Nicky di Paolo, 5 ottobre 2018

Verso la fine degli anni 60, negli ultimi anni di liceo e nei primi anni della facoltà di medicina trascorsi all’Asmara, ero solito andare in giro per il Corno d’Africa con Antonio e Giovanni; il nostro era un trio assolutamente affiatato e facevamo di tutto per ritagliare spazi di tempo da dedicare alle nostre gite africane.

Ho scritto molto a proposito di queste escursioni che ci hanno lasciato un patrimonio di sensazioni che si sono rivelate preziose per il futuro delle nostre vite. Andare a spasso per le lande africane era una passione che si percepiva materializzarsi appena usciti dalla città e concretizzarsi ma mano che ci si allontanava verso mete che decidevamo nei giorni precedenti,così da pregustare di qualche orale gioie dell’escursione. Curiosi di tutto, avidi di scoperte, ci facevamo trasportare dall’auto fino a un centro abitato e poi ci godevamo grandi camminate per poter osservare animali nel loro habitat naturale, per capire come vivevano le popolazioni dell’interno, per goderci splendide albe e tramonti e per respirare una limpida aria di libertà.

Ancora oggi, a distanza di tanti anni rivedo,spesso e volentieri, filmini in 8mm e fotografe in bianco e nero che documentano quei momenti. Film e foto che ho fatto trasferire in moderni e pratici DVD per poterli rivedere quando mi pare senza l’incubo della loro distruzione.

Preferivamo quelle gite a qualsiasi altro tipo di divertimento;eravamo gelosi di questo nostro vagabondare che non era mai definito ma che affidavamo al caso e in pratica ci lasciavamo trasportare dalla fantasia e dal fato.

La vettura era sempre quella di Giovanni che, unico fra noi, possedeva un’automobile personale, un Maggiolino Volkswagen, regalatogli dal padre e che lui metteva volentieri a disposizione. Oltre ai fuoristrada, i Maggiolini erano le uniche auto che in Eritrea e in genere in tutta l’Est Africa, circolavano anche in pista grazie al raffreddamento ad aria e alla robusta copertura di spessa lamiera che ricopriva il sotto della vettura.

Oggi in Eritrea esistono strade asfaltate che raggiungono buona parte del territorio, ma negli anni 60 la maggior parte delle vie di comunicazione erano costituite da strade con il fondo a sterro e in tutto il resto del vasto interland esistevano piste che subivano in continuazione modificazioni a causa di piogge torrenziali e diventi che spostavano cumuli di sabbia, alterando la morfologia delle carreggiate.

In quei 2-3 giorni di scorribande, si mangiava dove capitava e si dormiva quando eravamo spossati nel corpo e sedati nello spirito; al sopraggiungere dell’oscurità, si trovava un posto riparato e ci preparavamo una cena improvvisata con pentole, primus e piatti portati dall’Asmara, cucinando il più delle volte minestre reconfezionate, delle quali andavamo ghiotti,mentre dormivamo talvolta anche all’aperto. Trovavamo sempre ospitalità nelle missioni dei frati cappuccini, ai quali rifiutavamo un cortese invito a cena, fatto col cuore, ma certi che accettando, li avremmo costretti a ridurre le loro già modeste porzioni.

Poi verso la fine nel 1963, il nostro vagabondare cessò di colpo sia perché per due di noi erano terminati gli studi e funecessario recarsi in Italia per laurearsi, sia perché la situazione politica locale stava precipitando. Fu così che un giorno di Dicembre,trovandomi in Eritrea appena laureato, decisi di trascorrere un paio di giorni a Massaua per ritemprarmi e decidere del mio futuro. Mi guardai intorno e mi resi conto che non c’era rimasto nessuno che volesse o potesse scendere al mare con me.

