Nicky Di Paolo, 23 dicembre 2013
Centinaia di anni or sono in Etiopia governavano i re di Gondar, sorprendente cittadina medievale, poco distante dal lago Tana, con torri e castelli smerlati che nessuno avrebbe mai pensato di trovare nel centro dell’Africa, dove i Ras e tutto il resto della popolazione abissina abitavano case realizzate con rami d’albero e frasche tenuti assieme da una malta ricavata mescolando fango con sterco di vacca.
Gondar fu fondata nel 1632 e diventò capitale nel 1635 quando il re Fasilidès, espulsi i Gesuiti portoghesi, vi stabilì la sua residenza. Fasilidès fece costruire una poderoso muro di cinta lungo due chilometri, merlato e munito agli angoli di bastioni rotondi. Lo stesso re fece erigere numerose chiese e costruire un quartiere per l’Abuna e uno per l’Ecceghiè. Gli operai costruttori di Gondar furono in pratica le maestranze indiane e falascià formate dai portoghesi, e i modelli architettonici furono presi dalle costruzioni che erano state erette dai missionari Gesuiti.

Più difficile era per il popolo accettare la realtà di quella fantastica città che credevano costruita da angeli o da demoni, in ogni caso da qualcosa di ultra terreno da cui era bene stare fuori; è per questo che i quartieri popolari indigeni si trovavano fuori delle mura che circondavano la cittadella medievale. 12 porte permettevano il transito tra l’interno della cittadella medievale e l’esterno dove si estendeva il solito abitato africano, punteggiato di zeribe e di gruppi di capanne a forma di tucùl, che dagli Amara sono chiamate “goggio”.

Non tutti gli abitanti dei quartieri popolari erano intimiditi dalla grandiosità della cittadella medioevale. Ancora oggi si racconta che, più di duecentocinquanta anni or sono, circolava in Gondar, Mikael , un ragazzetto di 12 anni; orfano, senza alcun parente, viveva solo con il suo cane; o meglio girellavano sempre attaccati assieme, dormivano dove capitava, si nutrivano di ciò che potevano arraffare qua e là o con quello che gli offriva qualcuno in cambio di piccoli lavoretti come pulire l’interno delle abitazioni, i cortili delle zeribe, trasportare piccoli pacchi di mercanzie e così via.
Non capitava mai di incontrare Mikael da solo per le vie di Gondar: c’era sempre appresso il suo cane dal pelo fulvo e dalla stazza notevole, tanto da apparire molto più imponente dello snello ragazzino, ma nessuno osava importunare i due in quanto l’animale sembrava sempre pronto ad avventarsi contro chiunque osasse infastidire Mikael, anche semplicemente alzando il tono della voce.
Le guardie reali, che numerose pattugliavano in continuazione la cittadella, fingevano di ignorare la coppia per il rispetto che incuteva l’animale e così Mikael poteva entrare e uscire indisturbato senza dover rendere conto a nessuno di ciò che stava facendo.
Tutti conoscevano quello strano abbinamento e anche a corte si scherzava sul fatto che, tutte le volte che il ragazzo e il cane incontravano animali feroci rinchiusi in gabbie di ferro, immancabilmente l’animale si gettava contro di loro intuendone la potenziale pericolosità. Mikael faceva fatica a trattenere il suo Sho, questo era il nome del grosso cane, che avrebbe avuto senza dubbio la peggio aggredendo, anche se rinchiusi in gabbia, un leone o un ghepardo.
Mikael sembrava un ragazzo contento che gioiva della sua libertà, totalmente realizzato dall’amicizia del suo cane, tanto che ignorava tutti gli altri fanciulli che spesso lo invitavano a giocare con loro; in altre parole amava la solitudine, mentre la mente sognava sempre di potere un giorno abitare in uno degli splendidi castelli che si trovava ogni giorno di fronte e dei quali conosceva alla perfezione la loro forma, l’ubicazione dei locali e le numerose vie di entrata e uscita.
