Se lo storico Angelo Del Boca ha il merito di aver affrontato da solo e con coraggio la stesura della storia delle nostre ex colonie intraprendendo prima ricerche difficili ed analisi molto impegnative per poi scontrarsi con tante reticenze e resistenze che può capirle solo chi tenta di confrontarsi con queste problematiche, è anche vero che questo studioso è stato piuttosto superficiale quando ha più volte descritto gli italiani che si recavano in Africa Orientale come avventurieri, di scarsa potenzialità in Italia e che emigravano solo per allontanarsi da situazioni poco chiare nei territori natali.

Tutto ciò, se può trovare in parte riscontro nella storia dell’emigrazione italiana verso le Americhe, non è assolutamente dimostrabile per quanto riguarda l’Africa Orientale. Le affermazioni di Del Boca sono del tutto gratuite in quanto la provenienza ed il vissuto dei civili Italiani in Eritrea ed in Etiopia dimostra esattamente il contrario di ciò che lui ha sostenuto.

Non so se sarò del tutto imparziale in quanto discendo da una famiglia di emigranti: il pioniere della mia famiglia, Nicola Di Paolo, sbarcò in Eritrea nel 1886 come volontario nel Genio Militare da cui si congedò nel 1889; mio nonno rimase in  Africa, intuendo le potenzialità di lavoro che potevano presentarsi e, divenuto civile, iniziò la sua attività di artigiano. In un ventennio creò un clan famigliare di una sessantina di persone; le mie argomentazioni possono essere quindi di parte, ma cercherò di dimostrare con i fatti che Del Boca ha torto quando denigra gli emigranti italiani.

Per prima cosa, la storia dell’Eritrea ci mostra come un grandissimo numero di nobiluomini si siano offerti, fin dai primi anni dell’avventura italiana in Africa, di recarsi in Abissinia per ottemperare a compiti più vari: militari, politici, esplorativi, diplomatici ed altro.

Basti ricordare il conte Marazzani Visconti ed i suoi discendenti, il conte Ostini Giuseppe, il marchese Orazio Antinori, il conte Pietro Antonelli, Asinari Alessandro conte di San Marzano, il duca Astuto Riccardo, il marchese Berzetti di Buronzo Vittorio, il principe Chigi Albani Agostino, il conte Dal Verme Luchino, il conte Del Mayno Luchino, il marchese Giacomo Doria, il marchese Filiasi Francesco, i baroni Raimondo e Leopoldo Fianchetti.  Ma  nobili di rango continuarono a giungere in Eritrea anche dopo il 1930 e fra questi  menzioniamo  il conte Pasqualini Giuseppe, magistrato (1936), il conte Bolsi Ugo, il principe Carlo Ferdinando Borbone, il conte Giuseppe Colombini, il conte Vittorio Davico di Quittengo, il conte Della Porta Ladislao, il conte Emanuele Du Lac Capet, il marchese Alberto Favino di Santa Croce, il marchese Giuseppe Latilla e tanti altri.

Tutto ciò, oggi, non condizionerebbe alcun giudizio, ma alla fine dell’ ‘800 e nei primi anni del ‘900 la nobiltà era, almeno in generale, garante di comportamenti corretti. Basti ricordare poi che questi personaggi avevano come subalterni uno stuolo di collaboratori provenienti dalla nobiltà piemontese ed italiana. Le bibliografie di tanti di questi  personaggi dimostrano come codici cavallereschi e di onore fossero stati trapiantati dalla patria natia e come condizionassero la vita nella colonia.

Un altro momento importante avvenne, come vedremo, nei primi anni del ‘900, ed è Ferdinando Martini, nei  diari redatti durante il suo governatorato in Eritrea, che descrive come si preoccupò di far rimpatriare alcuni italiani dalla Colonia che “non avevano né arte, né parte” e quindi vivevano di sotterfugi e raggiri, dando una cattiva immagine agli indigeni. Ma erano poche persone e lui le fece rimpatriare tutte ed in fretta.