Rimasi un po’ incerto su cosa fare, ma poi qualcosa si mosse nell’animo e, benché sconsigliato dai miei genitori, decisi di andare da solo. Presi un po’ di biancheria di ricambio, feci il pieno di benzina all’ormai vetusto 1400 Fiat e inforcai la discesa verso il mare chiedendomi se avessi preso una decisione giusta o meno.

Quel senso d’incertezza durò ben poco, lasciando il posto a un’esuberanza sconosciuta. Lì per lì pensai che quella sensazione di benessere fosse da riferirsi al fatto che in tasca tenevo ben presente la laurea in medicina della quale prendevo pian piano una piacevole coscienza che sostituiva una strana incredulità. Provai un po’ di tristezza transitando da Nefasìt dove i miei parenti avevano un tempo la casa con un vasto giardino; la scomparsa di mio zio aveva causato l’abbandono della fattoria di Nefasìt che venne lasciata in donazione alla missione francescana, ma in quel momento era evidentemente abbandonata. Ciò mi rammentò che anche a Massaua non avevo più parenti e Fabrizio, un mio caro amico, che era uno dei pochi italiani rimasti in Eritrea, in quel momento era assente per una breve visita in Italia; ma non mi sentii perso e, al contrario, mi aumentò lo stato d’eccitazione e pigiai sull’acceleratore.

Di solito tenevo sempre moderata la velocità della vettura e non avrei mai affrettato l’andatura nella tortuosa carrozzabile Asmara-Massaua per non rischiare un incidente in quella via così pericolosa. Ci misi un po’ a capire che quella eccitazione che mi pervadeva fosse da riferirsi non tanto al fatto che ero, a tutti gli effetti,un hakìm, ma la magia consisteva nel prendere atto che ero solo, ed era la prima volta che mi spostavo senza una compagnia ritenuta da tutti indispensabile per viaggiare sicuri fra quei pericolosi tourniquet.

Poi tutto andò per il meglio e a Massaua trascorsi due giornate in compagnia di me stesso, riuscendo a intravedere le possibilità della mia esistenza futura in modo chiaro, in contrapposizione alla regola che in due o più si riesce a elaborare meglio i problemi della vita. Tuttavia, a spiegare almeno in parte la mia esaltazione, non potevo ignorare che nel porto eritreo avevo come ottima compagnia quella magica città che con il suo fantastico mare e la sua multietnica popolazione mi dava sempre tanta gioia.

Tornando all’Asmara però, rimasi sorpreso rendendomi conto che la sensazione di benessere goduta al mare non mi aveva abbandonato, e così decisi di andare a visitare l’ospedale di Agordat ancora da solo, dopo aver convinto mio padre a non accompagnarmi adducendo il fatto che con la mia professione avrei dovuto viaggiare molto da solo e tanto valeva cominciare subito.

Il piccolo nosocomio dl Agordat era uno dei due centri medici dove in Eritrea mancava il medico e ben volentieri mi avrebbero offerto l’impiego. Mentre ero a Massaua mio padre mi aveva acquistato un Maggiolino usato, ma in buone condizioni e quindi la mattina appresso, di buon ora, mi incamminai per la strada di Cheren che mi avrebbe portato in un paio di ore alla ridente cittadina eritrea;per clima e posizione

Cheren era considerata un centro ideale a 1000 m di altitudine, per piacevoli soggiorni e per dare vita a superbe piantagioni di frutta e di verdure, una volta imbrigliate le acque piovane, come avevano felicemente realizzato alcuni imprenditori italiani. Da Cheren la strada sterrata scendeva veloce verso il bassopiano, con molte curve, e la guida richiedeva attenzione, mentre il paesaggio mutava di aspetto, rarefacendosi il verde per dare spazio a brulle colline che digradavano verso ovest, punteggiate di acacie spinose e rari baobab.

Il traffico era molto scarso ma alcune carovane di cammelli comparivano improvvisamente in mezzo alla via, costringendo ad un’andatura moderata. Fu proprio la bassa velocità a permettermi di inquadrarlo: era un giovane eritreo seduto su uno dei colonnini che delimitavano un’ampia curva; era vestito all’europea con jeans, scarpe da tennis e un maglioncino rosso, e teneva stretto con la mano destra un cartoccio che non era ben definibile.

