Nicky Di Paolo, 21 agosto 2004

Il porto di Massaua è stato per secoli,  fra le tante altre cose,  una specie di centro di smistamento per passeggeri che andavano in Europa oppure in Sudafrica o in Asia.

Negli anni cinquanta tre grandi motonavi, l’Africa, l’Europa e l’Asia, facevano la spola tra il Sudafrica e l’Italia, e Massaua era  uno scalo abituale.

I camerieri degli alberghi classificavano gli stranieri in tre categorie: africani, italiani e gente di passaggio. Fra gli africani  c’erano logicamente anche gli abissini che provenivano dall’altipiano; in gergo locale si  parlava di gente che scendeva  e gente che saliva  all’Asmara.

I bianchi in transito o in vacanza a Massaua,  hanno sempre  avuto la consapevolezza di trovarsi in un luogo particolare dove un mare eternamente caldo e vivo aveva fama di donare sensazioni indimenticabili.

Gli eritrei invece non amavano i bagni in mare: erano frequenti i ragazzini che si gettavano in acqua per gioco, ma era difficile vedere un adulto godersi una nuotata in quel mare di sogno.

Poi tutto è cambiato. Verso la metà degli anni ottanta gli eritrei hanno cominciato a frequentare l’immensa spiaggia di Gurgussum, subito a nord di Massaua,  tanto che dieci anni dopo il mitico arenile non sembrava molto differente da un litorale affollato dell’ Adriatico. Lo sviluppo del traffico aereo ha fatto sparire le navi passeggeri e la partenza degli italiani e degli americani ha ridimensionato il Lido, locale ameno con una grande piscina in diretto contatto con il mare.

Ciò che non è mai mutato invece è il modo di vivere la notte a Massaua da parte degli eritrei, esclusi naturalmente i terribili e lunghi periodi delle ultime guerre dove il coprifuoco ed i bombardamenti caratterizzavano le notti della “Perla del Mar Rosso”.

Fino a quando ci sono stati i bianchi e navi passeggeri in transito, il Lido era il centro di riferimento dove si ballava, si cenava, si facevano bagni notturni e da dove barche a remi erano pronte a trasportare nella baia chi cercasse un po’ di privacy o solo del silenzio.

Alcuni eritrei frequentavano il Lido, ma in genere preferivano i loro locali da ballo fra i quali spiccava il Trocadero.

Distava poche centinaia di metri dal Lido e come ambiente non aveva nulla di particolare. Poche stanze con alcuni divani ed una vasta terrazza, posta al terzo piano di un bianco edificio, che si affacciava direttamente sulla baia. Una fila ininterrotta di vasi di fiori poggiava sul muretto che circondava il terrazzo mentre poco più in alto file di lampadine intermittenti e multicolori rischiaravano la pista circondata da tavoli e altri divani.

Quando ero a Massaua, il Trocadero esercitava su di me un richiamo forte e particolare ed erano tante le volte che del tutto solo o con qualche amico andavo lassù a passare la sera, guardato con occhio critico e severo dalla maggior parte degli italiani che vedevano nel night club un luogo da non frequentare. Malgrado ciò c’erano sempre diversi bianchi; alcuni italiani e fatto strano, i sudafricani di passaggio che non sdegnavano il Trocadero, forse per rivalsa ai divieti sofferti a casa loro.

Era del tutto inutile pensare di spiegare ad altri che ero attratto da tante cose di quel locale  e diverse da quella di rimediare  facili compagnie. Loro in genere non lo sapevano, ma la magia del tropico era lassù, nel Trocadero di Massaua. 

Gli eritrei che erano  stati tutto il giorno a lavorare, di notte si gettavano nel vortice  delle danze con passione, senza preferenze per nessun ballo e per nessuna ballerina, per nessun ritmo e per  nessun partner.