Quando Mikael aveva 12 anni la regina Mentuab era ancora la reggente dell’Etiopia in quanto suo figlio Jasù, malgrado avesse raggiunto l’età per governare, non era ancora maturo per reggere il regno. Il giovane principe viveva però separato dalla madre e aveva ristrutturato il castello di un suo antenato che si chiamava anche lui Jasù. In Gondar circolava da tanti anni una diceria, dove si sosteneva che il vecchio Jasù aveva nascosto una pentola piena di monete d’oro in una delle mura appena costruite senza che nessuno riuscisse a spiegare il perché di quel gesto. Jasù mai confermò e mai negò di aver nascosto un mucchio di oro e quindi tanto meno poteva spiegarne il motivo.
In realtà il vecchio monarca era noto per la sua fissazione sulla magia e sulla superstizione. Jasù, nascondendo l’oro in un muro della sua casa, avrebbe potuto sperare di tenere tranquilli i geni del male e gratificarsi quelli del bene facendogli accumulare montagne di oro.
Anche il giovane Jasù sembrava voler ignorare gli insegnamenti e i consigli della madre Mentuab che, saggia e devota cristiana, rifuggiva tutto ciò che aveva a che fare con la magia e le superstizioni; lui dava l’impressione invece di voler seguire le orme di Beccafa, suo padre e primo marito di Mentuab, che dedicò la sua esistenza alla magia e che poi fu strangolato durante un rito stregonesco. Il giovane era cresciuto attorniato dall’amore della madre e dal tenebroso animo del padre.
La leggenda dell’oro nascosto del vecchio Jasù, faceva pensare e sognare in continuazione il popolo che però non lasciava mai trapelare nulla.
Se questa diceria faceva sognare e fantasticare gli abitanti di Gondar, non passava per la mente a nessuno l’idea di cercare e trafugare l’oro nascosto per paura di incorrere nelle ire dei re, che non avrebbero esitato a fare appendere a uno degli alberi che circondavano la città chiunque si mostrasse interessato ai tesori reali, e ciò per imporre a tutti di rispettare la proprietà e le idee del re .
A onor del vero, tra la folla che abitava la città di Gondar qualcuno c’era che sognava la pentola piena di oro e questi era Mikael che, da quando aveva avuto sentore della cosa, non aveva mai cessato di pensare a come fare per trafugarla. Lui era piccolo e inerme; non poteva in nessun modo confidare a qualcuno di avere in mente il furto reale pena la certezza di essere denunciato e poi severamente punito. D’altra parte la sua piccola mente lavorava incessantemente all’ambizioso progetto e non c’era nulla che potesse distoglierlo da quella fissazione.
Solo il suo cane sembrava riportarlo a tratti alla realtà giornaliera per procurare di che nutrirsi e rifornirsi delle quotidiane necessità. Ma fu proprio Sho a suggerirgli un’idea, tanto semplice, quanto promettente. Mikael si era reso conto che Sho si metteva alla ricerca di tutto ciò che lui gli faceva annusare a lungo; il giovane abissino aveva adottato una tecnica originale; ad esempio, se aveva necessità di burro per curarsi le piccole ferite o per ungersi i capelli, al momento di coricarsi poneva un pezzetto di burro accanto al naso del suo cane che dormiva sempre vicino a lui. Al risveglio l’animale sembrava animato da uno stimolo intenso alla ricerca di burro e trascinava Mikael nella sua bramosia.
Allorché individuava la presenza di burro, si fermava immobile e silente, dando il tempo a Mikael di localizzarlo e di trovare il sistema per arraffarlo. La fregola di trovare le cose annusate in una notte durava un paio di giorni, ma se lui continuava a far dormire il cane vicino allo stesso oggetto, l’effetto si prolungava. Se andava bene per tutte le cose in generale, perché Sho non avrebbe dovuto imparare a cercare anche l’oro.
Due erano però i problemi da risolvere: il primo era quello di trovare un oggetto d’oro per farlo annusare al cane, il secondo era quello di come poter fare discriminare l’oro del re da quello che portavano addosso tutti gli abitanti di Gondar.