D’istinto arrestai la vettura e con un gesto della mano lo invitai a salire. Mio padre, in contrasto a quanto suggerito dalla maggior parte degli italiani che risiedevano in Eritrea, dava spesso un passaggio a viandanti indigeni con i quali iniziava subito a parlare nella loro lingua conoscendo bene l’arabo parlato e scritto e il tigrigno parlato. La sua predisposizione per le lingue apprese alla scuola salesiana di Alessandria d’Egitto, gli aveva facilitato molto il suo mestiere d’importatore e desportatore, ma soprattutto gli aveva permesso di entrare in contatto con la popolazione locale che stimava il bianco che parlava la loro lingua,e tutto diventava più facile entrando in una relazione immediata e diretta.

Non parlavo le lingue come il mio babbo, ma avevo imparato che la gentilezza è sempre vincente per vivere in un paese straniero. Non ci volle molto a convincere il giovane eritreo a salire, e prese posto al mio fianco senza dire una parola di ringraziamento, ma rinchiuse la portiera come per invitarmi a riprendere il cammino. Ci volle poco a capire cosa conteneva il suo cartoccio: nell’interno della vettura, infatti si sparse l’odore acre della birra indigena che personalmente non mi piaceva, né il sapore, né l’odore.

In Eritrea si produceva e si beveva una birra italiana eccezionale per il gusto e dal profumo amabile e non riuscivo mai a capire perché molti abissini continuassero a preferire la pestilenziale sua. Anche se erano molti gli indigeni che preferivano I prodotti Italiani, specie al di fuori delle città il consumo del burro rancido e della sua era ancora molto elevato. Con un gesto della mano indicai il suo cartoccio e gli feci chiaramente capire che non gradivo quel fetore. Il giovane rimase sorpreso dal mio disappunto, ma non più di tanto e, anzi,mi porse il fiasco, invitandomi a bere.

Quella fetenzia io non la bevo di certo. – gli dissi in italiano – Faresti bene a non berla neppure tu, specie la mattina a digiuno. – Non ho denaro per comprarmi la birretta Melotti. – Rispose in un ottimo italiano e così dicendo bevve un altro abbondante sorso dal suo fiasco. Il sorriso dell’abissino era un misto di sofferenza e di simpatia e così gli chiesi come si chiamasse e perché bevesse così tanto e per giunta di mattina a digiuno.- Mi chiamo Samuel e sono di Asmara.– E che ci fai nel bassopiano, tutto solo, e per giunta ubriaco? – Tu non puoi capire quanto soffro, da quando Abeba mi ha lasciato per andarsene con un meticcio che ha una concessione non lontano da qua, non riesco più a vivere. Con pochi soldi in tasca non potevo fare nulla per trattenerla. Allora sono venuto qua con mezzi di fortuna perché voglio vedere dove sta e se è contenta.- Perché ti ha lasciato? Cosa fai all’Asmara? Ma per cortesia smetti di bere o ti faccio scendere.– Il ragazzo destava tenerezza e sembrava molto addolorato.- Sono un DJ del Night che si trova all’Asmara, all’inizio della strada per Massaua, proprio in mezzo al boschetto che circonda anche il Club del Tennis. L’ho conosciuta là e ti assicuro che è bellissima. Ma, con il mestiere che faccio guadagno poco, mentre lei mi diceva sempre che se non trovavo un lavoro ben pagato, mi avrebbe prima o poi lasciato, e così ha fatto. Non posso vivere senza di lei e la sua mi aiuta a sopportare il dolore.-Il giovane eritreo era visibilmente sofferente e provai per lui un po’ di pena, ma non avevo idea di come potergli dare una mano.

