tragico smantellamento delle più belle architetture di Tripoli e Bengasi. Il Piano Regolatore urbanistico di Tripoli venne tracciato già nel 1913-15, quando ben poche città europee dell’epoca ne avevano uno, e nel corso di poco più di un ventennio, tra 1911 e i primi anni Trenta, ricevette un’impressionante mole di interventi urbani, con ben 73 architetti finora registrati in attività sul luogo. Baricchi ha documentato la strage che ne è stata fatta: massacrato il lungomare Volpi, bombardato il Palazzo del Governo, deturpato l’Hotel Uaddan, la Cattedrale trasformata in moschea con un pesante adattamento, sparito anche il simbolo di Tripoli, la fontana della Gazzella (prima ancora che dalla guerra, dai Salafiti, turbati dall’avvenente fanciulla discinta, anche se si spera possa essere stata spostata e messa al sicuro).


A Bengasi, l’Hotel Berenice, opera dell’arch͘ Piacentini, nel 2012 era distrutto, la Cattedrale in abbandono e saccheggiata, colpiti anche i villaggi coloniali, tanto implementati dal governatore Balbo, sia quelli per gli italiani che quelli per gli arabi.
Ovviamente, i bombardamenti e i saccheggi hanno riguardato anche l’architettura araba pre-coloniale, che gli Italiani avevano restaurato; come l’arch͘. Baricchi ha ricordato, i primi cataloghi di beni culturali messi sotto tutela dallo Stato italiano furono compilati nel 1911/12 proprio a Tripoli, per conto dell’allora Ministero dell’Educazione͘.
La situazione drammatica di distruzione del dato storico architettonico è ancora più evidente a Mogadiscio. Ne ha relazionato Nuredin Hagi, che, non potendo essere presente, ha affidato a Maria Spina la lettura del suo intervento. Dei due quartieri medievali, Scingani e Amarunji (o Amaruini), resta drammaticamente poco. Soprattutto il primo, Scingani, è stato vittima di barbarie: non solo la linea di affaccio sul mare è stata bombardata, ma poi le milizie tribali nel 1991 hanno distrutto manualmente, casa per casa, gli edifici dei sec. XVI- XVII, scardinando le travi di sostegno e abbattendo in pochissime ore (più o meno quattro ore per ogni casa) la storia delle famiglie e quindi della nazione nemica.
Si trattava di modelli costruttivi particolari, ampliati sempre in verticale, con le pareti in pietra corallina e l’ampiezza degli ambienti, sui 4/5 metri, stabilita dalla lunghezza delle travi in legno di mangrovia, albero che, assorbendo la salinità marina, risulta particolarmente sgradito alle termiti.
Anche i resti archeologici di un palazzo ritrovato sulla spiaggia di Scingani nel 1923, sotto il governatorato di De Vecchi, sono spariti, non per bombardamento recente, ma già negli anni ‘70, quando Siad Barre pensò bene di farci costruire sopra un hotel.
Amaruini, costruito su roccia, si è almeno parzialmente salvato; il quartiere vanta alcuni dei fabbricati più antichi della Somalia, anche se la popolazione non sembra interessata alla conservazione. Anzi, fa notare Nuredin Hagi, è frequente per esempio il caso di pilastri medioevali di moschee considerati troppo ingombranti e quindi sostituiti da travi in cemento armato per lasciare più spazio ai fedeli in preghiera.
Ottimisticamente, Nuredin Hagi prospetta un futuro in cui, nonostante la tremenda distruzione di Mogadiscio, si possa almeno salvaguardare, forse, quantomeno l’impianto urbanistico dei due quartieri, a suo tempo collegati dalla “cittă italiana” che si innervava tra i due nuclei antichi. Sarebbe necessario in tal caso costituire un locale Istituto di Conservazione e Restauro, per formare quadri e professionalità, che comunque dovrebbe agire sempre in sinergia con le autorità religiose.