Il Martini  si adoperò inoltre per organizzare la giustizia in Eritrea onde poterla applicare agli indigeni e agli italiani in modo equo in rapporto ai luoghi ed ai costumi di quei luoghi. Nei diari giornalieri e precisi del Martini si può leggere come i reati commessi dagli europei fossero nella stragrande maggioranza dei casi  di pertinenza civile e solo raramente emergessero quelli penali. Non si può certo paragonare quindi l’Eritrea, nei primi decenni della sua esistenza, ad una colonia penale!

Una decina di anni dopo ad occuparsi attivamente delle colonie fu il fascismo al quale  possiamo attribuire tante colpe, ma non quella di aver permesso un’esportazione della malavita nelle colonie, semmai  avvenne proprio il contrario.

In ogni caso la dimostrazione più lampante della integrità morale  e della validità degli italiani in Eritrea è data dallo studio delle loro vite e della saga delle loro famiglie.

Ci sono dei punti comuni a tutte le storie di questa gente che rappresentano, tra l’altro, espressioni peculiari del buon emigrante italiano. La prima è senza alcun dubbio la grande capacità di adattamento, accompagnata sempre da quella formidabile creatività latina, propria del nostro popolo e che lo rende unico fra tutte le genti del mondo. E’ affascinante esaminare le singole vite dei nostri nonni, dei nostri padri, dei nostri zii che risiedevano in Eritrea.

Della vita dei pionieri e di tutti gli italiani che hanno vissuto nella nostra prima colonia se ne è occupato per tanti anni Gian Carlo Stella, titolare della Biblioteca Africana di Fusignano che con tanta pazienza e perseveranza ha ricostruito migliaia di storie: ha redatto 2200 pagine, delle quali sono già state pubblicate quelle inerenti alla lettera A.

L’aspetto che più  mi ha colpito nel leggere le saghe di tanta gente è stato quello che è ben difficile trovare, fra tutti gli emigranti, una persona che si sia occupata di una unica cosa: gli imprenditori industriali,  gli imprenditori edili, i professionisti , oltre alle loro specifiche attività, non riuscivano a fare a meno di dedicarsi chi all’agricoltura, chi alla pastorizia, chi alle ricerche minerarie e così via! Ma non solo loro, tutti gli artigiani si occupavano di più settori, i commercianti non disdegnavano  mai l’agricoltura sperimentale, la concia delle pelli, lo sfruttamento della madreperla, dell’agave,  la pesca delle perle, la ricerca di sostanze chimiche e di minerali. Ma quello che più stupisce  è che perfino funzionari statali ed insegnanti si dedicarono contemporaneamente ad attività le più svariate e tutte impregnate di grande creatività. Perfino semplici meccanici si ritrovarono a calarsi nei panni degli inventori, riciclando i materiali più vari, e dando vita a complesse apparecchiature  fortemente richieste da quell’esercito di persone proiettate verso la realizzazione di tante nuove attività.

Mio nonno, carpentiere, diventò prima falegname e poi commerciante di legnami e di mobili; mio padre fu prima impiegato di banca, poi importatore ed esportatore ed infine direttore di un sacchificio. Mio zio Oreste Martini impiantò prima la ditta di importazioni ed esportazioni  Pampuri e Martini a Massaua , poi, sempre a Massaua, aprì un albergo ed infine creò una concessione agraria nei pressi di Nefasit; mio zio Garbini Carlo lavorò prima come falegname, poi  allo sfruttamento di una miniera aurifera  per  dedicarsi infine alla manutenzione di locali cinematografici.

Mio cugino Alfredo Lazzarini si dedicò prima all’importazione ed esportazione ed in seguito diventò proprietario e gestore dei tre locali cinematografici più grandi di Asmara.