Mikael viveva solo, ma poteva contare sull’aiuto di quelli ai quali prestava la sua modesta opera. Tra questi c’era Marcos, un orefice che aveva un negozio proprio di fronte alla sesta porta della cittadella. Mikael a giorni alterni andava a pulire il locale dove Marcos lavorava l’oro e l’argento. Principalmente il suo compito era quello di spazzare e spolverare in quanto la limatura degli oggetti preziosi creava un’abbondanza di polvere.
Marcos osservava attentamente il materiale raccattato da Mikael e decideva di volta in volta se valeva la pena di rimetterlo a fondere allorché notava la presenza di limatura preziosa, altrimenti faceva buttare a Mikael la polvere fuori della porta. Nella mente del fanciullo abissino era nata l’idea, fino dai primi tempi che aveva lavorato per Marcos, che nella polvere della spazzatura, anche se non visibili ad occhio nudo, dovevano per forza essere presenti minime quantità di oro e di argento ma non recuperabili dal resto della spazzatura.
Mikael, non avendo altre alternative, cominciò a recuperare la polvere che Marcos lo invitava a gettare fuori e, prima di coricarsi, la cospargeva con cura nel pelo del suo cane. Per tanti giorni non successe nulla, tanto che Mikael stava cominciando ad abbandonare quell’idea, quando una sera Sho si arrestò di colpo in mezzo a un sentiero e non c’era verso di smuoverlo da quella posizione. Non c’erano abitazioni nei paraggi né gente che potessero spiegare la presenza di quelle cose che il cane aveva imparato a localizzare. Mikael cercava con lo sguardo qualcosa che potesse spiegare il comportamento dell’animale e rimosse con il piede la terra di fronte al muso immobile di Shò. Qualcosa brillava spuntando dal terreno.
Mikael si mise ginocchio a scavare con le mani attorno alla fonte del brillio e con estremo stupore estrasse una piccola croce in filigrana d’oro con evidente rottura del piccolo anello che l’aveva tenuta attaccata ad una collana, prima che il proprietario l’avesse perduta. Premiò il cane con un bel pezzo di carne che non scordava mai di portarsi appresso per condizionare l’animale e addomesticarlo sempre al meglio.
Di solito, nelle ore che lavorava a pulire il negozio di Marcos, Mikael lasciava il cane fuori della porta legato con una catenella; quando Sho cominciò a localizzare l’oro non stava più calmo fuori della porta dell’oreficeria; era in uno stato di continua agitazione perché da un lato tentava di entrare nel negozio e dall’altro annusava tutte le persone che passavano di fronte puntando quelle che avevano dell’oro addosso e con caratteristici guaiti cercava di invitare Mikael a recuperare il prezioso elemento. Presto la situazione si fece complicata in quanto era evidente che il cane agitato fuori dell’uscio non invitava le persone ad entrare e Marcos cominciò a lamentarsi del comportamento dell’animale, senza però sospettare il perché di quel cambiamento in quanto prima Sho stava per ore e ore tranquillo senza mai dare un cenno di agitazione. Mikael decise di darsi malato per non dover andare a pulire il negozio di Macos e rimase per quasi due giorni ai margini dell’abitato, all’ombra di un grande sicomoro.
Aveva bisogno di pensare: togliere al cane la voglia di cercare l’oro non era difficile, bastava tenerlo lontano da l’oro durante il sonno e in pochi giorni Sho avrebbe smesso di cercare questo pericoloso materiale, ma Mikael non voleva considerare questa ipotesi, ora che aveva trovato il sistema per diventare ricco. Il giovane abissino capiva che rimanendo in quello stato con il cane capace di trovare l’oro, in breve tempo avrebbe accumulato ricchezze non indifferenti, ma l’oro di Jasù lo intrigava più di ogni altra ambizione e decise di continuare a cercarlo. Stabilito quindi che l’oro del re rappresentava la meta dei suoi desideri, pian piano cominciò a elaborare un’idea che poteva limitare di molto l’agitazione di Sho.