Il tema di Asmara è stato ripreso da Edward Denison, dell’University College of London, che con il suo “Comparing capitals: Modernism, pluralism and fascism in Hsinking and Asmara” ha proposto un sorprendente confronto fra la nostra cittă coloniale e Hsinking (attualmente Changchun, in Manciuria), città che i giapponesi, dopo la vittoria sulla Russia nella guerra 1904-1905 che assegnava loro il controllo della ferrovia fino a Port Arthur, consideravano strategica e in cui si sforzarono di creare un piano urbano di alto livello qualitativo, utilizzando gli ampi spazi a disposizione secondo uno schema di “città giardino” simile a quello di Asmara.
Come ha ricordato lo studioso inglese, dopo la costruzione dell’avveniristica ferrovia tra Massaua ed Asmara, tecnici italiani, in quanto considerati tra i migliori al mondo, vennero chiamati a supportare i 90.000 russi nella costruzione della ferrovia che attraversava la Manciuria in deviazione verso Port Harbin della Transiberiana, nei cui territori montuosi venne scavato anche un tunnel (all’epoca!) di 3 km͘.
Pur non essendo questa la sede per ricordare in dettaglio i rapporti tra Italia e Giappone nella colonia giapponese del Manciukuo (che, come ha ricordato Denison, l’Italia riconobbe ufficialmente per prima, aprendo a Hsinking un’ambasciata nel 1938 e stabilendo, fra l’altro, un accordo di scambi di prodotti tra Istituto Luce e Istituto del Cinema della Manciuria), vale la pena di notare come l’idea giapponese di “portare la civilizzazione in Manciuria” tramite la South Manchuria Railway Company coincidesse, secondo Denison, con l’idea italiana in Africa Orientale͘.
Il convegno ha riguardato anche altri aspetti delle città moderniste e di impianto, per verificarne le possibilità e fattività di recupero applicandone il modello anche ad altre sedi: Giuseppina Monni ha presentato, con ritmo a rotta di collo, come si siano effettuate attività di conservazione della sarda Carbonia, cittadina “di fondazione” degli anni Trenta, che con la chiusura delle miniere di carbone si stava avviando a un desolante abbandono.
E non sono mancati interventi riguardati attività di recupero di città storiche, come il ripristino, tramite UNESCO, di molti edifici della “Cittă bianca” modernista di Tel Aviv (Micha Gross), dopo che selvaggi interventi privati avevano alterato profondamente le originarie linee architettoniche; o di Casablanca (Romeo Carabelli), o anche di Portolago, nome italiano dell’attuale Laki (Vassilis Colonas); anche l’impianto urbano di Tirana, appartenente al nostro Regno, è stato trattato da Anna Bruna Menghini.
Valeria Isacchini, novembre 2016
1 V. Restituiamo la storia, giornate di studio : per una condivisione dei documenti sull’oltremare: esperienze e opinioni, a cura di Lucio Carbonara, Roma, Gangemi, 2009 e Restituiamo la storia : dagli archivi ai territori : architetture e modelli urbani italiani nel Mediterraneo Orientale , a cura di Francesca Calace; prefazione Lucio Carbonara; saggi di Francesca Calace… [et al.], Roma, Gangemi, 2012
2 Secondo Sallustio nel De bellum iugurtinum, I Fileni erano due fratelli cartaginesi (omaggio quindi non alla “romanită imperiale” dell’epoca di costruzione, ma alla localită) che si impegnarono in una gara di corsa contro due Greci di Cirene, nella Libia orientale, per stabilire i confini delle rispettive nazioni. Secondo gli accordi, ogni città avrebbe fatto partire i propri campioni nello stesso giorno a una determinata ora, e il punto in cui si sarebbero incontrati avrebbe stabilito il confine. Avendo i Fileni ampiamente superato la metà della distanza, vennero accusati dai corridori cirenaici di essere partiti in anticipo rispetto agli accordi. Indignati, i Fileni giurarono la propria lealtà e, pur di mantenere alla loro Patria il confine raggiunto, su richiesta dei cirenaici si dichiararono disposti ad essere sepolti vivi per stabilire con i loro corpi il confine, come avvenne͘. Sopra l’arco erano collocate le statue bronzee dei due fratelli sepolti vivi, sormontati simbolicamente da tre cornicioni (gli strati di terreno a loro sovrapposti) e da un’ara a ricordo di quella che secondo la leggenda era stata in antichi tempi collocata sul luogo di sepoltura.