Stetti una decina di minuti in silenzio cercando di capire cosa avrei potuto fare per aiutare quel ragazzo, ma quando riportai lo sguardo su di lui mi accorsi che stava dormendo. Non ebbi alcuna esitazione: arrestai la vettura nel primo spazio che riuscii a trovare, tolsi delicatamente di mano a Samuel il suo fiasco e andai a posarlo distante dalla carreggiata. Ripresi la guida con i finestrini aperti, deliziandomi delle sensazioni piacevoli che mi trasmettevano le piane, della pace che mi infondevano quei panorami, dei profumi che a tratti inondavano il Maggiolino e del totale senso di libertà che sprigionava da quei luoghi che, a mio parere,non avevano confronti con altre visioni.

Il mio passeggero continuava a dormire profondamente e solo quando giunsi a una ventina di chilometri da Agordat e posteggiai la vettura in uno spazio sulle rive del fiume Barca, decisi di svegliarlo perché avevo voglia di fare quattro passi sul letto sabbioso del fiume in quel momento in secca. La prima cosa che fece, aprendo gli occhi, fu quella di cercare il suo fiasco, ma rimase silenzioso una volta constatato che era sparito. La passeggiata sul letto del fiume Barca per quanto mi concerneva era d’obbligo; specie se fatta di mattino, presto permetteva la visione di alcuni animali in libertà. In passato, assieme ai miei soliti compagni di gite, avevamo avuto modo di osservare, specie nello stesso letto di fiume, gruppi di gazzelle, tanti tipi di uccelli e perfino un varano.

Il mio passeggero non sembrò molto interessato ad andare a scarpinare sulla sabbia, ma quando gli comunicai che non gli avrei lasciato le chiavi e neppure la macchina aperta, decise di seguirmi, dapprima con un passo strisciato e svogliato, ma poi prese a camminare tenendo la mia andatura e, anzi, a volte superandomi e gettando uno sguardo dietro di sé come per sfidarmi a stargli appresso.

Lo lasciai andare tranquillo, l’unica cosa che gli chiesi fu l’età. Ne aveva 18 ma ne dimostrava molti di più. Quando glielo dissi mi affiancò e mi confidò che lui lavorava di notte, mentre di giorno dormiva in una stanza del night: in pratica non vedeva mai il sole e passava il suo tempo in antitesi con quello di una persona normale.-Allora la tua ragazza ha fatto bene a lasciarti. Che vita avrebbe potuto fare con te? – Ho cercato un altro lavoro, ma non so fare nulla oltre a quello che fa un DJ. – Cosa di piacerebbe fare oltre a giocare con la tua musica?- Un lavoro qualsiasi purché sia all’aria aperta.- -Non credo che tu abbia dei problemi a trovarlo. Sembri robusto e hai studiato, quindi dai un’occhiata in giro e vedrai che chi cerca trova.– – Devi tenere presente che i militari non mi hanno arruolato, o meglio non mi hanno costretto ad arruolarmi solo perché molti di loro la sera frequentano il night e i DJ come me sono ben pochi. Tra l’altro sono bravo e riesco a farli divertire, malgrado il brutto momento che stiamo vivendo e quindi non è facile trovarmi un altro lavoro senza evitare di essere preso per fare la guerra.- – Ora che sei lontano da Asmara come fanno a sostituirti? – -Tutti sanno che sono malato e ho chiesto un mese per curarmi. Per prima cosa voglio ritrovare la mia donna perché senza di lei non ho la forza di fare nulla. In base a ciò che mi dirà, sarò pronto ad affrontare qualsiasi ostacolo o, al contrario, lasciarmi morire ubriaco di sua.-