Infatti di notte non circolava più nessuno sia nella cittadella che nei borghi contigui. C’erano soltanto le ronde di soldati e alcune guardie civili che tenevano accesi i fuochi fuori delle abitazioni e, rimanendo sveglie, tutelavano le case dei padroni e assicuravano loro sogni tranquilli. Sia i soldati che le guardie conoscevano Mikael e lo lasciavano girare anche di notte col suo cane, sapendo che il ragazzo non aveva la casa e dormiva dove capitava. Mikael cercò di sfruttare il buio scivolando silenzioso per le vie della cittadella medioevale e soffermandosi a lungo attorno al castello di Jasù che di notte, come tutte le altre abitazioni, aveva il portone chiuso.
Le poche voci che aveva udito raccontare della pentola piena d’oro, erano tutte d’accordo nel ritenere che il tesoro fosse nascosto in una delle grosse mura di cinta, dove per il loro spessore, si sarebbe potuto celare con accuratezza anche un grosso involucro.
Sho girava volentieri attorno al maniero e trascinava Mikael che avrebbe preferito che il cane passeggiasse con calma onde poter annusare l’oro che di certo, se esisteva, doveva trovarsi ben distante dalla superficie dello spesso muro. Sho però era difficile da trattenere, smanioso di correre per gli spazi aperti, deserti di notte mentre fin dai primi raggi della luce solare, una folla di gente si riversava fuori delle abitazioni incutendo nel cane moti di timore che lo facevano restare meno attento e tutto appiccicato alle gambe di Mikael.
Solo dopo alcuni giorni Mikael, durante le passeggiate notturne, si rese conto che Sho tendeva a rallentare la sua vivacità sotto la parete Nord del muro di cinta del castello di Jasù , luogo tra i tanti che il cane di solito evitava di percorrere. Quest’atteggiamento sorprese il giovane abissino che fino a quel momento non aveva avuto spunti nell’osservare il comportamento dell’intelligente animale. Nelle sere successive Mikael limitò il loro girellare sotto il lato nord delle mura del castello di Jasù tenendo presso di sé Sho legato ad una catenella.
Il cane dapprima cercava di trascinare il padroncino verso il parco della cittadella, ma poi dopo tanti sforzi inutili, si metteva ad annusare tranquillo la base delle mura del castello d Jasù, urinando di tanto in tanto dove avvertiva l’odore dell’escrezione di altri cani. Mikael per alcuni giorni continuò a fare riposare il cane sulla polvere raccolta nel negozio di Marcos e di notte obbligava Sho a andare in su e giù per la solita via dove era palese che avvertiva qualcosa di indefinito. La perseveranza del ragazzo fu premiata quando una notte Sho si fermò di botto accanto al solito muro restando immobile. Il cuore di Mikael si mise a battere forte: era certo che il cane avesse annusato qualcosa di importante, ma presto altri quesiti si formarono nella sua mente; a quale altezza e a quale profondità si trovava l’oro del vecchio Jasù? Lui, così piccolo e così misero, come avrebbe potuto cercare nelle mura l’oro e come avrebbe fatto a recuperarlo?
Il giorno dopo, di primo mattino, si presentò alla porta del castello di Jasù mostrando alla guardia un mazzo di erba che il re utilizzava per i suoi riti stregoneschi. Ne consumava molta e premiava sempre chi gliela procurava.
La guardia conosceva Mikael e lo fece entrare senza problemi. Una volta all’interno consegnò l’erba ad uno dei servi affinché la portasse al re e lui si portò sotto il fatidico muro per osservarlo dalla parte interna. Non ci mise molto a intravedere nella muratura una parte appena diversa dal resto della costruzione. Era pressoché impercettibile infatti una differenza di colore della malta di pochissimo più chiara; nessuno avrebbe notato quella minima differenza se non avesse avuto la necessità di ricercarla. Il giovane abissino a stento tratteneva un’agitazione interna che lo avrebbe fatto saltare di gioia. Se c’era un tesoro in monete d’oro, quello poteva essere il posto dove Jasù lo aveva nascosto.