Potrei andare avanti a lungo con una marea di  esempi che riescono sempre a stupire. Se è vero che l’italiano è intraprendente e creativo per natura, è anche vero che l’ambiente doveva giocare un ruolo non indifferente nello stimolare la fantasia e la voglia di fare. Il tutto condito con un immenso spirito di collaborazione: fra gli italiani residenti in Eritrea non esistevano rivalità, sete di denaro, invidie e comportamenti scorretti nell’ambito del lavoro. E’ difficile dire perché la colonia eritrea fosse tanto diversa dalla  madrepatria. Si può sostenere che la lontananza crea sempre una sorta di  fraternità fra chi è distante da casa, che la presenza di genti diverse spinga quelle della stessa stirpe a compattarsi, ma ciò non spiega la grande forza trainante degli italiani in Eritrea verso gli indigeni e gli altri stranieri.

In soli cinquanta anni gli italiani hanno fatto dell’Eritrea uno stato che per quei tempi era un piccolo gioiello di funzionalità e modernismo. Belle città (da diecimila e duecentomila abitanti, anche oggi portate da tutto il mondo come esempio di splendida architettura coloniale), reti stradali con imponenti infrastrutture, porti, aeroporti, ferrovie, teleferiche, ospedali, ambulatori, centri di prevenzione e studio delle malattie tropicali, industrie le più varie, scuole, università, giornali, riviste, locali di divertimento, parchi, giardini zoologici, missioni di vari credi, miniere, centrali elettriche, laghi artificiali,  club,  e tutto ciò che può rendere un paese sicuro e piacevolmente vivibile. Difficile pensare che oggi, con tutta la moderna tecnologia di cui possiamo disporre, si riuscirebbe a creare dal nulla ed  in un periodo relativamente breve  qualcosa di simile.

Si può quindi tranquillamente affermare che gli italiani in Eritrea abbiano lavorato tenacemente e dando esempio di una grande efficienza.

Di questo se ne rese perfettamente conto il Negus Hailè Sellassiè che, benché avesse avuto  ragioni più che giustificate per scacciare dall’Abissinia tutti gli italiani, una volta reintegrato nei suoi ranghi alla fine della guerra in Africa Orientale, se ne guardò bene dal farlo ed anzi fece di tutto per far rimanere i civili italiani in Eritrea ed in Etiopia, dando loro la possibilità di continuare il lavoro intrapreso. Hailè Sellassiè  era, senza alcun dubbio, una persona di grande intelligenza e di capacità decisionali lungimiranti; non avrebbe esitato un attimo a ripulire il paese degli italiani se li avesse considerati degli avventurieri.

E gli italiani rimasero; continuarono a lavorare duramente anche se dovettero  subire e combattere il critico momento del terrorismo. Gli “scifta”, i banditi al soldo di chi voleva gli italiani fuori dall’Eritrea, ammazzavano i coloni, gli autisti, chi era costretto a lavorare in luoghi isolati. Molti di questi caduti morirono da eroi, difendendo il loro lavoro, le loro famiglie ed i loro subalterni, rifiutandosi di abbandonare le loro concessioni e di arrendersi alla politica del terrore.

Finito il terrorismo, gli italiani erano sempre là e solo la grande guerra tra Eritrea ed Etiopia ne ha causato l’esodo forzato; la maggioranza della mia famiglia (oltre l’80%) ha scelto il Sud Africa, l’Australia, l’America e  i paesi arabi dove emigrare e sono ancora là a lottare per crearsi  una vita ed un futuro per i propri discendenti.

Italiani brava gente dunque i civili che hanno abitato il Corno d’Africa, e lo possiamo affermare con orgoglio senza farci frastornare da chi, con poche parole, vorrebbe cancellare l’operato di tanti nuclei famigliari che hanno tenuto testa a tante vicissitudini e mantenuto sempre un aspetto dignitoso ed esemplare, con tutte le logiche riserve che il colonialismo necessariamente impone.

Nicky Di Paolo, 26-03-05