Il rock a quei tempi  infuriava, ma spesso un vecchio impianto stereo suonava melodie lente  degli anni sessanta oppure un’orchestrina di pochi elementi eseguiva motivi locali dolci e ripetitivi. Giovani e meno giovani  ballavano prolungati pezzi che non terminavano mai e danzavano con la frenesia di chi sta per dire addio a qualche tormento mentre la grande terrazza con le sue luci variopinte ed i suoi fiori  fronteggiava la calma del Mar rosso. Le coppie si fermavano ogni tanto per asciugarsi il sudore ma non trovavano una bava di vento che li ripagasse della loro fatica.

Di solito me ne stavo seduto in un angolo, con un paio di birre, a gioire dello spettacolo che gli eritrei sanno dare danzando; c’èra una grazia innata nei loro movimenti: mentre le gambe si muovevano appena, giusto per mantenere il ritmo, il busto e le braccia disegnavano figure di una plasticità perfetta, di una sensualità contagiante mentre si udivano piccoli gridi soffocati in mezzo ad un grande volare di sospiri e di carezze.

Quelle luci, quei suoni, quei corpi snelli in movimento, il caldo, il profumo dei cespugli delle azalee e il dolce idioma tigrigno,  rivelavano i segreti di una notte incantata tropicale. Ogni tanto l’ambiente pian piano si chetava fino a quando l’orchestrina si concedeva una pausa ed allora un disco di un nuovo rock scatenato richiamava le coppie al dovere e la terrazza si rianimava e così via per ore e ore senza che i ballerini si stancassero malgrado il caldo e l’ umidità.

Dal mio  angolo sentivo, oltre a quello dei fiori,  il profumo salmastro del mare mischiato a quello delle ragazze mentre il respiro placido dell’acqua mi cullava con dolcezza. Le notti erano serene e luminose perché nell’immensità del cielo risplendevano mille diamanti.

In basso le luci dei bar abbagliavano delicatamente e i rumori soffocati del porto  aumentavano l’aria di mistero, mentre nell’acqua piatta giocavano le luci cangianti del Trocadero ed anch’io, seduto nel mio angolo, cambiavo continuamente di colore.

Ogni tanto qualche ragazza veniva ad invitarmi a ballare, preoccupata della mia solitudine, ma non si sdegnava per un mio rifiuto, cercava di capire solo se fossi preda della tristezza.

Invece, fortunatamente, riuscivo a godermi tutto; anche la partenza improvvisa di qualche piroscafo che misteriosamente si staccava dalla panchina senza sirene e usciva dal porto  fendendo la notte del mare e lasciando dietro di se una scia luminosissima fino a rimanere un piccolo punto scintillante che si alzava e si abbassava all’orizzonte e poi più nulla. Piccole lance continuavano a solcare la baia mentre il ritmico tuffare dei remi contribuiva a riempire il mare di piccoli rumori . 

Non era difficile sentire la poesia di questo porto particolare dove ancora oggi approdano i sambuchi, snelle feluche arabe del tutto immutate a quelle che gettavano l’ancora nella stessa baia centinaia di anni prima.

Malgrado questi movimenti, la quiete era immensa e i soffi appena percettibili del vento non riuscivano a smuovere il calore della notte.

I riverberi del Lido e dei bar si spengevano dopo  qualche ora, ma il Trocadero continuava  fino all’alba, pochi minuti prima che i muezzin invitassero i fedeli alla preghiera, a diffondere le sue luci , la sua musica, il suo fascino.

Erano poche le coppie che si allontanavano in cerca di intimità; se tornavano dalla gita in barca, si rituffavano nella danza.

I sudafricani gioivano della loro libertà, della compagnia delle belle ragazze eritree e di inarrestabili libagioni. Al Trocadero era possibile bere anche il “ciai”, il delicato tè speziato e l’insuperabile caffè abissino accompagnato dai “mezzè” , tartine di “ingera” e “zighinì”. Il cibo e le bevande drogate aumentavano le capacità di percezione ed in certi momenti riuscivi a realizzare in pieno la gioia di vivere: anche il Trocadero  faceva parte del magico Tropico ed in lunghi anni di guerra, quando lo trovai chiuso, ebbi la certezza della sua  importanza e della sua poesia.