Calcolando la larghezza del muro come quattro delle sue piccole braccia, Michele suppose che il contenitore del tesoro fosse stato murato circa uno dei suoi bracci in profondità. Così che dall’esterno c’erano sassi e malta per una profondità di tre braccia.
Fino ad allora non era stato poi così difficile cercare l’oro perché il merito maggiore era di Sho e del suo raffinato senso dell’odorato. Il cane ora però non lo avrebbe aiutato. Mentre pensava, calcolò con precisione l’altezza della piccola anomalia del muro interno e una volta all’esterno localizzò facilmente la parte corrispondente senza alcuna evidente minima alterazione nella costruzione. Scavare un buco nel muro di cinta profondo e largo quel tanto da lasciare passare il suo corpo, era un’impresa non indifferente, ma diventava impossibile se lo avessero individuato e non avrebbe potuto portare ragioni sufficienti per spiegare il suo comportamento.
Michael non si diede per vinto e aspettò una notte senza luna per dare il via a ciò che aveva progettato. Lasciò il cane ad una vecchia che amava l’animale e che riusciva a tenerlo a freno; aveva bisogno di alcuni giorni di libertà se voleva tentare di trovare il tesoro. In una sola notte buia doveva muovere i sassi all’altezza dell’oro e avrebbe dovuto scavare quel tanto da creare una nicchia che contenesse il suo corpo; poi avrebbe rimesso i sassi esterni al loro posto camuffando il buco con lui dentro. Calcolò che il lavoro avrebbe richiesto perlomeno quattro giorni e quattro notti; avrebbe riposato solo nei momenti di grande stanchezza e il rumore del suo scavo di giorno sarebbe passato inosservato.
E così Michael cominciò in una notte senza luna il suo lavoro; era una notte speciale dove si festeggiava il Mascal, la grande festa della Croce, e nella piazza principale veniva bruciato il Damerà, un alta catasta di fascine, con tutto il popolo che partecipava per vedere da che parte cascava la pira in fiamme traendone auspici per l’anno futuro, e per saltare i fuochi rimasti sparsi sul terreno formando coppie che davano sempre luogo a nuove amicizie o fidanzamenti. Il rumore della festa era elevato e nascondeva i colpi di Michael contro il muro del castello: ciò che gli dava forza era la coscienza che quella era l’ultima fatica con la speranza di trovare il tesoro del re.
I sassi che rivestivano il muro che erano da rimuovere non erano poi così grandi, mentre al di sotto c’era solo del pietrisco misto a malta, senz’altro duro, ma che si sbriciolava sotto i colpi della piccola zappetta che il ragazzo si era portata appresso. Il lavoro procedeva lentamente ma una volta che Michael si ritrovò all’interno del muro, risistemò i sassi in modo tale che dal di fuori nulla poteva scorgersi e allora si sentì più tranquillo e fu preso da un’energia che mai aveva provato e non si dava riposo. Si rendeva conto dell’alternarsi del giorno e della notte dalla luce che filtrava tra i sassi. Si nutriva di quel poco che si era portata appresso, ma il morale lo aveva alle stelle e nulla lo avrebbe fermato.
Al quarto giorno sentì cedere il muro di fronte a se e si ritrovò dentro un piccolo incavo dove era collocato un recipiente di rame pieno di ori e di pietre preziose. Era così forte l’emozione e la stanchezza che non riuscì a godere appieno della sua scoperta. Era frastornato e se da una parte era la felicità a lanciarlo verso le stelle per aver trovato il tesoro, dall’altra la difficoltà di portarlo via e di poterselo godere appariva così grande e difficile da porre dubbi se portare a termine l’impresa. In ogni caso Il passo successivo era quello di trascinare piano piano il tesoro verso l’uscita per poi con tutta tranquillità scegliere i momenti giusti per portarselo via un po’ alla volta.