A parte due vistosi serpentari dai grossi becchi, nessun altro animale si fece vedere nel letto del fiume. Forse l’ora era già tarda e quindi invitai il ragazzo a tornare indietro verso il Volkswagen. Emise un sospiro di sollievo e probabilmente pensò che fossi un po’ matto a camminare con quel caldo.- Cosa farai una volta arrivato ad Agordat? Io dovrò rimanere in ospedale per capire se potrò assumere l‘incarico o meno. Tuttavia c’è anche il caso che possa tornare ad Asmara in serata, se questo posto di medico non sia per me accettabile.- – Mi metterò a cercare la mia ragazza, il suo nuovo uomo e la loro piantagione e poi cercherò di improvvisare.– – Ti posso solo augurare una buona fortuna perché a mio parere ne hai proprio bisogno.-

Ad una svolta del fiume ci apparve il Maggiolino che non era solo, ma tre giovani uomini, vestiti con vecchie tute da meccanico, stavano cercando di vedere cosa c’era dentro l’auto, parando con le mani i raggi del sole che con i suoi riflessi impediva la visione dell’interno. Si ritrassero appena ci videro arrivare e aspettarono tranquilli che li raggiungessimo.

Erano tre ragazzi più o meno dell’età di Samuele a lui si rivolsero con una fitta serie di domande che io non capii e neppure compresi le risposte che diede loro il mio passeggero. Nella vettura non avevo nulla a parte la macchina fotografica, ma compresi che loro desideravano altre cose. Fu Samuel a chiarirmi che erano in cerca di armi e munizioni da portare ai ribelli del fronte di liberazione dove gli avrebbero accettati solo se mostravano di essere in grado di diventare aspiranti guerriglieri rimediando delle armi, ma non rimasero delusi quando si resero conto che nel Maggiolino non c’era nulla che potesse interessare; in compenso conoscevano il luogo dove si trovava la concessione del nuovo ragazzo della giovane asmarina.

Samuel non mi spiegò cosa gli avevano offerto i tre i giovani, ma dovevano avergli prospettato qualcosa dl allettante per fargli decidere così sui due piedi di seguirli: non persero tempo. Samuel mi strinse la mano esprimendo riconoscenza di tutto e fui certo che aveva compreso anche la sparizione della sua. Pure gli altri mi salutarono dandomi la mano e in un baleno sparirono tutti, nascosti dalla sterpaglia.

Ero di nuovo solo, ma lungi dal sentirmi abbandonato, riacquistai quel senso di sicurezza che avevo provato al momento della partenza e che si era sopito con l’incontro con Samuel. Dopo di allora mi capitò spesso di andare in giro da solo per l’Eritrea, anche durante i lunghi anni di guerra. Accoglievo l’invito a dormire nelle capanne degli indigeni o in aperta campagna attorno a un fuoco nella zeriba di qualche pastore. Se la situazione militare era tranquilla, talvolta, lasciata l’auto in un centro abitato, proseguivo a piedi tornando poi indietro prima di notte.

Se transitavo attraverso qualche missione, di solito accettavo la loro ospitalità per un paio di giorni fornendo in cambio un aiuto medico per suggerire diagnosi e terapie o interventi particolarmente seri.

Vivevo un’esaltazione,forse esagerata, ma adoravo quegli eccessi. Andando in giro da solo, godevo ancora lo stato di piacevole solitudine e mi saturavo di quelle sensazioni di forza e di sicurezza, malgrado l’aria densa di tensione che si respirava in quei momenti in Eritrea; dal 1965 al 1968, vale a dire da 25 ai 28 anni, ero al culmine della mia giovinezza, pieno di salute e pervaso dall’onnipotenza dell’incosciente che mostra in momenti critici spavalda temerarietà senza un moto di paura.

Negli anni successivi ho continuato a tornare molto spesso in Eritrea, ma mi spostavo sempre in compagnia e non sono più stato preda del desiderio di andare in giro da solo, ma anzi mi sceglievo con cura le compagnie. Se oggi ripenso a quelle mie particolari gite in solitario, sono preso da un timore retrospettivo senza mai riuscire a ripristinare quella particolare condizione di esaltazione mentale della quale ero stato preda, e che mi aveva permesso di vivere momenti esaltanti di cui ho sempre mantenuto un piacevole ricordo.