Aveva finito ormai le sue scorte e la fame e la sete, miste al subbuglio del suo animo, lo stremavano, ma raccolse le ultime forze e iniziò a trascinarsi dietro, verso l’esterno, il pesante fardello. Non avrebbe mai immaginato quanto duro sarebbe stato retrocedere tirandosi appresso quel mucchio di ricchezze. Aveva calcolato di raggiungere l’entrata in piena notte e si meraviglio delle tante luci che filtravano attraverso i pertugi fra i sassi. Michele non aveva la forza per chiedersi il perché di quella luminosità, ma con un piede spinse fuori i sassi che camuffavano il suo buco e si affacciò all’aria pura dell’altipiano.
– Finalmente! Era l’ora che tu tornassi alla luce! – Così esclamò il capo delle guardie del castello di Jasù. – Sono giorni che ti aspettiamo e cominciavamo a sospettare che tu fossi morto la dentro. Il re aveva avuto sentore del tuo girellare con il cane attorno al castello e dopo avere appreso che lavori con un orafo, non ha avuto dubbi sul fatto che tu cercassi il tesoro. Ora che lo hai trovato, ho l’ordine di portarti subito da lui. –
Mikael non sapeva cosa dire o meglio non aveva neppure le forze per parlare, ma fu lieto di vedere Sho corrergli incontro saltando di gioia.
– Eravamo certi che fossi tu dentro il buco in quanto abbiamo portato qua il tuo cane che voleva in tutti i modi entrarci e a stento lo abbiamo trattenuto. Ora andiamo dal re. –
Michael più che altro fu portato di peso in quanto non riusciva a camminare per essere stato tanto tempo a carponi e non era neppure in grado di pensare, aveva solo paura dell’ira del re e di ciò che gli avrebbe potuto far passare. Durante il breve tragitto verso le stanze di Jasù, si meravigliò che nessuno lo insultasse o lo maltrattasse come succedeva di solito con chi commetteva dei reati e non si rese neppure conto dei locali che stava attraversando.
Michael trovò il giovane Jasù disteso sopra un semplice letto di legno e paglia intrecciata con indosso una tunica color porpora; non aveva nulla che distinguesse il suo ruolo, ma rasserenò il ragazzo, accogliendolo con un divertito sorriso.
Diede quindi un’occhiata rapida al contenuto del recipiente di rame e poi si rivolse ai presenti indicando Michael con un dito.
– Mi avevano detto che sei un ragazzo intelligente e che il tuo cane è capace di trovare qualsiasi cosa. Non avrei mai sperato però che di giorno tu e il tuo Shò sareste stati capaci di trovare l’oro che il mio antenato nascose dentro una delle mura. Quando mi hanno detto che continuavi a girare intorno al mio castello assieme al tuo cane e che tu lo incitavi a cercare, ho sperato che fosse l’oro ad interessarti, poi ti ho fatto spiare e quando hai aperto la breccia nel muro, ho capito che facevi sul serio. Sei stato quattro giorni dentro il cunicolo e cominciavamo a darti per morto. Ora sei qui con tutto il tesoro e a mio parere meriti una ricompensa – .
Ciò detto il principe infilò la mano dentro il pentolone e la ritirò piena di monete e di gemme che consegnò nelle mani dell’incredulo Mikael, pronunciando con veemenza queste parole:
– Non dovrai mai dire a nessuno ciò che hai trovato e a chi lo hai consegnato. Ora va e dormì a lungo per riposarti. –
Mikael dormì dentro il palazzo e la mattina dopo corse da Marcos e gli consegnò il suo tesoro proponendogli di diventare socio.
Questa è una leggenda e ancora oggi non si sa se il tesoro sia mai esistito e se sia mai stato scoperto.
Il giovane Jasù fu ucciso poco tempo dopo da un Ras che tiranneggiava su Gondar e solo apparentemente appoggiava Mentuab e il suo figliolo.